Impresa circense e regola d’arte

Per un’estetica dello scarto

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Olivier Kosta-Théfaine, Sensibile comune - Le opere vive, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea, Roma (14 - 22 gennaio 2017).

Nuovi operai del politecnico: senza regola d’arte
 

«Questa non è la curatela di una mostra, è un’impresa circense». Il commento proviene da Claire Fontaine, l’artista, da Fulvia, l’amica, entrambe convocate a prender parte a quell’architettura di relazione di nuovo genere che è stata, e sarà ancora una volta nella primavera 2018, l’operaviva di sensibile comune. L’espressione coglie alla lettera l’inclinazione manageriale utile a immaginare una mostra che, nella cornice di un desiderio di comunismo, forse un po’ frustrato, occasionato dal centenario della rivoluzione d’ottobre con relativa conferenza, allestisse una scena delle pratiche dell’uguaglianza, lungo la scia delle arti, al tempo della loro differenza. L’uno dei curatori l’ha definita «mostro», l’altro opera di «funambolismo», a riprova che comune era la percezione sensibile di qualcosa di anomalo alle prese con uno spazio tutto sommato classico quale una galleria nazionale. La terza, dei curators, direbbe che fu l’improvvisazione di una regola d’arte da parte dei nuovi operai del politecnico.

Toward an Architecture of Enjoyment 

A ispirarla, dall’altro capo di Roma, lungo un asse nord contro sud che in quest’ultimo agguanta anche l’est, è un quartiere che si direbbe marginale benché il nome letterario, a torto attribuito a Tor Pignattara, adiacente al Mandrione ma privo delle arcate dell’acquedotto Felice. Lì, a cavallo di una guerra mondiale, la seconda, si ritrovarono a vivere nella prossimità di quel che oggi si sarebbe chiamata una favela una comunità di senza parte, malfattori, scampati e indesiderabili a seconda delle definizioni delle scienze sociali a venire. Karl Marx, non poco sospettoso per quell’uno irriducibile uno, borsaiolo, adeguato all’espediente, corrotto dalle opportunità, avrebbe detto semplicemente lumpen questa scena dell’infamia incapace di darsi il nome e la composizione di una classe. Senza parte, e senza l’arte di una nobile tradizione operaia né artigiana cui rifarsi. A pochi passi da quel quartiere nel quale si accostarono le baracche e i muri non definirono perimetri, ma strutture portanti valevoli almeno per due, i partiti dell’emancipazione sociale e cristiana costruirono edifici a più piani in grado di reggere il futuro: il pensiero dell’altrui emancipazione intrisa di cemento e modernismo. A guardare quel che resta, del sapere improvvisato dei molti multiformi, non segmentabili se non in traiettorie devianti, dello scarto appunto, e della capacità d’immaginazione organica dell’intelletto di partito con missione di riscatto e propaganda della classe lavoratrice, viene da chiedersi a quale delle due intenzioni di ingegno della vita futura il filosofo Henry Lefebvre avrebbe rivolto l’espressione «architettura del godimento». Al geometrico e sanitario alveare delle api operaie pensato con il supporto della speculazione nel boom economico o a quelle invenzioni scombinate di calce e mattoni, inclini al terreno, capaci chissà se nei richiami di decorazioni liberty copiate dai borghesi o in quale altro dettaglio della vegetazione di flirtare con l’aria di mare? La domanda serve per retorica. Il quartiere che fu preoperaio e oggi ne è il post, intriso di una durata provvisoria, serve da esempio di un percorso dell’emancipazione che non passa per il sapere del proprio dominio, ma per la costituzione di un corpo, dell’uno, dei molti, votato al godimento.

Quale la regola della creazione? Quale la regola della relazione? 

Interrogare le arti nel contesto della perifrasi sensibile comune significa allora, anzitutto, interrogare non tanto quelle pratiche della vita quotidiana nelle quali si sono dissolti fin dalle avanguardie storiche i processi presuntamente privilegiati della creazione artistica, quanto la capacità di creazione delle pratiche ordinarie come processo di riconfigurazione dell’esperienza quotidiana. Quella capacità di tutti di rendere la vita qualcos’altro da quella che è. Che ciò possa accadere dentro un museo nazionale durante una mostra, nel giardino di infestanti di un quartiere di periferia o in un rapporto d’amore non varia il peso della duplice domanda, che non ha luoghi privilegiati per porsi, né per darsi risposta: quale la regola della creazione? Quale la regola della relazione?

