Come funziona il cuore estetico del comunismo? In questa seconda parte del Focus sul Sensibile comune si prova a rispondere con interventi di : Jacques Rancière, Giorgio Passerone, Ilaria Bussoni, Claire Fontaine, >…
Non comune
Non la smettiamo un secondo di «fare del comune» e di «essere fatti dal comune». Tutto sta nel sapere quale
A prima vista sembrerebbe paradossale presentare, nell’ambito di questa mostra e nel contesto di una conferenza sul comunismo, una relazione dedicata al non comune. Per spiegare questa scelta devo cominciare scartando subito un malinteso. Il non comune di cui parlo non è l’individuale, il separato, l’unico. Per abbordare la questione del comune e del comunismo bisogna uscire dalla concezione che oppone la comunità alla solitudine o all’egoismo dell’individuo separato. In molti discorsi che vengono fatti sul comune, la comunità o il comunismo, è come se si trattasse di creare un comune che non esiste, come se la condizione degli individui nelle nostre società fosse una condizione di isolamento da denunciare, e cui dovremmo porre rimedio. Ci trasciniamo dietro ancora oggi la visione secondo cui il socialismo e il comunismo del XIX secolo hanno ereditato il pensiero contro-rivoluzionario. Questa visione ha fatto della Rivoluzione francese il compimento della catastrofe individualista moderna cominciata col protestantismo e proseguita con l’Illuminismo. Questo individualismo avrebbe strappato gli individui alla solidarietà e alla protezione del grande tessuto sociale costituito dalle gerarchie tradizionali, trasformandoli in atomi isolati. Ma conviene uscire da questa drammaturgia tragica dell’individualismo. Noi non siamo in alcun modo degli esseri isolati. I nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre azioni individuali si inseriscono in una moltitudine di forme di comunità.
La questione non è quella di passare dall’isolamento alla comunità, ma di sapere a quale comunità apparteniamo e vogliamo appartenere. E di sapere quale forma di comunità costruiamo non appena apriamo la bocca e combiniamo tra loro dei segni, non appena utilizziamo le mani per portare a termine un compito o per indicare un compito da fare, non appena ci affacciamo alla finestra e associamo un senso e un affetto allo spettacolo che ci viene offerto. Non la smettiamo un secondo di «fare del comune» e di «essere fatti dal comune». Tutto sta nel sapere quale.
Il comunismo è lo stato in cui l’esercizio dei sensi umani è il suo stesso fine
Tale questione è al centro dell’unica argomentazione un po’ consistente che Marx abbia dedicato alla nozione di comunismo, cioè del Terzo dei Manoscritti del 1844. Non si tratta qui di opporre la comunità alla solitudine, ma di opporre un’umanità a un’altra umanità, un mondo sensibile a un altro mondo sensibile. Il problema del comunismo è quello dell’umanizzazione dei sensi umani. Un problema che non deriva dalla contro-rivoluzione e dalla sua nostalgia del perduto paradiso non egualitario. Deriva piuttosto dalla rivoluzione estetica e dal suo modo di porre il problema dell’uguaglianza nell’ordine del sensibile. Il principio della distribuzione non egualitaria del sensibile era stato riassunto nel Settecento da una frase di Voltaire: l’uomo colto – diceva il filosofo – ha sensi diversi rispetto all’uomo incolto. Ai suoi tempi l’uomo colto era il proprietario, cioè l’uomo che, grazie ai redditi della sua proprietà, era dispensato dalle bassezze legate all’utilità quotidiana. La grande rottura affermata da Kant e sviluppata da Schiller consisteva nel mettere proprietà e utilità dalla stessa parte: il giudizio estetico, dice Kant, definisce un’universalità di tipo nuovo, una forma di ricezione del sensibile cui tutti avrebbero il diritto di partecipare, perché indifferente all’esistenza reale di un oggetto, indifferente a ciò che fa di una forma sensibile una cosa utile a un fine preciso e un oggetto appartenente a un proprietario. E questi sono esattamente i punti con cui Marx, nel Terzo dei Manoscritti del 1844, definisce l’umanizzazione «comunista» dei sensi umani. Il comunismo è lo stato in cui l’esercizio dei sensi umani è il suo stesso fine, in cui tale esercizio non è più sottomesso alla volgarità dei bisogni, che è essa stessa conseguenza diretta della proprietà. È l’uscita dal regno umano-inumano della proprietà e dell’utilità. È un movimento d’universalizzazione che appartiene allo stesso universo sensibile, e non più a un salto dalla particolarità sensibile all’universalità intellegibile. Nei Manoscritti del 1844 l’universalità è chiamata allseitigkeit: cioè il fatto di prendere la cosa da tutti gli angoli, di sviluppare tutte le virtualità delle nostre capacità di rapporto con le cose e con gli altri.
