No border di tutto il mondo
Il matrimonio come pratica di lotta politica
Il sindaco di Riace, Domenico Lucano, è stato prima arrestato e poi sospeso dall’incarico con l’accusa, fra l’altro, di aver favorito dei «matrimoni di comodo» per permettere ad alcune immigrate di restare in Italia sposando uomini italiani. La lettura di questa notizia di cronaca mi ha riportato alla mente l’incipit di Orgoglio e pregiudizio: «È una verità universalmente riconosciuta che un uomo scapolo e ricco debba essere in cerca di una moglie». Jane Austen sceglieva di cominciare una delle sue opere principali con una considerazione sociologica: i matrimoni sono eventi con importanti implicazioni economiche. Persino quelli che nel libro sono presentati come matrimoni d’amore – le unioni tra Jane Bennet e Charles Bingley e tra la protagonista Elizabeth e Fitzwilliam Darcy – appaiono tutt’altro che estranei a questa dimensione (per fare soltanto un esempio: una delle ragioni che spingono Elizabeth a sposare Darcy è la straordinaria generosità d’animo dimostrata da questi – una generosità che sarebbe stata assai limitata nelle sue capacità espressive se non si fosse accompagnata ad un altrettanto ingente patrimonio). D’altro canto, un matrimonio (anche) d’amore è un lusso che una donna, superata una certa età, molto spesso non poteva permettersi – come Elizabeth si sentirà spiegare con veemenza dall’amica Charlotte, che accetterà di sposare l’orrido signor Collins dopo che quest’ultimo aveva chiesto in moglie prima di lei, senza risultati, le stesse Jane ed Elizabeth nei giorni precedenti.
Il quesito sorge dunque spontaneo: esistono matrimoni che non siano in qualche modo «di comodo»? È nota la risposta di uno degli alfieri del neoliberalismo, Gary Becker: «le persone innamorate possono ridurre il costo dei contatti frequenti e dei trasferimenti reciproci di risorse condividendo lo stesso nucleo familiare» – in altri termini: perché spendere una fortuna in carburante e bollette del telefono, quando possiamo sposarci e andare a vivere insieme? Come tutti i neoliberali, Becker è, in un certo senso, un inguaribile romantico: nel suo «mercato matrimoniale» sposarsi è una libera scelta, l’offerta e la domanda di unioni si incrociano magicamente in una sorta di vuoto cosmico e l’amore è una semplice variabile interveniente, che proviene da un altrove esterno alle relazioni di potere – un altrove, direbbe Foucault, che non esiste e non è mai esistito.
Alla ricostruzione di Becker si potrebbe, per cominciare, rivolgere una versione ampliata della vecchia obiezione marxista: così come il proletario non è realmente libero di firmare un contratto di lavoro (perché, essendo stato privato dei mezzi di produzione, non ha alternative rispetto allo sfruttamento capitalistico), le donne, per la grandissima parte della storia dell’istituzione matrimoniale, non hanno potuto decidere se sposarsi – riuscendo ad esprimere, al massimo, un qualche preferenza rispetto ad una pluralità di «pretendenti» (è curioso come il pretendente sia letteralmente «colui che pretende», mentre nella definizione che ne diamo spesso è più prossimo ad un candidato, ad un aspirante). Non è un caso, del resto, che studiose come Carol Pateman abbiano sviluppato delle ampie critiche del contratto matrimoniale sottolineandone proprio l’affinità con quello di lavoro.