Nello strappo che rivendica per sé la facoltà di dare una forma anziché ricavarla si può vedere uno dei tanti momenti infami del processo «moderno» di formazione dell’individuo 

Sulla prima, la creazione, l’orizzonte liberale ben precedente il neoliberismo ha garantito alle arti la rottura del vincolo esecutivo del gesto. «Non ha l’ottimo artista alcun concetto, c’un marmo solo in sé non circonscriva», ancora denunciava Michelangelo nell’incipit del sonetto dedicato a Vittoria Colonna, «e a solo quello arriva la man che ubbidisce all’intelletto». La creazione è qui quel processo subordinato alla forma dell’opera, governato dal suo fine e dal suo bene. La mobilità della mano è ancorata alla regola dell’esecuzione artigiana e la forma che essa produce è racchiusa per natura nella materia. La potenza è così sbilanciata sul fronte del marmo e la mano non può che eseguirla. Siamo ancora nel pieno di quel conflitto di lunga durata che, finendo per sancire la libertà del gesto d’artista, avrebbe dovuto far passare la potenza della creazione dalle cose all’intelletto, di un individuo capace di dimostrare di averlo. Certo, nello strappo che rivendica per sé la facoltà di dare una forma anziché ricavarla, rubando così la virtù dalla proprietà delle cose e degli attrezzi adeguati a corrisponderla, si può vedere uno dei tanti momenti infami del processo «moderno» di formazione dell’individuo. E qui: l’artista rompe con la tradizione degli anonimi costruttori di cattedrali, con la corporazione degli artigiani, e si separa dal corpo collettivo che nel Medioevo è la forma di un «comune». Per farlo, dovrà far coincidere facoltà e proprietà individuale, e rinchiudere la propria virtù dentro il recinto di una parola – artista –, non senza averla prima sottratta a quell’impronta servile che per secoli l’apparenta all’artigiano per portarla nei pressi delle arti liberali, quali ad esempio l’architettura.

Le architetture del godimento sono in costruzione 

La scena è quella di un tradimento: l’uno rompe col collettivo cui è assegnato, il nome proprio s’impone e la vita anonima si fa biografia mentre rivendica per sé la libertà. Da cosa? prima che dalla produzione estetica, da appartenenze e tributi corporativi. Di cosa? prima che del soggetto, di un gesto della mano provvisoriamente fuori da una guida. L’infamia continuerà a ripetersi: con la scapigliata bohème che per sfuggire al destino della messa al lavoro ne farà un privilegio d’artista, rompendo con l’ambiente dei molti dal quale ha ricavato gli attrezzi per vivere nell’espediente; con le classi pericolose, refrattarie alla disciplina, che continueranno a preferire la vita improvvisata di alleanze estemporanee a quella del riscatto nello stakanovismo; con gli untorelli bolognesi di un ’77 affacciato sull’opportunismo e il disincanto del decennio Ottanta, pronti a convertire i motti di spirito contro i carrarmati del Pci in slogan per Publitalia; con l’autonomia del lavoro operaio, che finirà in quella d’impresa. Chi resta, continuerà a guardare chi fugge con gli occhi dell’infamia e i tratti della fuga resteranno invarianti: finirà sempre male. Le architetture del godimento sono in costruzione.