Da un lato c’è il possesso da parte degli uni dei beni di cui gli altri sono privati; dall’altro c’è il fatto che gli uni e gli altri si «appropriano», si conformano alla loro condizione, sono muniti dei sensi che corrispondono al loro posto, dei sensi che corrispondono al loro possesso o al loro spossessamento
Questa universalità, questo sviluppo di una sensibilità umana fondata sulla partecipazione di tutti a tutte le capacità del senso umano è per Marx doppiamente impossibile nel mondo comune così come è dato, ossia nel mondo della proprietà privata. In questo mondo ci sono quelli che hanno a che fare con un mondo comune privatizzato, ridotto alla sfera dell’utilità, e ci sono quelli che hanno accesso a un mondo comune arricchito e al godimento dell’inutile. Ma questa capacità è soltanto l’altra faccia dell’incapacità degli altri. Questo godimento riguarda soltanto ciò che viene loro rifiutato. È il godimento, anch’esso unilaterale, della proprietà. Il mondo comune dove vivono insieme proprietari e proletari è doppiamente limitato dalla proprietà. E «proprietà» vuol dire due cose: da un lato c’è il possesso da parte degli uni dei beni di cui gli altri sono privati; dall’altro c’è il fatto che gli uni e gli altri si «appropriano», si conformano alla loro condizione, sono muniti dei sensi che corrispondono al loro posto, dei sensi che corrispondono al loro possesso o al loro spossessamento. A partire da questo si può definire una prima immagine di quello che io chiamo il non comune: il non comune è, in un primo senso, ciò che è escluso da questo mondo comune che ripartisce gli esseri in uomini dell’utilità e uomini della proprietà. Ma è anche lo sradicamento da quel mondo comune in cui gli uni e gli altri si conformano alla loro condizione. Sradicamento che implica anch’esso un doppio processo. Appropriarsi del comune da cui si è esclusi significa disfarsi dell’identità che si ha nel mondo comune dato. E significa anche spossessare il comune di cui ci si appropria delle sue proprietà.
Per spiegare il significato di questi enunciati vado indietro di dodici anni rispetto ai Manoscritti del 1844. Nella primavera del 1832 quaranta giovani adepti della teoria saint-simoniana formano, nella proprietà di uno di loro, una comunità in cui tutti partecipano alle varie mansioni in egual misura. In mezzo a quei giovani apostoli borghesi ci sono tre operai. Uno di loro è il piastrellista Bergier, operaio istruito e appassionato di poesia. Bergier vuole convincere l’amico, il falegname Gaunay, anch’egli poeta, a unirsi alla comunità, e gli scrive: «Presto lascerai quel mondo, in cui io non dico più ciò che tu dici ancora con Victor Hugo: “I miei giorni se ne vanno di sogno in sogno”. Chi meglio di noi può sentire tutto il dolore espresso da questi versi, noi che abbiamo cercato così tante volte di mostrarci alla luce del giorno senza poterci riuscire; noi che conosciamo tutti i piaceri che Dio ha sparso sulla terra per tutti e che noi non abbiamo mai assaporato, se non con l’immaginazione?».
