Ecceità

Kommunisten di Jean-Marie Straub

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Kinkaleri, Sensibile comune - Le opere vive, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea, Roma (14 -22 gennaio 2017).

L’écceità è l’evento che bisogna vivere, e farlo concretamente 

La parola comune di cui dovrei trattare suona così «ecceità». Gilles Deleuze (e Felix Guattari) l’hanno coniata negli anni Settanta, riprendendo a proprio conto la nozione di haecceitas del teologo mediaevale francescano (non a caso) Duns Scoto per determinare un modo d’individuazione differente da quello di una persona, di un soggetto, di una cosa o di una sostanza. Duns Scoto crea la parola e il concetto a partire de haec, questa cosa, ma in haecceitas c’è anche ecce, ecco qui. Ecceità. Una stagione, un inverno, un’estate, un’ora, una data, una donna o un uomo (ecce homo) hanno un’individualità perfetta benché essa non si confonda con quella di una cosa o di un soggetto. Sono ecceità nel senso in cui tutto in essi è rapporto di movimento e di riposo tra molecole e particelle (longitudine) e gradi di potenza intensiva (potere di essere affetto e di dare affezione) su un piano di consistenza, un piano filmico anche. L’ecceità è uno dei concetti più pratici di tutta la filosofia deleuziana che rivoluziona il modo politico, estetico di pensare. Perché l’écceità è l’evento che bisogna vivere, e farlo concretamente. Lo propongo qui presentando qualche flash di premessa alla proiezione di Kommunisten di Jean Marie Straub.

Il film che lo introduce è un grido: La guerra d’Algeria! il grido di Jean-Marie Straub in persona, renitente al servizio militare, esule in Germania dal 1958 al 1969, prima del suo viaggio in Italia, con Danièle H. È la storia iper-contratta di una guarigione dal trauma della colonizzazione. Ma non si può guarire da soli, come persone, la guarigione bisogna farla sempre in comune, perché è nel comune «che troviamo la parte migliore, la singolarità irriducibile che siamo».

Questo è Kommunisten, non il comunismo sfigurato dal socialismo reale, ma la maniera in cui degli uomini e delle donne diventano comunisti (aggettivo, modo di vivere, e di filmare) 

Questo è Kommunisten, non il comunismo sfigurato dal socialismo reale, ma la maniera in cui degli uomini e delle donne diventano comunisti (aggettivo, modo di vivere, e di filmare). Il film è composto da cinque blocchi più uno: i cinque blocchi della filmografia precedente, in pellicola, compongono il ritmo musicale, la variazione continua, per fratture, di una traversata del secolo breve che dispiega il leitmotiv ispiratore della prima parte, numerica, e inedita.

La traversata è annunciata del pathos dell’inno della Repubblica Democratica tedesca di Hans Eisler (l’amico di Brecht) Auferstanden aus ruinen che è il rimaneggiamento di una bagatella di Beethoven e che soprattutto non si deve ridurre alla celebrazione di quello che sarà la Stato della Stasi: ciò che vediamo ed ascoltiamo nei piani seguenti (a partire dal romanzo di Malraux Le temps du mépris, condensato al massimo come sempre), è l’atto di resistenza di un comunista tedesco, l’interrogatorio, la prigione, il ritorno dalla donna amata, al momento della presa di potere e delle prime persecuzioni del terzo Reich. Lotta, combattimento, contro questo intollerabile, ma anche combattimento tra sé e sé, con la donna che ne diviene l’interceditrice. Tre folgorazioni, una su sfondo nero (Jean-Marie non filma la prigione e la tortura, Bresson e Rossellini sono bastati).

E passiamo di colpo all’archivio che si trasforma piuttosto in una nuova cartografia intensiva, trans-storica del XX secolo.

È al di fuori di sé che trova la forza di cambiare e il rapporto che continua a crescere con la sua donna fa tutt’uno con la capacità di costruire la gioia del villaggio in comune 

Il primo estratto proviene da Operai, contadini: siamo in una foresta toscana, davanti a un gruppo di sfollati che sta costruendo una comunità. Il personaggio catalizzatore, Ventura, un corpo glorioso dall’elocuzione senza intenzione, tutta in flessione e accenti tonici ineguali, deve disfarsi del fascista che era. Egli spiega come è al di fuori di sé che trova la forza di cambiare (una litania …«come se fossi cambiato») e come il rapporto che continua a crescere con la sua donna faccia tutt’uno con la capacità di costruire la gioia del villaggio in comune, né privata né pubblica, senza di che non c’è gioia. Ed è vertiginoso, come il verde vibratorio dei piani che conferiscono al testo re-citato di Vittorini un’inaudita (alla lettera) ampiezza visiva di sensazioni.

