Morte per acqua

La poesia politica di Georg Heym

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Ernst Ludwig Kirchner, Umbra Vitae - progetto per la copertina della prima edizione. Collection UCLA Grunwald Center for the Graphic Arts, Hammer Museum. Foto Fred Grunwald.

Fratello di annegamento di Phlebas il fenicio, IV sezione, Death by Water, della Terra desolata di T.S. Eliot dieci anni più tardi, il venticinquenne Georg Heym sprofondò a Schwanenwerder, nella Havel ghiacciata, nel gennaio 1912: morto per acqua, come Ophelia, come l’anonima annegata dal volto di biacca, ein nackter Hals und bleiweiß ein Gesicht, come Phlebas, appunto, che forgot the cry of gulls e who was once handsome and tall as you.

Fu ripescato due settimane più tardi insieme all’amico Ernst Balcke, che aveva invano tentato di salvare. Dopo un’adolescenza a seguito del padre giurisperito dai Sudeti a Würzburg – dove anch’egli si laurea in legge – giunge finalmente a Berlino nel 1910, l’anno in cui esplode l’Espressionismo e tutto il vecchio regime culturale comincia a scricchiolare. Il giovanissimo poeta diventa subito una stella del Neopathetisches Cabaret di Kurt Hiller e poi del Neuer Club, pubblicando le prime poesie sul «Demokrat» e in volume (Der ewige Tag). L’editore di avanguardia Ernst Rowohlt, che aveva pubblicato il primo libro, ne gestì post mortem il lascito letterario, le 43 composizioni di Umbra vitae, poi ristampate dal Kurt Wolff Verlag di Monaco di Baviera nel 1922 e nel 1924 con 47 bellissime xilografie di Ludwig Kirchner, riprodotte ora dalla recente edizione Reklam e tradotte in italiano a cura di Massimo Palma per Castelvecchi (pp. 157, € 13,50). Impresa meritoria per risvegliare l’attenzione su un poeta che, malgrado le belle traduzioni precedenti di Paolo Chiarini, in Italia non ha mai abbastanza circolato.

Nella Berlino simmeliana del flusso ininterrotto delle forme, della circolazione perpetua del denaro e della rete delle S-Bahn, Heym avvertì il sentore della morte come Baudelaire l’aveva colto nel traffico dei boulevards, nei caffè e nel sesso. Le città all’imbrunire, con le loro strade accidentate, sono percorse da branchi minacciosi di cani. Ci inseguono, i denti bianchi e il sole di fuoco della sera: tote Strassen jagte mit grausamen Schwert. «Voi siate maledette» – inveisce il poeta in Verfluchtug der Städte, dove la città si erge in un mare di fiamme e il sole è una testa di toro che tende le corna, cinto di sangue scuro (von dunklem Blut bekräntzt). È già la unreal City, con il suo crepuscolo nebbioso, per citare ancora Eliot: under the brown fog of a winter dawn,/ A crowd flowed over London Bridge, so many,/I had not thought death had undone so many.

La luna si leva sanguinante dagli abissi di antiche città, aus der Hölle grosse Schlünde steigt, come rosseggia sul pallore umano nel Pierrot lunaire di Arnold Schönberg, composto nell’estate che seguì allo sprofondare di Heym nel ghiaccio. Oppure tramonta lasciando la città nella disperazione, im Dunkel ist die Nacht, e allora migliaia di finestre ammiccano con palpebre rosse e minute e le strade, che attraversano come vene la città non dànno più la caccia, ma rimbombano sorde e l’incendio minaccia da lontano con mano sguainata, mit gezückter Hand. Epitome della città è dunque la morgue, il deposito di morti umili, reietti, straziati, nei cui occhi bianchi abita già la notte e che cadranno a pezzi tra le risate della luna (ancora!), scendendo verso un vuoto nulla (ein leeres Nichts). La poesia spiacque a Lukács per motivi sbagliati ma in effetti è troppo dipendente dall’estetica baudelairiana del cadavere e dell’inorganico, molto più intenso e angosciante è allora la sua proiezione invernale (Der Winter), in cui la bufera ulula e ogni notte è rosso sangue e scura (blutigroth und dunkel) e noi «stiamo alle finestre gelate / e fissiamo di sbieco i cortili vuoti».

Pochi mesi prima Bruno Walter aveva eseguito a Monaco, postumo, Das Lied von der Erde di Gustav Mahler. Anche lì non mancava un cupo pessimismo, buia è la vita e pure la morte (dunkel ist das Leben, ist der Tod), ma almeno il congedo al tramonto era sereno, rassegnato. Ora invece tutta la natura e lo scenario urbano ci avvertono di un grande pericolo imminente e ci incalzano. La notte non dà pace né scampo. Tutto evoca il rombo dei cannoni, la luce dei bengala e delle esplosioni, tende verso la trincea e la strage. La guerra risorge dal fondo delle volte, spreme la luna nella mano nera, gridando sui monti: «voi guerrieri, tutti in piedi!». Notti buie, fiamme di vulcani, fumo giallo che invade la città (come poi avverrà con l’iprite sui campi di battaglia), pece e fuoco su Gomorra. Heym evoca e invoca una strage purificatrice o solo semplicemente necessaria, che il militarismo guglielmino tardò appena due anni dopo il suo annegamento a esaudire, con tanti amici e colleghi espressionisti che inizialmente si arruolarono volontari e ci lasciarono la pelle (Franz Marc, per dirne uno). La terra stava per essere sommersa da un diluvio rosso – annotò al proposito Walter Benjamin, definendo la sua poesia «veramente politica».

La Berlino di Heym non è la quieta Charlottenburg dell’infanzia benjaminiana, ma quella effervescente dei caffè letterari e della vita febbrile sul Ku’damm, quale esperisce un provinciale non nativo della Capitale. Il flâneur Franz Hessel (anch’egli collaboratore di Rowohlt) ci era arrivato a otto anni, sulla Genthinerstrasse, una traversa proprio del Ku’damm, ma poteva considerarsi un nativo acquisito (anzi, doppio nativo, paysan e Bauer, di Berlino e Parigi, dove visse prima della guerra, ma questa è la storia di Jules e Jim) e le sue due città furono più di passages che di cortili e rovine – la guerra la visse e non ne ebbe presagi o nostalgie.

Heym, invece, punta ad anticipare gli eventi, come scrive Massimo Palma nella densa introduzione, «delineando i moti collettivi di gruppi laterali al dominio e ai suoi dettami», i suicidi, i detenuti, i malati, i marinai, i carcerati, i matti, i poveri, i sordi – «la nuova umanità che della semiotica naturale non sa più nulla», «soggettività senza soggetto». Non si tratta però di una proiezione biografica, di un’esperienza di bohème e ribellione ai padri che Heym non condusse, piuttosto di una forma di politicità filtrata e resa possibile da processi di astrazione – nel senso del Kunstwollen di Alois Riegl, di una forma bruta di volere artistico che usa il naturale come significante disperso in un ambiente ostile», per usare ancora la consonante analisi di Palma e per comprendere l’affinità «gotica» con le illustrazioni di Kirchner. Proprio l’empatia per l’inorganico e l’adozione di forme letterarie tradizionali segnano l’originalità di un poeta «interrotto». Così che erede dimesso e anti-barocco del Nostro, nella sua discesa ai margini, verso gli esclusi che pretendono di alzarsi (wer stirbt, der sitzt sich auf, sich zu erheben…), sarà – dopo un’esperienza ben altrimenti devastante – Paul Celan, l’ultimo fratello morto per acqua nella Senna.

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