Trasformando le loro mani-strumenti in mani-penne, già si sono spogliati dell’identità operaia, dei suoi orari e dei suoi modi di essere, di pensare e di parlare. Entrambi hanno già cominciato a vivere in due mondi contemporaneamente
Vale la pena chiarire qui le varie forme di non comune e di rapporto tra comune e non comune che ci vengono indicate dalle righe sopracitate. La lettera oppone due mondi: il mondo in cui vive Bergier, cioè un mondo in cui la servitù è scomparsa e in cui tutte le azioni hanno uguale dignità, e il mondo ordinario in cui vive Gauny. Ma se il primo può chiedere al secondo di raggiungerlo, è perché entrambi si sono già resi estranei al comune ordinario dentro il quale si definisce l’utilità dei lavoratori e la forma di vita utile corrispondente. Trasformando le loro mani-strumenti in mani-penne già si sono spogliati dell’identità operaia, dei suoi orari e dei suoi modi di essere, di pensare e di parlare. Entrambi hanno già cominciato a vivere in due mondi contemporaneamente. Ma questo essere che vive in due mondi contemporaneamente è formulato da un estraneo alla loro classe: Victor Hugo, poeta riconosciuto come tale nella distribuzione normale delle attività. Hugo lo dice nel modo apparentemente meno adatto a caratterizzare il lavoro del falegname: «I miei giorni se ne vanno di sogno in sogno». A quanto pare il falegname, come dice una famosa canzone, ha «troppo da fare per poter sognare». La sua giornata va piuttosto di obbligo in obbligo, di fatica in fatica e di rabbia in rabbia. Ma l’interpretazione di Bergier rovescia le cose: sono gli operai a sapere che cosa significa il verso del poeta «borghese». Per loro il «sogno» non sta nell’inoperosità e nelle fantasticherie. La loro condizione è caratterizzata proprio dalla doppia negazione del comune: la loro esclusione dall’ordine del visibile e la loro esclusione dal godimento delle ricchezze sensibili, che tuttavia conoscono e di cui hanno la capacità di godere.
La rivoluzione estetica è, da un lato, lo spossessamento delle opere artistiche, la loro separazione dalle loro funzioni sociali e dalle identità che esprimevano o dalle gerarchie che servivano
Insomma i due operai si appropriano del comune esibendo il non comune che li separa da esso ben due volte. Ma se ne impadroniscono con un doppio movimento di spossessamento: si separano dalla loro condizione, che enunciano nei termini «inappropriati» del poeta, ma al tempo stesso spossessano il poema, trasformandone lo status e il senso per fargli esprimere una cosa diversa da quella che il poeta ha voluto dire, una cosa diversa da quella espressa dalle sue parole. Queste due operazioni mi sembrano definire i due grandi processi che compongono la rivoluzione estetica e che legano originariamente l’idea comunista a questa rivoluzione. La rivoluzione estetica è, da un lato, lo spossessamento delle opere artistiche, la loro separazione dalle loro funzioni sociali e dalle identità che esprimevano o dalle gerarchie che servivano. È la costituzione di un «comune sensibile» fatto della perdita delle loro appartenenze comunitarie. Dall’altro lato, è lo sviluppo di tutte le imprese tramite le quali coloro che erano rinchiusi in un mondo comune che li destinava a dei posti precisi, a delle identità e a dei modi d’essere separati, affermano non soltanto il loro desiderio, ma anche la loro capacità di godere di tutti i godimenti sensibili.