Il matrimonio per come inteso da Becker, poi, è associato ad un certo ideale di domesticità, che colloca gli uomini nella sfera pubblica e le donne in quella privata – presupposto di questa separazione è una precisa divisione sessuale del lavoro. Come dimostrato dalla monumentale analisi storica di Silvia Federici, nella sua versione moderna questa domesticazione femminile affonda le proprie radici non in un processo spontaneo o casuale, ma in quella lunga fase di accumulazione originaria (avviata nei secoli XVI e XVII) che ha reso possibile la nascita della moderna economia capitalistica – che ancora oggi trova una delle proprie condizioni di sfondo in un’ampia mole di lavoro (non pagato) di cura e riproduzione sociale, il quale continua a essere svolto per la maggior parte da donne. Il fordismo e la socialdemocrazia, che siamo spesso tentati di trasformare ex-post in un’età dell’oro alla luce delle miserie del presente, si reggevano su un sistema che rendeva molto difficile per le donne guadagnare l’indipendenza economica, creando quindi per loro degli incentivi a sposarsi – ed a mantenere in piedi il modello della famiglia patriarcale monoreddito, accollandosi il lavoro domestico e di cura a titolo gratuito.
Con l’ingresso di un numero crescente di donne nella forza lavoro riconosciuta come tale, una dinamica di questo genere è per certi versi in ritirata (anche se ancora drammaticamente presente nel nostro paese), ma il matrimonio continua ad avere un’importanza socio-economica centrale pure nel contesto neoliberale che ha fatto seguito al fordismo: per fare un esempio, su di esso si incardina la struttura delle relazioni di eredità che, in uno scenario di mobilità sociale stagnante, condizionano pesantemente le prospettive di vita delle nuove generazioni. Di fronte alla crescente precarietà occupazionale anche per gli uomini (la cosiddetta femminilizzazione del lavoro), inoltre, per molte persone giovani a basso reddito sposarsi costituisce una delle poche opzioni di accesso al credito ed a tutta una serie di beni e servizi.
Sia pure per ragioni diametralmente diverse dalle sue, il nocciolo della tesi di Becker sembra dunque difficile da negare: è arduo concepire un matrimonio che non sia, almeno in parte, «di comodo» – non solo per motivi economici, ma anche strettamente giuridici: si pensi alla facoltà di poter far visita ad una persona in ospedale. L’amore, qualunque definizione si voglia darne, non è stato e non è estraneo a queste dinamiche, ma si presenta come immanente ad esse ed alla prerogativa sovrana, detenuta dallo Stato tramite i suoi funzionari, di unire due persone in matrimonio – o di dichiarare quest’ultimo nullo o estinto. Come ha scritto Federico Zappino: «nel paradigma sovrano, l’amore non è annullato, quanto piuttosto reso compatibile con esso, attraverso la sua proprietarizzazione. D’altronde, è in nome di questo amore che gli uomini scrivono sui muri «Tu sei mia»». Ciò non implica che non si possano pensare forme diverse – migliori, se vogliamo ricorrere ad un termine valutativo – di amore, ma che «ogniqualvolta che ci interroghiamo a proposito dell’amore ci troviamo pienamente immersi nel politico».
Le accuse rivolte al sindaco di Riace, tuttavia, si basano su una definizione molto particolare di «matrimonio di comodo», che nell’ordinamento italiano indica quelle unioni celebrate all’unico scopo di eludere le norme sull’ingresso e il soggiorno delle persone straniere – in altre parole, un caso di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Gli scopi del ricorso ad una tale pratica per un immigrato possono essere essenzialmente quattro: opporsi ad un provvedimento di espulsione; vedersi riconoscere un permesso di soggiorno per motivi familiari; ottenere la cancellazione di una segnalazione nel cosiddetto «registro Schengen»; ricevere la cittadinanza italiana dopo due o tre anni dalla contrazione del matrimonio (a seconda che si sia residenti o meno nel paese). È soprattutto sull’ultima eventualità che credo valga la pena soffermarsi.