Secondo estratto: l’uscita di fabbrica, al cambio turno, nel sud dell’Egitto, dieci minuti di un unico piano fisso: le lotte di classe del 1919 contro i colonizzatori, evocate all’inizio dalla voce off (un testo di Mahmud Hussein, Le lotte di classe in Egitto) agitano il va e vieni formicolante di questi contadini e operai, nobili, degni e anche burleschi che passano, né troppo vicino né troppo lontano, davanti alla cinepresa. Siderazione. La storia delle lotte di classe si cristallizza nel quotidiano del 1980, la data delle riprese di Trop tôt, trop tard.

È la linea di cresta dell’orizzonte che rende loro misteriosamente ciò che a loro è stato strappato, il desiderio vivo e mortale, da una generazione all’altra, di queste visioni e audizioni stratigrafiche, proprio perché i massacrati non possono più né vederle né udirle 

Poi, altro taglio brusco: 1967, la guerra dei Sei Giorni, e Franco Fortini, il marxista e l’ebreo eterodosso, traditore della sua classe borghese, rilegge nove anni più tardi il libello che aveva scritto allora. Le dieci panoramiche delle Apuane sondano i luoghi dove nel 1943 i nazifascisti avevano massacrato intere popolazioni. Ed è la linea di cresta dell’orizzonte che rende loro misteriosamente ciò che a loro è stato strappato, il desiderio vivo e mortale, da una generazione all’altra, di queste visioni e audizioni stratigrafiche, proprio perché i massacrati non possono più né vederle né udirle. Ascoltate il suono delle campane che si alza dalle colline della terza pano: sono le 10 e si diventa (attenzione e pazienza), si entra in quell’ora, lo spazio condensato in tempo cronico. Fortini sul patio in fiore della sua casa dell’isola d’Elba, è l’ecceità di questo divenire irriducibile alla storia scritta sempre dai vincitori, questo divenire che solleva, dalla terra, l’oblio dei vinti. Il poeta evoca «il sogno marxiano di una cosa», «l’enorme sogno degli uomini», anche dei più anonimi sterminati nei lager; e smaschera la retorica del Nazismo Male in sé, che si compiace nella denuncia della sua aberrazione passando sotto silenzio le sue convivenze storiche con il Kapitale, salvo a legittimare la nuova oppressione dello Stato d’Israele sui palestinesi (ieri come oggi).

Quarto e quinto estratto: la meditazione audio-visiva delle due sequenze precedenti si trasforma in delirio, il delirio-desiderio «perché il verde della terra brilli di nuovo per noi»: è l’utopia comunista della Mort d’Empedocle, il piano dell’Etna con le sue variazioni atmosferiche, e poi il piano di Danièle Huillet (Noir péché) che scandisce a fior della terra nuda «neue Welt», «Nuovo mondo», una domanda nell’affermazione, sulle dissonance dell’ultimo Beethoven – il qurtetto 135, la decisione presa difficilmente «Muß es sein? Es muß sein!». «Deve essere? Deve essere!». Da un Beethoven all’altro, da una donna innamorata all’altra («benedizione su di lei fino all’apparizione dell’aurora» – il gesto trasformato in canto della donna del Temps du mépris».

«Berith» si traduce «alleanza». Questa alleanza laica non rinvia a una psicologia di coppia ma ad una relazione/di fuori – gli Straub – che ha continuato e continua a tessere alleanze, anche la nuova, per i più lontani 

Certo, si può considerare Kommunisten come un film «summa» che riunisce le stazioni di vita e di lavoro della coppia Straub-Huillet: lo straniamento inaudito di tre lingue, la francese, la tedesca e l’italiana, e la spaesamento dei loro territori (cartografia). Più di uno spettatore se ne è commosso e vi ha letto una specie di testamento di J-M.S. Diremmo loro: ancora una sforzo… A meno che non se ne ritenga il senso etimologico del termine in ebraico (l’etimologia a volte può aiutare): «berith» si traduce «alleanza». Questa alleanza laica non rinvia a una psicologia di coppia ma ad una relazione/di fuori – gli Straub – che ha continuato e continua a tessere alleanze, anche la nuova, la più intima (Barbara Ulrich) per i più lontani. E chi sono i più lontani se non le nuove generazioni a cui è indirizzato di fatto il loro cinema? A una sola condizione preliminare, definita all’inizio del secolo breve, non a caso nel 1917, da Antonio Gramsci: «Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino, partigiano. L’indifferenza è abulia, parassitismo, vigliaccheria, non vita». E nel l919, l’anno dei Consigli operai a Torino, ma anche della sconfitta della rivoluzione spartachista: «agitatevi perché avremo bisogno del vostro entusiasmo; organizzatevi perché avremo bisogno della vostra forza; studiate perché avremo bisogno della vostra intelligenza».