Il cuore estetico del comunismo è l’abolizione della separazione tra il fine di un’attività e i suoi mezzi. È la non separazione tra la lotta contro la proprietà privata e la lotta contro l’utilità
Questo doppio movimento dà materia all’idea dell’umanizzazione dei sensi umani. Ma nella definizione moderna dell’idea comunista la forza di questo doppio movimento è stata rimossa in due modi. Innanzitutto è stata rimossa dalla visione del comunismo come divenire comune delle individualità isolate. E, più radicalmente, è stata rimossa dalla contraddizione che fa del comunismo un fine da raggiungere, quando il cuore estetico del comunismo è l’abolizione della separazione tra il fine di un’attività e i suoi mezzi. È la non separazione tra la lotta contro la proprietà privata e la lotta contro l’utilità. Ed è anche la non separazione delle diverse forme di lotta contro la proprietà. La storia del comunismo come movimento politico-sociale è stata quella di una nuova separazione e gerarchizzazione tra gli inseparabili che erano, nella definizione estetica del comunismo, la lotta contro la proprietà privata e la lotta contro l’utilità. Essa ha posto come condizione del comunismo a venire un’istanza d’identificazione comunitaria della forza sociale volta a distruggere l’ordine proprietario. E ha cercato di respingere le forme di spossessamento dalla parte dell’individualismo retrogrado o dell’estetismo. C’è stato anche qualche momento di felice connubio: la democrazia whitmaniana della poesia nuova. E c’è stato anche il momento della rivoluzione sovietica, in cui gli artisti si sono impegnati a fabbricare non più opere d’arte, ma le forme di una vita comune. Ma, essenzialmente, possiamo dire che la politica comunista si è concentrata sulla produzione del comune come messa in comune del separato e appropriazione dei mezzi al fine del comune a venire.
Al tempo stesso, il legame tra le forme di spossessamento dell’arte e le aspirazioni di uomini e donne del popolo desiderosi di accedere a tutta la ricchezza dell’esperienza sensibile si è allentato. L’arte ha cercato di far sua l’esibizione del non comune e le forme paradossali della sua inclusione nel comune. Essa si è consacrata in particolar modo a elaborare forme del comune che includessero ciò che eccede i limiti dell’assembramento politico e le condizioni normali della comunicazione, ciò che non si può assembrare e ciò che non si può comunicare.
È l’operazione dell’arte in generale: l’operazione che libera gli oggetti dagli automatismi della percezione comune e li trasforma in qualcosa di totalmente nuovo, qualcosa che viene percepito per la prima volta
È così che, tre anni dopo la morte di Marx, due scrittori russi, uno nipote di un servo della gleba e l’altro figlio di aristocratici, scrivono ciascuno un racconto che mette in scena in maniera esemplare il rapporto tra comune e non comune, partendo dal rapporto tra un uomo e un cavallo. Il racconto di Cechov intitolato Angoscia ci narra di un vetturino che tenta invano di destare l’interesse dei clienti frettolosi sulla disgrazia appena subita, cioè la morte del figlio. Il vetturino dovrà aspettare la fine della corsa per trovare qualcuno cui raccontare il suo dolore. Il suo uditore, l’unico che non può rifiutarsi di ascoltarlo, è un essere privato del linguaggio umano: il suo cavallo. Nel racconto di Tolstoj intitolato Cholstomer è invece un cavallo a parlare. L’animale descrive quello che percepisce del mondo degli umani e quello che capisce o non capisce della loro lingua. Non capisce il loro uso di alcune parole, specie dei pronomi possessivi. Gli uomini dicono «i miei cavalli» per parlare di animali che non montano, non accudiscono e di cui non sanno nemmeno dove sia la stalla. Sappiamo che questo racconto di Tolstoj ha avuto una sorte particolare. È proprio a suo proposito che Viktor Chklovski ha elaborato la nozione di ostranene o estrangement, che in seguito Brecht ha tradotto con Verfremdung, anche a costo di cambiarne completamente il senso. In Chklovski l’estrangement non è lo strumento specifico di un’arte politica. È l’operazione dell’arte in generale: l’operazione che libera gli oggetti dagli automatismi della percezione comune e li trasforma in qualcosa di totalmente nuovo, qualcosa che viene percepito per la prima volta. Possiamo dire che la percezione del cavallo è una critica radicale