Quello di cittadinanza è un concetto tanto ambiguo quanto interessante. I cittadini e le cittadine sono, a rigore, i componenti di quel popolo italiano cui la costituzione riconosce la titolarità della sovranità. Chi decide i confini di questo popolo, vale a dire il novero di persone cui appartiene la sovranità? In un regime democratico dovrebbero stabilirlo i cittadini stessi, al più tramite i propri rappresentanti – ma qui si entra in un ragionamento circolare: solo chi fa già parte del popolo ha titolo a esprimersi sull’estensione del popolo stesso. Questa impasse è nota, in teoria politica, con il nome di boundary problem. Da essa deriva una sfida che per le formazioni politiche populiste è specialmente urgente: decidere dove tracciare, anche retoricamente, la soglia tra chi è dentro e chi è fuori, tra chi rientra nel popolo il cui interesse tali compagini dichiarano di promuovere e chi no. Nel caso delle forze di maggioranza in Italia, l’urgenza è molto evidente: il significato, il costo e la missione di un provvedimento come il reddito di cittadinanza sono strettamente legati a chi può fregiarsi del titolo di cittadino; d’altro canto, se si guadagna il primo posto nei sondaggi al grido di «prima gli italiani», occorrerà ad essere pronti a spiegare quale sia il criterio per stabilire quanti possano diventarlo e quanti no.
Poiché il matrimonio costituisce una via d’accesso alla cittadinanza per le persone che non ne hanno diritto per nascita, non si fa fatica ad immaginare che chi è interessato a restringere, piuttosto che ad allargare, le maglie del popolo, guarderà a questo istituto giuridico con l’attenzione arcigna del poliziotto di frontiera. Non è difficile, spulciando tra le cronache locali degli ultimi anni, imbattersi in un numero crescente di articoli che trattano dell’arresto o della condanna di questa o quella persona italiana per aver ottenuto un corrispettivo in denaro in cambio della decisione di sposare uno straniero o una straniera – e in questo contesto di accresciuta sorveglianza delle pratiche matrimoniali si iscrive la malcelata esultanza dei principali esponenti di governo di fronte all’arresto di Lucano, ritenuto sul piano simbolico tra i principali oppositori delle politiche migratorie ultra-repressive promosse dall’attuale esecutivo.
Si noterà che finora ho fatto riferimento soltanto al matrimonio eterosessuale – ma ai fini dell’ottenimento della cittadinanza per naturalizzazione le unioni civili tra persone dello stesso sesso recentemente introdotte nell’ordinamento sono parificate a quella tra individui di sesso diverso. Vale forse la pena, al prezzo di una piccola digressione, di tracciare una connessione non scontata tra la questione dell’apertura dell’istituto matrimoniale ai cittadini dello stesso sesso e quella del diritto di cittadinanza. Anzitutto salta agli occhi un dato terminologico: nonostante il fatto che matrimonio e unione civile siano in buona parte giuridicamente parificati (sotto il profilo dell’acquisizione della cittadinanza così come sotto moltissimi altri), le parole che usiamo per definirli sono differenti – e non si tratta di un fenomeno solo italiano. Si avverte, in questa scelta del legislatore, una certa ansietà – quasi a voler esorcizzare sul piano formale la vicinanza sostanziale tra le due (per oppormi a questo uso, nel prosieguo dell’articolo, dove non indicato diversamente, userò i due termini come sinomimi). Al contempo, la distinzione lessicale contribuisce a fornire una parvenza di plausibilità alle disparità che ancora sussistono tra i due istituti giuridici – prima fra tutte quella in materia di adozione. Come osservava Judith Butler riflettendo sulla sfera pubblica francese, è possibile rintracciare una confluenza fra i dibattiti intorno alla «minaccia» rappresentata da persone gay con figli e quelli incentrati sulla «minaccia» dell’immigrazione: in entrambi i casi è presente l’idea che la cultura e l’identità della nazione – un concetto, sottolineava Hannah Arendt, strettamente legato a quello di nascita – siano in pericolo e vadano strenuamente difese.
Due partiti come il Movimento Cinque Stelle e la Lega, che pure a detta di molti avrebbero approcci assai diversi in materia di diritti civili, sono perfettamente complementari su questo punto. La seconda, che si è opposta durante la scorsa legislatura all’approvazione della norma sulle unioni civili e vede oggi la propria agenda in materia di politiche familiari nelle mani di uno dei più retrivi oppositori dei diritti lgbtq a livello nazionale, incarna una granitica coerenza nell’ostilità ai rischi di «contaminazione» derivanti da ambo le «minacce» – conquistando così il favore delle frange più nettamente reazionarie dell’elettorato. Il primo, che ha appoggiato le unioni civili ma non si è dimostrato nella pratica favorevole a includere nel provvedimento misure relative alle adozioni, può fare appello a settori più «moderati» dell’opinione pubblica, con la possibilità di giocare nel prossimo futuro la carta omonazionalista – cioè di provare ad arruolare parte del mondo lgbtq in funzione anti-migratoria, sottolineando ad esempio come il riconoscimento giuridico faticosamente ottenuto dalle coppie italiane dello stesso sesso venga ora «strumentalizzato» dalle persone straniere per restare nel paese.