Un’arte del vivere che procede per scarti, sovrapposizioni, interstizi, ubiquità, ostinata quanto gli insetti, che opera nel rigore di un’immanenza delle pratiche che è continuo esercizio della capacità di tutti di rendere la vita qualcos’altro da quella che è 

Allora, assumere che la scena dentro la quale si agita con varie titolazioni la creatività messa al lavoro, dacché la circoscrizione dell’intelletto può dare qualche regola al marmo e non solo a quello, sia un’invariante dell’assoluta infamità è la premessa per interrogare lo statuto della relazione tra questi nuovi operai del politecnico sfuggiti alle corporazioni, alle appartenenze, pure alle classi e alle corrispondenti normazioni del loro operare. Tanto più se nel contesto di una mostra di e con artisti. I quali, sovente, al pari di altri, non sono affatto estranei a quel paradosso chiamato divisione del lavoro nell’epoca della sua massima socializzazione. Certo anche al mondo dell’arte la sociologia illuminata ha impresso il dagherrotipo della denuncia di precarietà, lavoro gratuito, brand biografico, impresa di sé, aura finanziaria: sotto la materia brillante di quanto esibito ne sta una nera invisibile, «dark matter» sfruttata e chiamasi forza-lavoro; Damien Hirst si avvale di una banda di operai a servizio sottopagati; da Picasso si è smesso di contarle le biografie affermate di un contemporaneo popolato da trader e scommettitori di futures… Eccome, la scena è la stessa: agita anime dannate finite nella continuità di una vita nella quale sì che si è dissolta gran parte delle arti, sì che è il luogo di enclosure calcificate con presa sui soggetti e sulle biografie, e, ancora, sì che ha un tasso elevato di frequentazione tra traditori e fuggiaschi. Eppure è la stessa nella quale si dispiega un’arte del vivere che procede per scarti, sovrapposizioni, interstizi, ubiquità, ostinata quanto gli insetti, che opera nel rigore di un’immanenza delle pratiche che è continuo esercizio della capacità di tutti di rendere la vita qualcos’altro da quella che è. È un desiderio, non la sua invocazione, tradotto in un font tipografico congegnale alla pagina di bianco benché il redattore sia privo di contratto; in un film di poetica «amatoriale», come direbbe Fabrizio Ferraro, che stenterà a raggiungere le sale; in una rivista online di estetica e possibile, priva di convenienza accademica; nell’acidità di un vino naturale, che se ne frega di uscire dalla doc ed essere chiamato da tavola. «Ci sono una valanga di vite che si sviluppano tra più mondi, che si costruiscono arti di vivere allo stesso tempo nella precarietà di una condizione e nel lusso di un pensiero». La frase è di Jacques Rancière e rimanda a quel modo di intendere l’emancipazione che «è sempre anche un modo di vivere altrimenti nel mondo qual è».

Disallineamento: il lusso di agire lo scarto 

Ed è allora anzitutto a un principio di estetica diffusa che si è ispirato un evento che fu l’allestimento di pratiche della creazione – fatte di suoni, alcuni anche dotati di senso, mobilità corporee, figurazioni, performance, immagini in movimento –, giunte dentro una galleria nazionale non per la loro pertinenza col contenuto «sensibile comune», bensì ciascuna per il proprio disallineamento tra il praticante abilitato, il sapere titolante e il lusso dell’agire lo scarto. Nel piacere di fare altro, da quel che si è. Così, lasciata all’ingresso, sotto la luce di un terzo paesaggio di Pellizza Da Volpedo, la domanda contemporanea chi oggi è artista? cosa è arte?, la dead-line di un F24 può svolazzare negli ornamenti di un gonfalone che qualcuno anzitutto si è divertito a cucire (Eva Macali), il battito cardiaco di un’ecografia diagnostica traduce il futuro anteriore dell’esito con un testo di carezze per l’amato e per chi ascolta (Fiamma Di Montezemolo), e i fiori di scotch da pacco sottratti a un accampamento abusivo per abbellire lo sfondo dei marmi dell’Eur prolungano lungo un mezzanino la natura naturata di una balla di fieno dell’arte povera (Olivier Kosta-Théfaine). Così, mentre l’amica artigiana di liuti barocchi imbarca un avvitatore all’aeroporto di Zurigo per installare da sé l’onda dello human microphone che da Zuccotti Park sbatte su Roma, le identità dei due Alessandro, l’uno elettricista, l’altro genialità collettiva, si scambiano di posto nell’allungare i cavi di una rete Lan e di un sistema d’illuminazione, e il Treccia, assoldato dell’ultima ora, attinge alle risorse da road crew della ventennale autoproduzione dei centri sociali romani, non senza il segno d’intesa e di stima, benché le differenze di criniera, per il tecnico audio giunto dalla produzione del Grande Fratello, il quale per compensazione del proprio lavoro avrà una scheda audio hd. Rigore dell’immanenza.