della proprietà: essa infatti stabilisce una visibilità del mondo comune in cui questa nozione non ha alcuna realtà, in cui è del tutto insensata. Ma questa «critica» della proprietà che definisce ciò che appartiene all’arte non ha conseguenze definibili nel mondo in cui i comunisti lottano contro la proprietà capitalista. Essa non definisce alcuna utilità al di fuori del tipo di comunità che l’opera stessa compone tra le parole e le parole, tra le parole e le cose, tra l’umano e il non umano. Per farne una critica «utile» alla lotta contro la proprietà, Brecht deve rovesciare la funzione dell’estrangement. Per Chklovski era destinato a sottrarre le cose al mondo dei significati comuni per restituirle al mondo di una percezione senza proprietà e senza utilità. Per Brecht, al contrario, è destinato a fare apparire un significato nascosto. L’assenza di senso prodotta dall’operazione diventa una tappa che conduce alla scoperta del senso di questo non senso, alla presa di coscienza della realtà sociale conflittuale che spiega le estraneità della scena. Lascio da parte il presupposto legato a questo rovesciamento, cioè che la conoscenza della realtà sociale produce l’energia per trasformarla. Qui mi interessa il fatto che due pensieri apparentemente opposti, il pensiero dell’autonomia dell’arte e quello della sua funzione critica, in realtà poggino sulla stessa base. Al di là della loro opposizione c’è la stessa figura principiale illustrata dalla «comunicazione» tra l’uomo e il cavallo: quella di una messa in comune di ciò che non può essere comune, di un’inclusione dell’escluso che gli fa spazio e al contempo lo lascia nella sua condizione di non comune, di elemento impossibile da includere. Al tempo stesso questa forma di inclusione del non comune contesta i criteri contraddittori con i quali si è voluta definire la modernità artistica e letteraria: identificazione diretta dell’arte e della vita o concentrazione dell’arte sui suoi materiali e sulle sue procedure; impegno critico dell’arte o bando radicale dell’irrappresentabile e del sublime.
Vorrei commentare questa inclusione del non comune attraverso due opere letterarie rappresentative di ciò che viene chiamato modernità e un’opera cinematografica rappresentativa della situazione contemporanea dell’arte. Partirò dalla Signora Dalloway di Virginia Woolf, che può essere considerato una fiaba esemplare del rapporto tra comune e non comune. Da un lato il libro mostra una certa figura della democrazia sensibile cancellando le linee di demarcazione definite dalle gerarchie sociali. Le passeggiate di Clarissa Dalloway e del vecchio spasimante Peter Walsh offrono l’occasione di evocare una moltitudine di avvenimenti sensibili che creano comunità, allargandosi in cerchi che includono nello stesso mondo sensibile quelli che ne erano separati dalla casualità della nascita: i passanti di ogni origine che si sforzano tutti insieme di decifrare le lettere di fumo tracciate da un aereo, i gruppi che realizzano dietro le finestre aperte strane coreografie o le domestiche che si godono il nuovo passatempo dell’ora legale. Ma questo tipo di democrazia whitmaniana trova un punto di arresto in due personaggi: innanzitutto il matto, Septimus, che vede in tutti questi avvenimenti sensibili i segni di una nuova religione che spetterà a lui annunciare al mondo. Septimus è doppiamente una figura del non comune: da un lato è il fratello minore del piastrellista Bergier e del falegname Gauny, un figlio del popolo autodidatta che ha voluto conoscere l’esistenza poetica normalmente rifiutata alla gente della sua classe. Ma l’autrice ha associato questa figura sociale del non comune a un’altra figura più radicale: all’incrinatura mentale del giovane traumatizzato dalla guerra. E l’ha fatto a costo di associare questa incrinatura mentale alla sua stessa incrinatura, quella che lei condivide (e non condivide) col suo personaggio. Ma accanto a Septimus c’è una figura ancora più radicale del non comune: quella di un essere umano diventato indissociabile dall’animale, dalla vegetazione o dalla cosa inanimata. Questa figura è incarnata da una forma tremante, simile a un albero spoglio e battuto dal vento la cui voce senza età né sesso, simile al rumore di una pompa arrugginita, mormora, vicino all’entrata di una metropolitana, un canto intelligibile senza principio né fine.