Resta da comprendere come, da un punto di vista tecnico, le autorità statali pensino di sindacare tra matrimoni «autentici» e «di comodo» – potremmo dire: tra matrimoni di comodo leciti e illeciti. Senza entrare nei tecnicismi, norme sia europee che nazionali prevedono una serie di indici presuntivi che permetterebbero di considerare un’unione fittizia – ad esempio il fatto che i coniugi non conoscano dettagli basilari delle rispettive identità, non possano comunicare in una lingua nota a entrambi, o che il coniuge in possesso della cittadinanza abbia ricevuto un corrispettivo in denaro per sposarsi. La giurisprudenza in materia, tuttavia, è ricca di incertezze e ambiguità, come testimonia il fatto che la Cassazione abbia affermato a margine di una recente sentenza (10392/2016) che la mancata convivenza non costituisce, di per sé, motivo sufficiente ad affermare l’assenza di autenticità del vincolo matrimoniale.
È proprio qui che la distinzione giuridica tra matrimoni «di comodo» e non vede sgretolarsi il terreno sotto i suoi stessi piedi: come notava Carlotta Cossutta in un breve commento alla notizia dell’arresto di Lucano, oggi un numero sempre più ampio di unioni «lecite» agli occhi dell’ordinamento non soddisfa i tradizionali requisiti di legge che dovrebbero indicarne la «legittimità» (la convivenza, la fedeltà, ecc.). La realtà per la quale non esistono unioni aliene alla dimensione della convenienza viene nascosta sempre più a fatica dalla foglia di fico degli indici presuntivi – per non parlare del fatto che l’accertamento di questi ultimi è un’attività lunga e costosa per le autorità, che giocoforza non potrebbe svolgersi efficacemente se i casi interessati fossero assai numerosi.
Un matrimonio o unione civile espressamente ed unicamente «di comodo» (in cui, chiaramente, non si dia alcuna transazione, finanziaria o di altra natura, a spese della persona straniera) potrebbe diventare una pratica di resistenza alle attuali politiche migratorie? Ci sono molte persone italiane che non sono già sposate e non hanno intenzione di entrare in un’unione «tradizionale» («di comodo» in un modo accettabile per l’ordinamento) nel prossimo futuro. E se queste persone sposassero un o una migrante per dar loro la possibilità di restare in Italia? Un fattore problematico da tenere in considerazione è che il ricorso consapevolmente strategico all’istituto matrimoniale non ne farebbe evaporare da un momento all’altro il pesante retroterra patriarcale, capitalistico ed eteronormativo. Ci sarebbe anzitutto il rischio di quella che ancora Butler definisce un’intensificazione della normalizzazione: chi non avesse la possibilità o l’intenzione di sposarsi per regolarizzare la propria situazione migratoria diverrebbe due volte escluso, scivolando in una condizione di irrappresentabilità ed abiezione ancora più profonda, mentre il potere dello stato di decidere quali forme di vivere comune siano legittime e quali no ne risulterebbe rafforzato. Ciò non varrebbe soltanto per il matrimonio, ma anche – evidenziava giustamente Gianfranco Rebucini rispetto al caso specifico delle unioni civili – per quell’arbitrio politico-giuridico che è la cittadinanza intesa come unica via di accesso a dei diritti fondamentali.