Tutti i loro dispositivi filmici, forma e materia-contenuto, una nell’altra, condensano lo studio artigianale di una poesia materiale e la pazienza di una agitazione organizzata (senza alcuna egemonia centralizzata, fosse pure quella dell’autore)  

Allora l’incontro con gli Straub, presunti vintage, che hanno sempre fatto del cinema per stimolare dei cittadini e non per intrattenere gli spettatori avrà luogo e ora. Perché tutti i loro dispositivi filmici, forma e materia-contenuto, una nell’altra, condensano lo studio artigianale di una poesia materiale e la pazienza di una agitazione organizzata (senza alcuna egemonia centralizzata, fosse pure quella dell’autore). Vorrei, prima dalla visione che va sperimentata molto più che interpretata, ritornare a Gilles Deleuze (oscuro, esigente e gioioso precursore, fuori dalle mode, le deleuziane incluse) e a un suo con-versare davanti agli studenti di cinema della Femis a Parigi (1987).

Gilles Deleuze pone la domanda «cos’è un atto di creazione?» per finire con l’eguagliarlo all’atto di resistenza. E cita precisamente il cinema degli Straub: «solo l’atto di resistenza resiste alla morte e all’intollerabile sia nella forma di un’opera d’arte – artigianato –, sia nella forma di una lotta dei più oppressi degli uomini». Aggiunge che il rapporto tra queste due facce è il rapporto più misterioso eppure il più stretto. Sono parole terribilmente semplici, cioè le più complicate da vivere e da pensare – ieri come oggi. Gli Straub ce le fanno vedere e sentire.

E la meta non è unirsi a Dio, ma sperimentare qui e ora il desiderio-deserto comune, fuori da tutti i poteri privati e pubblici, che l’immagine audio-visiva straubiana ci fa percepire, alla maniera spinoziana, fuori da ogni figura teologica: la continuità d’immanenza tra la natura naturante e la natura naturata, umana e non umana 

La lotta degli uomini contro le diaboliche potenze dell’avvenire – ecco cos’è anche Kommunisten, ma non solo questo film, perche gli Straub hanno sempre detto che nella loro opera – reticente al cosiddetto cinema politicamente impegnato – solo due volte hanno lanciato un messaggio, ma senza queste due volte si fraintenderebbe tutto e il cinema non sarebbe che cinema. Alla prima che innerva Kommunisten, l’utopia comunista dell’Empedocle, bisogna aggiungere la seconda, alla fine del terzo atto incompiuto del Mosé e Aronne, da Schoenberg: il congedo di Mosé, sui bordi del lago Matese, il suo appello al popolo che c’è e non c’è ancora: «ma nel deserto, siete invincibili e raggiungerete la meta: uniti a Dio». E la meta non è unirsi a Dio, ma sperimentare qui e ora il desiderio-deserto comune, fuori da tutti i poteri privati e pubblici, che l’immagine audio-visiva straubiana ci fa percepire, alla maniera spinoziana, fuori da ogni figura teologica: la continuità d’immanenza tra la natura naturante e la natura naturata, umana e non umana.

Ed è in questa mutazione della percezione che ci fa passare dal senso comune al senso del comune che consiste la seconda faccia, in stretta presupposizione con l’altra, dell’atto di resistenza. L’artigianato straubiano costruisce sotto il segno della parole di Rosa Luxembourg: «la sorte di un insetto, tra la vita e la morte, ha la stessa importanza della sorte della rivoluzione» e implica una lotta tra sé e sé – dei cineasti e deli attori che resistono ai testi che a loro volta resistono ad essi 

Mistica giudeo-cristiana e mistica comunista incrociate, contro ogno dogma? Forse, ma mistica immanente radicale: «la sola cosa in cui credo è la fine del capitalismo» , taglia corto Jean-Marie. Perché il cinema degli Straub è la vita indomita al lavoro (e non «la morte al lavoro» di Cocteau) paziente alla più infima vibrazione di questa natura di cui la tecnica scarnificata e antitecnologica dei loro film fa parte. Ed è in questa mutazione della percezione che ci fa passare dal senso comune al senso del comune che consiste la seconda faccia, in stretta presupposizione con l’altra, dell’atto di resistenza. L’artigianato straubiano costruisce sotto il segno della parole di Rosa Luxembourg: «la sorte di un insetto, tra la vita e la morte, ha la stessa importanza della sorte della rivoluzione» e implica una lotta tra sé e sé – dei cineasti e deli attori che resistono ai testi che a loro volta resistono ad essi. L’artigianato vuol dire allora filmare non come fine in sé i dettagli più infimi, i rapporti di movimenti e di riposo tra ogni millimetro del piano: una lucertola, un frinire di uccelli, una foglia nel vento, il sorriso impercettibile di Bach o un gesto raro… alla fine del primo blocco di Kommunisten, la donna prende la mano di Kassner il compagno liberato dalla prigione (un compagno), la porta alla sua tempia, carezza contro di essa il proprio volto e la sua voce benedice la loro relazione/resistenza e quella di tutto il mondo: «benedizione su di lei fino all’apparizione dell’aurora».

Ecceità tra le ecceità. A pugno chiuso.

Intervento pronunciato in occasione di Sensibile comune. Le opere vive [Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, 14-22 gennaio 2017] nell’ambito delle serate «Parole Comuni», 19-20 gennaio,
organizzate in collaborazione con  l’Institut Français Italia. 

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