L’ultima casa

Un concerto degli Zen Circus

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Tutti in un garage, nei nostri garage, nelle nostre province, nelle nostre estraneità» allo scorrere delle cose, nel nostro deficiente domandare senso, direzione, pienezza, giustizia, cuori aperti, parole vere, «l’anarchia che la trovi dentro ogni emozione». Viene da pensare, a questo concerto sporco degli Zen Circus (poco fa all’Auditorium, ma per niente abbottonato, per niente cavea e bar desolante), che non siamo soli, che ci sono fratelli nascosti, superstiti clandestini che come noi non capiscono il senso, non vedono la direzione.

Ballano scomposti, accavallano le parole, si divertono come quando in mezzo al nulla vedi l’ultima casa, «l’ultima casa accogliente», che è il loro ultimo disco e un rifugio a questo manicomio triste e pieno di paura che è diventato il mondo. Le chitarre sembrano razzi verso l’altrove. Ufo, la voce numero due, ne è il sacerdote, Appino dolcissimo diavolo, sceso a spiegarci che, se vedi bene, la ribellione alla «normalità fatta sentenza» significa essere angeli estranei, abitanti degli angoli, poeti senza lettore.

Cioran, che a questa band piace (chi viene dalla provincia è sempre un esiliato), nel suo Sommario di decomposizione, diceva che la bontà la vedeva nell’uomo che non si muove: nel non vivere l’unica speranza possibile di non creare l attrito della prepotenza o quello della volgarità. Ma non è mai stato vero nemmeno per Cioran, che scriveva parole in cui il desiderio di esistere bene spingeva potente contro superficie della disperazione per lo stato delle cose.

Qui è una vita che balla, che non riconosce il palco e la platea, non vede la distinzione, metà concerto lo canta la tribuna, l’altra metà si sente male. Non apre questo viaggio malconcio e dolcissimo con i jeans strappati, «facendola per sempre finita col giudizio degli altri». «Siamo accendini senza sigarette, siamo fame e sete, siamo dei gradini», siamo «appesi alla luna», traccia intima nata a Lisbona in un locale dove, per non disturbare, si faceva musica sussurrano strumenti e voce. Sembra che siamo qui per incontrarci come i legnetti che sprigionano fuoco, cosi nelle canzonette, nelle parole mandate a memoria nelle stanze da soli, nasce la gioia del possibile e quella del riconoscersi.

Il lockdown non ha nessuna attenzione qui, ne hanno parlato solo per dire che «beh è strano poter dire di aver vissuto mentre non si viveva». Spazzano la paura, la solitudine con questa potenza che ci restituisce ad un futuro che può assomigliarci. Che può essere questa emozione che scende a cascate dalle tribune, che fa alzare in piedi come fosse la dichiarazione urlata che esistiamo, eccome se esistiamo.

Per tre ore abbiamo vissuto come si deve. Tra la magia della voce di Appino che si estende dai gradini più bassi della terra agli astri più alti nel cielo, tra l’amicizia tra lui e Ufo, che è tattile e viene dall’inizio, da quando in inglese spacciavano punk a Pisa. Tra la voglia di stare ancora un po’ per paura che, girando le spalle per andare, finisca la poesia. Per tre ore abbiamo vissuto come si deve: abbiamo vissuto commossi.

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