Credo ci siano, tuttavia, delle ragioni per ritenere che tali complessità non siano sufficienti a neutralizzare l’efficacia dell’unione «di comodo» come potenziale strumento di politica radicale. Anzitutto, parte della nozione stessa di matrimonio è l’idea di un legame non eterno, ma a tempo indeterminato: da chi si sposa non ci aspetta che abbia già deciso la data del divorzio, e la funzionalità dell’istituto al mantenimento di disuguaglianze economiche e di genere si fonda proprio sul suo carattere di medio-lungo periodo. Sfruttando le diverse temporalità di matrimonio e cittadinanza (una volta ottenuta la seconda, la persona straniera la conserva anche dopo la fine del primo), l’unione «di comodo» potrebbe invece implicare fin dal principio il proprio venir meno – smontando in un secondo tempo quella stessa idea di legame sanzionato dal potere che rafforzerebbe in un primo momento, e mostrandone il carattere letteralmente fallimentare.
In secondo luogo, i criteri di concessione della cittadinanza, più o meno inclusivi che essi siano, pongono concettualmente il suo ottenimento per quanti non la ricevono alla nascita nell’ambito dell’eccezione: chi non è italiano al momento di venire al mondo non lo sarà prevedibilmente nemmeno dopo, se non in casi particolari. In un’ottica giuridica, invece, il matrimonio segue uno schema opposto: chiunque, dati dei requisiti di stato civile, può sposarsi in Italia. Nel momento in cui la secondo logica si diffondesse significativamente, alla stregua di un parassita, all’interno della prima, ne produrrebbe un cortocircuito, contribuendo a metterne a nudo la natura aporetica e largamente irrazionale. In terza istanza, il matrimonio è, da sempre, uno dei bastioni di guarda del razzismo nelle sue varie manifestazioni. Tutti i regimi di segregazione razziale hanno implementato divieti più o meno severi per le unioni «miste», che restano infrequenti anche quando la segregazione smette di essere attuata per legge ma permane in forme spettrali (si pensi soltanto alla segregazione abitativa). Ricorrere ad un’unione civile in una chiave esplicitamente antirazzista potrebbe perciò diventare uno strumento retorico importante per creare degli spazi di contro-egemonia rispetto alla propaganda razzista sempre più dilagante nel nostro paese. Da ultimo, offrire ad una persona straniera la garanzia del permesso di soggiorno o della cittadinanza allenterebbe quel meccanismo ricattatorio che lega il rinnovo del permesso al possesso di un contratto di lavoro – costringendo così moltissimi immigrati ad accettare condizioni occupazionali di durezza inaudita.
Si tratterebbe, con ogni evidenza, non di una pratica rivoluzionaria, ma di una tattica di resistenza da maneggiare con cura – e che in ogni caso non cancellerebbe mai del tutto l’asimmetria di potere che si verrebbe a creare tra la persona migrante bisognosa di riconoscimento giuridico e quella italiana in grado di fare da tramite per ottenerlo. Di fronte ad un numero crescente di casi di italiani che entrano in unioni «di comodo» per ragioni di tornaconto economico o sessuale – sfumatura quest’ultima che stando alle carte giudiziarie (per un cui commento di grande lucidità rimando al lavoro di Giulia Fabini e Caterina Peroni) non sembrerebbe del tutto assente nemmeno nella vicenda che ha coinvolto Lucano , i cui numerosi meriti restano comunque indiscutibili ed al quale non può che andare un pensiero solidale in queste difficili giornate -, credo si tratti nondimeno di uno strumento da prendere in seria considerazione.
Occorrerà capire fino a che punto una pratica come quella qui discussa possa sfruttare dei punti ciechi nella legislazione e nella giurisprudenza attuali e quanto invece essa costituirebbe inevitabilmente una violazione palese delle norme – configurandosi quindi come una sorta di atto di disobbedienza civile -, ma sono questioni che lascio volentieri ai giuristi. Per parte mia, mi limito a notare che, qualora si decidesse di proporre una campagna di matrimoni «di comodo» in chiave antirazzista, una parafrasi della chiusa di un vecchio manifesto offrirebbe un efficace slogan: no border di tutto il mondo, unitevi (civilmente)!
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