Non sparate sui poeti

La cornice di Castelporziano

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Il palco del Festival Internazionale dei Poeti, Castel Porziano, Ostia (1979) - Archivio Simone Carella.

Sono tanti i mondi «paralleli». Nel mio, popolato e condiviso, gli anni Settanta in Italia erano anni di carne e di passioni, di anima e di poesia, di leggerezza, certo non «di piombo» (con cui invece da un altro universo interferiva per esempio la banda della Magliana, protetta e spesso istigata dalle alte sfere del potere politico). Preferivamo sparire che sparare.

Negli anni Settanta agirono infatti diverse specie di fantasmi, buoni e cattivi. I peggiori erano le Brigate Rosse, mediocri interpreti di recite pirandelliane che godevano a mascherarsi da ingegneri e da altri tipi «normali», ma con Aldo Moro legato nello stanzino e le mitragliette nel cassetto della biancheria. I migliori erano gli artisti che incarnarono generosamente (in senso quasi sacrificale) una volontà di dire e fare la verità fino a dissiparsi. Un nome tra i tanti: Francesca Woodman, che viveva a Roma e inaugurò la sua prima struggente mostra sull’arte di sparire a un giorno di distanza dal sequestro Moro.

«Il metodo – scriveva già Allen Ginsberg – dev’essere purissima carne». Fosse anche carne di fantasma. Furono anni di creatività travolgente e gioiosa anche dal basso, dove alla violenza si sapeva rispondere con la poesia. Lo scorso 12 maggio ricorrevano quarant’anni dalla morte di Giorgiana Masi, diciannovenne uccisa dalla polizia a Trastevere e a cui le «compagne femministe» dedicarono una poesia bellissima: «Se la rivoluzione d’ottobre fosse stata di maggio». Fu quell’anonima e comunitaria fame di bellezza, quella sete di poesia, che il festival di Castelporziano ebbe il merito (sul piano della logica dell’evento che debuttò forse allora) di intercettare. E forse il torto (sul piano della salvaguardia della poesia e della creatività diffusa) di incorniciare.

Ora, per non ripetere giudizi e pregiudizi, mi rivolgo sinceramente questa domanda: perché a Castelporziano io non c’ero? Io che diciassettenne mi definivo un poeta beat, che volevo scrivere ma non sapevo né cosa né come e mi sbloccai solo leggendo Allen Ginsberg (potevo scrivere su tutto, a condizione di farlo in verità e senza autocensure, poiché «tutto è santo»); io che mi commuovo ancora oggi quando vedo Ginsberg «cantare» poesia con l’harmonium; ecco, perché a vent’anni non ero andato a ascoltarlo e «toccarlo»?

Non volevo condividerlo lì, in quella forma, e non solo per l’inevitabile gelosia che si ha riguardo a chi si ama. Mentre Ginsberg gridava «togliete le serrature dalle porte! / togliete anche le porte dai cardini!», io percepivo quell’evento come calato dall’alto, malgrado l’eccesso apparente di apertura. In contrasto con la demagogia del raduno, i poeti invitati (stranieri a parte) sembravano frutto di scelte opache e ristrette, con un sentore di potere e di cenacolo. Questo, contemporaneamente al palco sfondato e caduto, alla retorica di «anche il minestrone è poesia», alla spiaggia che rendeva tutti comparse di una sperimentazione estetica e teatrale indifferente al reale e alla lingua, alla folla sempre più aggressiva, mi allontanava, e non volevo rischiare di entrare in conflitto con quello che amavo.

«Prendere la poesia sul serio», aveva detto Ginsberg, significa praticarla «come una specie di sadhana, di sentiero sacro, o una forma di yoga», non «come un’arte beneducata o una disciplina accademica, piuttosto una santità». Oggi non ho dubbi che il franare di allora e del dopo (non solo quello del palco), venisse dalla perdita di autorevolezza (auctoritas) della poesia e delle pratiche a essa connesse. La perdita di una lingua. Senza quel riconoscimento, quella sacralità (la poesia è parola di tutti, ma pur sempre parola speciale) ogni altro degrado è possibile. Lo sfacelo della lingua disgrega ogni comunità, relazione, «senso». Il diabolico, contrario del simbolico, è l’insensatezza della vita nella perdita della parola. Non è un caso che l’unico poeta italiano a non essere stato fischiato e oltraggiato dal pubblico fu la poetessa Amelia Rosselli, magnetica e sublime come la lingua che incarnava.

A distanza di anni spicca l’autorevolezza di Allen Ginsberg la sera finale del festival (che gli stessi organizzatori pensarono di annullare), che seduto a gambe incrociate presentò i poeti della serata, se stesso compreso. (La sera prima, mentre sul palco volavano sedie e bottiglie, rimase seduto a intonare un mantra che miracolosamente riuscì a calmare gli animi).

Il pubblico, frammenti del popolo del ’77 che venne in parte suicidato dalle lusinghe equivalenti della lotta armata e dell’eroina, lo si poteva anche vedere come una moltitudine di schegge d’anima impazzite, la cui ribellione convulsa è ricerca di un’autorità più alta da riconoscere, anelito disperato a tornare a riunirsi al Divino. Anche se poi, guardando certi volti e toni di allora, sembra di vedere i leghisti di oggi, nemmeno i fascisti dichiarati ma i seguaci di Salvini, grassi di sazietà e orgogliosi del proprio cinismo, quelli che «della poesia non me ne frega un cazzo», e che «più affogati meno immigrati».

P.S. Ho scritto questo testo dopo avere rivisto il bel film documentario di Andrea Andermann Ostia dei poeti, girato durante il festival di Castelporziano. A pochi giorni di distanza, in quell’estate 1979, la giovane Patti Smith fece un paio di concerti in Italia. La ascoltai a Bologna una sera di luna piena. Il poeta Gregory Corso, che di solito stava a Roma ma spesso anche Bologna, subì l’umiliazione di restare fuori perché nessuno all’ingresso credette che fosse un amico della cantante, né che quell’ometto scanzonato e perennemente sbronzo fosse uno dei più grandi poeti contemporanei. Colui che, disse Ginsberg, incarnava da solo tutta la beat generation.

P.S. 2 Sempre quell’estate scrissi questa poesia, in forma di lettera a un amico fraterno, Carlo Bordini. Più anziano di me di ventun anni, ex ideologo trotskista, quando ci incontrammo a Parco Lambro nel 1976 eravamo in realtà due adolescenti. Gli spiegai cos’era il mondo dei freaks e degli sballati. Avevamo entrambi appena pubblicato un librino di poesie e misteriosamente, come avveniva nei magici anni ’70, ognuno aveva già letto quello dell’altro:

caro carlo
ti scrivo la mia ultima

scoperta

ogni volta che mi lavo

mi dissolvo un po’ di più

mi sciolgo come la schiuma

che mi frego tra le

mani

fino a diventare scaglia

e scomparire.

È per questo sai

che non amo stare al sole

la politica non c’entra

sono fatto di neve

avrei preferito dirtelo

a voce ma

quando suona il telefono

tu ti metti paura

cominci a strisciare su e giù

per le pareti

Carlo Bordini non fu invitato come poeta a Castelporziano, e all’epoca ci sembrava normale, anche se non lo era. Ma in realtà lo è, lo sarà sempre. Partecipò invece alla seconda o terza edizione che si svolse all’università la Sapienza, dove lesse tra l’altro questi versi:

beppe ricordati

se noi due fossimo più forti

non scenderemmo in campo

per riparare i torti

 

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