Fare in modo che ciò che non è nulla sia tutto è il programma stesso della rivoluzione francese, trasformato da un verso dell’Internazionale in programma della rivoluzione socialista
Far parlare questa «pompa arrugginita», renderne il suono articolabile e la musica condivisa, è la sfida di un romanzo scritto tre anni dopo da William Faulkner, L’urlo e il furore. Possiamo affermare che il programma del romanzo è riassunto nelle poche righe dell’ultima parte che ci descrivono il lamento del sordomuto, l’idiota Benjy: «Non era nulla. Puro suono. Avrebbe potuto essere tutto il tempo e l’ingiustizia e il dolore resi per un attimo vocali da una congiunzione di pianeti». Sappiamo che fare in modo che ciò che non è nulla sia tutto è il programma stesso della rivoluzione francese, trasformato da un verso dell’Internazionale in programma della rivoluzione socialista. Sappiamo anche che il passaggio dal rumore della sofferenza alla parola che dice il giusto e l’ingiusto segna da Aristotele in poi la nascita della politica come appannaggio dell’uomo. Nel mio libro La mésentente ho commentato la fiaba della nascita della politica proposta dal racconto della secessione dei plebei romani sull’Aventino riscritto da Ballanche all’epoca delle rivoluzioni moderne: perché le loro rivendicazioni vengano sentite, i plebei devono innanzitutto far sentire che parlano a dei patrizi, ma il loro gesto è fisicamente impossibile: per i patrizi, infatti, in ciò che esce dalla bocca dei plebei non c’è alcuna parola, ma soltanto «un suono fuggitivo, specie di muggito, segno del bisogno e non manifestazione dell’intelligenza». La scena originale della politica è quella in cui coloro che nessuno sente parlare, che nessuno «vede» parlare, dimostrano, parlando, che ciò che esce dalla loro bocca non è un lamento, ma è l’esposizione di una giustizia. Potremmo dire che le due frasi di Faulkner sul lamento dell’idiota ci offrono una scena originale della letteratura, simmetrica a questa scena originale della politica. Simmetrica e asimmetrica. Perché ovviamente l’idiota non potrà mai prendere la parola per dimostrare che parla. Sta a allo scrittore, e a lui soltanto, dare voce a «tutto il tempo e l’ingiustizia e il dolore» contenuti nel suo gemito. Ma ciò vuol dire anche che lo scrittore esercita una forma di giustizia che va oltre i poteri di assembramento politico, facendo parlare coloro che radicalmente non possono parlare, coloro che non possono partecipare all’assembramento politico.
Questa forma di giustizia può ricordare la «riparazione» proposta dal film di Kader Attia, Reflecting Memory, che abbiamo appena visto. Ma a mio avviso essa è il contrario. Il film trasforma l’ingiustizia coloniale e postcoloniale in trauma. E per mostrarci questo trauma monta in parallelo piani di corpi assolutamente immobili e silenziosi con interviste di accademici e medici che ci spiegano le ragioni della loro prostrazione sviluppando essenzialmente le tesi freudiane sul lutto e la melanconia. Faulkner fa l’opposto: trasforma il trauma in ingiustizia. Non spiega e non ripara nulla. Dà voce a chi è senza voce. E lo fa in un modo molto particolare: assimila il mutismo dell’idiota a un altro mutismo, quello della parola scritta, che secondo Platone è muta, perché non ha una voce che le appartenga davvero, non ha un’autorità che la guidi nel percorso e la adatti all’uso di un destinatario definito. Di fatto, nel romanzo l’idiota Benjy ha la stessa modalità di parola di suo fratello Quentin, studente di Harvard. Il romanzo costruisce così il mondo sensibile comune nel quale il lamento è percepito come discorso. La smantellamento delle voci e dei tempi che caratterizza questo mondo comune così costruito viene a contraddire il tempo comune e il mondo comune gestito dal terzo fratello, l’uomo ragionevole, il piccolo capitalista Jason. Viene a ritardare indefinitamente il momento in cui quest’ultimo potrà essere padrone in casa sua e mandare il fratello al manicomio.