Conatus: la differenza tra quel che Henry Lefebvre chiamava «il godimento di un luogo» e «un luogo del godimento» 

È l’impresa circense che ha provato a misurarsi con la libertà del gesto di una mano, finita prigioniera di un’anima individuata. Che ha affidato alla coreografia dell’ordinario delle mani operose di Alexandre Roccoli, all’accordo sonoro su immagini in movimento di Michele Rabbia e Daniele Di Bonaventura, ai corpi classificati DSM per i loro cervelli dei Nontantoprecisi il ruolo di trappers di una regola d’arte all’altezza di questo esercizio d’opera dei nuovi operai del politecnico fuggiti dalle corporazioni. Alla proiezione di Saturno di Chiara Bettazzi e Gaetano Cunsolo e alle meditazioni gramsciane sulle sue rose l’esemplificazione di un conatus capace di fare la differenza tra quel che Henry Lefebvre chiamava «il godimento di un luogo» e «un luogo del godimento», qui un museo, con la definitiva rottura del nesso tra forma e funzione. E, soprattutto, alle pratiche di vinificazione dei vinai naturati di farsi guardare come l’acrobazia virtuosa di un’arte di nuovo genere che nell’uso disallineato di saperi, tecniche, tradizioni, biologie, biografie, zolle, dizionari ha operato la rottura estetica più rilevante degli ultimi decenni, scartando la questione del «gusto» dall’orizzonte edonista dell’ultima spiaggia, o da quelo liberale della pertinenza, per portarla nei paraggi del lusso di uno scarto, nella capacità percettiva e creativa che è di tutti.

La cura: «The rest escapes us indefinitely». 

Al pari delle altre, la pratica della cura sta lì imbarazzata, con la vergogna di chiedersi a che titolo e con quali attrezzi, ma soprattutto con quale fine, ritrovandosi così alle prese coi modelli delle tessiture affettive che ancora, malgré nous, ci attraversano: governo degli altri, benevolente paternage, scambio simbolico all’insegna del mutuo e del riconoscimento, subordinazioni al sapere del bene, intelligenza della funzione, finalità dell’opera, tecnica sapere competenza. Il tutto intriso di quel che serve per fare oggi l’unica cosa che oggi si fa, le relazioni: umori, parole, inclinazioni, tensioni, sé duzioni, privi dell’attributo intrinseco di una loro bontà. La scena continua a essere infame. Ed è grazie a Tarek Elhaik e al suo questionarsi biografico sull’immagine incurabile, a partire da quell’opera incompiuta e refrattaria all’appropriazione da parte di qualunque narrativa, così aperta alla potenza, che è il film di Ėjzenštejn, Que viva Mexico!, che è possibile intravedere uno scorcio del crinale lungo il quale accomodare, almeno per un po’, la regola dell’impresa circense. Quella che preserva intatta il posssibile di una mobilità acrobatica, di uno scarto che in un quartiere della periferia brillerà di lusso e flirterà con l’aria di mare. Architettura del godimento, di un gesto della mano, di un gesto del pensiero. «The rest escapes us indefinitely»: l’espressione è rubata a Tarek. Tra malfattori…

Riferimenti:
T. Elhaik, The Incurable Image: Curation and Repetition on a Tri-continental Scene, in The Postcolonial Museum. The Arts of Memory and the Pressures of History, a cura di I. Chambers, A. De Angelis, C. Ianniciello, M. Orabona, M. Quadraro, Ashgate, Farnham 2014.
H. Lefebvre, Toward an Architecture of Enjoyment, University of Minnesota Press, Minneapolis 2014.
J. Nossiter, Insurrezioni culturali, trad. it. F. Montrasi, DeriveApprodi, Roma 2015.
J. Rancière, La méthode de l’égalité, Fayard, Paris 2012.
G. Scholette, Delirium and Resistance. Activist Art and the Crisis of Capitalism, Pluto Press, London 2016.

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