Intorno al ’77

Pablo Echaurren e la stampa alternativa

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Pablo Echaurren, L’arte sarà collettiva o non sarà (1977).

Venerdì 22 settembre (ore 19.00) si inaugura al Museo Roma in Trastevere (Piazza S. Egidio 1/b, Roma) la mostra «’77. Una storia di quarant’anni fa nei lavori di Tano D’Amico e Pablo Echaurren». Qui anticipiamo una parte del saggio di Raffaella Perna dal libro edito per l’occasione da Postcart Edizioni «Il Piombo e le Rose. Utopia e Creatività nel Movimento del 1977» (opere di Tano D’Amico e Pablo Echaurren, testi di  Gabriele Agostini, Tano D’Amico, Pablo Echaurren, Diego Mormorio, Raffaella Perna, Kevin Repp,Claudia Salaris, Gianfranco Sanguinetti). 

Il successo ottenuto con le copertine dei libri Savelli nel 1977 spinge Adriano Sofri a contattare Echaurren per invitarlo a lavorare stabilmente nella redazione di Lotta Continua. Il quotidiano, dopo lo scioglimento dell’omonima organizzazione politica avvenuto nel 1976 durante il Congresso di Rimini, intende farsi portavoce delle idee e delle azioni del movimento, promuovendo le nuove questioni emerse nella sinistra extraparlamentare e nei gruppi femministi, che rivendicano la centralità dell’esistenza quotidiana, del personale, dei rapporti umani, insieme al diritto al piacere e alla felicità. L’ingresso in Lotta Continua e l’adesione al movimento romano segnano una nuova fase nel lavoro di Echaurren che si allontana, seppur brevemente, dal mondo dell’arte per dedicarsi alla militanza, legandosi in particolare alle attività del nucleo originario degli indiani metropolitani. Questi ultimi non si identificano in un gruppo o in un collettivo specifici, ma sono una pluralità di militanti attivi in varie città italiane, che a ridosso del ’77 danno vita a gesti, proclami, slogan e manifestazioni di piazza, accomunati dal rifiuto delle modalità e dei linguaggi tradizionali delle lotte operaie; tali azioni si basano su nuovi modelli di comportamento e di socializzazione, su strategie politiche fondate sull’uso del paradosso, dello sberleffo, del nonsense e sull’iniziativa spontanea, con richiami più o meno consapevoli ed espliciti alle pratiche delle prime avanguardie, del Situazionismo, dello Happening e del teatro di strada. I temi della fantasia, della felicità e della creatività, contrapposti al grigiore burocratico delle istituzioni, sono al cuore della politica degli indiani metropolitani: «Fuori dalle riserve, non sotterreremo mai più l’ascia di guerra. Augh!! la stagione delle grandi piogge sta finendo: i colori della natura stanno emergendo, per spazzare via il grigio e la noia, il freddo e la paura dei nostri corpi. […] Fuori dalle riserve!! Intoniamo il nostro grido di guerra. I nostri Tam Tam suonino sempre più forte per raccogliere tutta l’area creativa di movimento»1.

La presenza nelle manifestazioni dei primi mesi del ’77 di giovani dal volto dipinto, impegnati in danze e girotondi, rilevata con enfasi dalla stampa e documentata dai reportage di diversi fotografi, primo fra tutti Tano D’Amico, era stata preceduta all’inizio del decennio da alcuni episodi in cui si era manifestato un rinnovato interesse per la cultura dei nativi americani: nel marzo del 1973, a Torino, durante una protesta operaia non collegata al sindacato, diversi giovani lavoratori di Mirafiori avevano occupato alcuni reparti, indossando fettucce di stoffa sulla fronte al grido di èaèaèo; nel settembre del 1975 la rivista A/traverso aveva pubblicato l’articolo Notizie dalla riserva; mentre nel giugno del 1976 il collettivo milanese Apache-Rho aveva realizzato il numero unico Apache. Periodico contro padroni e Stato; tra l’ottobre e il novembre dello stesso anno, inoltre, erano comparsi riferimenti agli indiani d’America anche su Zut2 e sul manifesto dello happening organizzato dai Circoli proletari giovanili all’Università Statale di Milano: «Abbiamo dissotterrato l’ascia di guerra. È ora che le tribù degli uomini si uniscano per scacciare dalla terra i falsi amici dell’uomo»3.