Questa forma di comunità che esibisce il non comune e include l’irreparabile senza ripararlo è certamente molto lontana da ciò che in genere ci si aspetta dall’arte
Questa forma di comunità che esibisce il non comune e include l’irreparabile senza ripararlo è certamente molto lontana da ciò che in genere ci si aspetta dall’arte. Mi sembra tuttavia corrispondere meglio alle esigenze del nostro tempo rispetto alle proposte di un’arte riparatrice e riconciliatrice che riecheggiano in alcuni settori del mondo dell’arte. Questa formula mi sembra estremamente attuale in un mondo in cui la sorte dell’idiota che si vuole spedire in manicomio diventa quella di intere popolazioni relegate in campi ai margini del mondo comune. Vorrei allora terminare questa riflessione parlando di un film che mi sembra presentare in maniera esemplare la figura odierna del non comune nel cuore del comune. La storia di un operaio edile dei nostri tempi, la cui vita scorre di sogno in sogno come quella dei colleghi francesi degli anni Trenta dell’Ottocento. Un’altra storia di un uomo e di un cavallo che è anche un’altra storia di incrinatura mentale e di ospedale. Cavalo Dinheiro è il titolo dell’ultimo film che Pedro Costa ha dedicato ai lavoratori emigrati di Capo Verde nella periferia di Lisbona, e in particolar modo al muratore ormai in pensione Ventura. «Dinheiro» e il nome del cavallo che l’emigrato ha dovuto lasciare nel suo paese quando è partito per cercare fortuna in Portogallo. È anche, ovviamente, il nome del denaro, il nome della potenza finanziaria che ha fatto della vita di Ventura ciò che è: la vita di un personaggio che è la dimostrazione dei Manoscritti del 1844 (il film precedente ce lo mostrava mentre lo sbattevano fuori da un museo che aveva contribuito a costruire); la vita di un personaggio che è al contempo al centro della vita del mondo comune capitalista di oggi e al margine di qualsiasi mondo comune, al confine tra la vita e la morte, ma anche tra la lucidità assoluta e la malattia mentale. Per parlare di queste vite che sono al tempo stesso nel cuore del mondo comune dominante ed escluse da qualsiasi mondo, Pedro Costa ha scelto una forma narrativa in cui l’indagine sulla realtà nuda e il racconto fantastico sono indissociabili. Gli episodi di queste vite prendono la forma di allucinazioni in cui presente e passato, personale e impersonale, reale e immaginario si intrecciano in maniera inestricabile. Gli aggressori e le vittime si scambiano i ruoli, così come i medici e i malati nell’ospedale dove quelle vite si spengono. Questo racconto fantastico culmina in un lungo dialogo senza dialogo tra il lavoratore emigrato diventato malato di mente e il soldato del monumento alla rivoluzione portoghese dei garofani, in cui ciascuno domanda all’altro cosa ha fatto della sua vita e delle promesse di umanità che conteneva.
Questa poetica dell’inconciliabile può sembrare poco adatta ad accompagnare le nuove energie che da sei anni si sono dispiegate nelle piazze di alcune città dei nostri paesi. Sappiamo che queste hanno doppiamente reintrodotto nel nostro presente l’idea di un sensibile comune e di un comunismo del sensibile. Da un lato hanno materializzato il loro rifiuto globale del mondo dominante nell’occupazione di uno spazio deviato dall’uso normale e nell’instaurazione di un tempo sottratto alle scansioni abituali. Dall’altro, hanno riscoperto una capacità di essere, sentire, pensare e agire insieme in tutti gli aspetti della vita. Talvolta è stato rimproverato a quei movimenti di essersi compiaciuti troppo nella semplice affermazione del piacere di stare insieme e della parola data a tutti in maniera egualitaria. Forse gli è mancata la capacità di mettere in scena il non comune nel cuore del comune. Ed è forse a questo compito che una certa crudeltà dell’arte può contribuire oggi.
Intervento pronunciato in occasione di Sensibile comune. Le opere vive
[Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, 14-22 gennaio 2017] nell’ambito delle serate «Parole Comuni», 19-20 gennaio,
organizzate in collaborazione con l’Institut Français Italia.
Traduzione di Camilla Diaz
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