Il movimento, nel recuperare riti, simboli e miti della tradizione degli indiani, vuole identificarsi con la storia di un popolo sterminato dai bianchi, la cui vicenda diviene emblema e simbolo della resistenza al capitale. Nella locuzione indiani metropolitani si esprime, tuttavia, anche una contraddizione in termini che, come è stato rilevato all’epoca4 e negli anni Novanta da Klemens Gruber5, ha in sé connotazioni e riferimenti eterogenei, tra cui il cinema (il fenomeno segue di poco l’uscita di western quali Soldato blu di Ralph Nelson o Piccolo grande uomo di Arthur Penn, in cui si denuncia l’orrore dei massacri perpetrati dai bianchi contro i nativi americani), il gioco e soprattutto l’ironia e l’autoironia. In Italia la ripresa della tradizione dei nativi americani non appartiene tuttavia soltanto all’ambito della controcultura e delle lotte politiche degli anni Settanta, ma è presente in vario modo anche in campo artistico: un riferimento a cowboy e indiani si trova, ad esempio, nel libro a fumetti I viaggi di Brek6pubblicato nel 1967 da Gastone Novelli, artista impegnato sul piano politico, che fu in prima fila nella protesta contro l’intervento della polizia all’interno della Biennale di Venezia, dove in segno di dissenso rifiutò di esporre le proprie opere voltandole contro le pareti della sala. Legata a interessi antropologici è, invece, la ripresa della cultura dei nativi americani condotta da Eliseo Mattiacci sia nell’attività performativa, sia nell’installazione Recupero di un mito (1975), realizzata alla Galleria l’Attico di Roma, dove l’artista espone una serie di grandi ritratti fotografici di nativi, tra i quali inserisce il proprio in cui è travestito da pellerossa. Dietro un pettorale indiano è nascosto un registratore che emette suoni e musiche legati alla tradizione degli indiani; contemporaneamente nella sala vengono proiettate diapositive relative a una performance realizzata dall’artista l’anno precedente, in cui egli tracciava con una piuma la parola poesia sulla sabbia, dopo essersi dipinto il volto metà di bianco e metà di rosso.

L’iconografia degli indiani d’America si ritrova, declinata in varie forme, in gran parte della produzione grafica di Echaurren realizzata nel ’77, esposta in questa mostra: nelle illustrazioni per fogli e riviste militanti, nei disegni e nei quaderni che l’artista tiene come una sorta di diario nel corso dell’intero anno. L’artista lavora su materiali «bell’e pronti» (come ad esempio nel caso delle copertine dei quaderni) o realizza collage di immagini tratte dai fumetti di indiani e cowboy, all’epoca molto popolari, su cui interviene con scritte che deviano il senso originario dell’immagine. Il repertorio delle frasi scelte dall’artista appartiene sostanzialmente a due categorie: da un lato, egli attinge agli slogan politici del movimento («Potere alle donne»; «Siamo infetti siamo perfetti»; «Kossiga come Kabir Bedi gli puzzano i piedi»; «Godere operaio»; «Alluciniamo Marx»; «Falce e spino così si fa casino»; «Diffidate dalla realtà» ecc.); dall’altro, combina con ironia le immagini dei fumetti con scritte e citazioni legate alla storia dell’arte e in particolare all’opera di Marcel Duchamp, eletto a modello perché considerato estraneo ai valori tradizionali dell’arte («Siamo tutti Duchamp»; «Svelti la macinatrice ci sta alle calcagna / Te l’avevo detto quei maledetti scapoli cercano di farci fuori / Onanisti che non sono altro» ecc.).

Benché in questo periodo i riferimenti ai nativi americani siano dunque frequenti nel lavoro di Echaurren, da alcune immagini trapela tuttavia un atteggiamento critico nei confronti del clamore mediatico ottenuto dal movimento proprio attraverso la rappresentazione stereotipata «dell’indianità». Un esempio è il disegno pubblicato su Oask?! – numero unico edito nel marzo del 1977 come supplemento a Lotta Continua – raffigurante un mostriciattolo, simbolo del non integrato e del diverso, con la fascia e la penna da pellerossa in testa, mentre pensa e scrive. Per rappresentare il pensiero, Echaurren ricorre al modulo classico usato nei fumetti, il balloon che termina con tre pallini, e all’interno di esso inserisce la stessa figura del mostriciattolo-indiano, ma sbarrata da una x (il personaggio dunque pensa a sé stesso, senza tuttavia riconoscersi). Dalla penna del mostriciattolo escono queste parole: «Essere nel e per il movimento essere per e dentro gli indiani è cosa già fatta: oggi 23 marzo tutto il corteo era indiano. Slogan e atteggiamenti. Autoironia & slogan al contrario. Piace a tutti dalla stampa all’autonomia, e non fa male a nessuno»7. Diverse, inoltre, sono le dichiarazioni dell’artista contenute nei suoi quaderni che pongono l’accento sul rischio che il movimento degli indiani metropolitani sia recepito (e riassorbito) dal sistema come un fenomeno alla moda:

Siamo autonomi perché non ci piacciono le gabbie, le dipendenze, le ingerenze. Non abbiamo guide spirituali né muscolari. Siamo senza collari, senza paraocchi, senza para-ginocchi (ce li sbucciamo spesso, giocando, cadendo, inciampando). Saltelliamo da un compartimento all’altro senza incasellamento. Ci va stretta ogni de/finizione. Anche indiani metropolitani è uno schema scemo, uno stereotipo, un dagherrotipo. Usciamo dalle riserve, scavalchiamo i fili e i fossati che vorrebbero contenerci e controllarci […]. L’identità la cambiamo ogni mattina quando ci svegliamo, la gettiamo via ogni sera quando ci addormentiamo. Non ci assoggettiamo. Amiamo. Questo è il nostro modo di essere autonomi, di tessere la nostra storia, la nostra preistoria (ancora aspettiamo che ci spuntino le ali)8.

L’identità è dunque concepita dall’artista come un processo dinamico che si ridefinisce nel tempo e si sottrae a una definizione univoca e stabile (e ai cliché mediatici). Le nuove istanze emerse nel movimento a ridosso del 1977 – la ricerca del piacere, del desiderio, di una nuova soggettività – si riflettono anche nelle illustrazioni realizzate in questo periodo dall’artista per Lotta Continua. Queste ultime infatti hanno un aspetto diverso da quelle pubblicate in precedenza: mentre nel 1973, come si è visto, Echaurren aveva adattato i quadratini alle esigenze editoriali e politiche della testata, realizzando illustrazioni che favorissero una lettura immediata, nel 1977 è libero di sperimentare soluzioni nuove e di creare personaggi e scene di carattere più onirico. Le pagine di Lotta Continua si popolano, ora, di buffi animali e oggetti antropomorfi, di mostriciattoli e di figure ibride (metà uomo-metà macchina), che danno alla grafica del giornale un aspetto di sapore surrealista. Anche quando Echaurren ricorre alla formula dei quadratini, lo fa con un margine di autonomia più ampio e, soprattutto, scegliendo spesso temi slegati dai contenuti del quotidiano. Il riferimento agli indiani metropolitani è frequente: in una illustrazione pubblicata il 6 aprile del 1977, ad esempio, le immagini fumettistiche dei pellerossa, inserite nei classici quadratini, si accompagnano agli slogan paradossali del movimento («È ora, è ora, la frusta a chi lavora»; «Più chiese meno case»; «Più sacrifici meno dentifrici»); in una vignetta, pubblicata il 29 aprile, Karl Marx è raffigurato mano nella mano con un capo indiano; mentre in un’altra immagine, apparsa nel novembre del 1977, una rana con una piuma in testa è accompagnata dalla filastrocca di intonazione ludico-popolare: «Una rana indiana metropolitana uscita dalla sua tana si guardò intorno e si tolse la sottana».

Il carattere ironico e scanzonato di queste immagini assume forme e toni più sofisticati e stranianti in alcune illustrazioni in cui l’artista associa le immagini del fumetto a testi legati alle sperimentazioni d’avanguardia, come ad esempio nella vignetta pubblicata su Lotta continua il 10 febbraio 1978, dove una specie di larva parla della morte riprendendo le parole di un testo situazionista di Raoul Vaneigem («Quantitativamente vinta dai progressi in materia sanitaria / La morte / si introduce qualitativamente nella vita»); Paperino di Walt Disney riflette sul senso della vita: («E ognuno diventa grande ricacciando la sua infanzia / fino a che / il rimbambimento / e l’agonia / lo persuadono che è riuscito a vivere da adulto»); o, ancora, l’artista riproduce il gioco dell’«annerire le zone contrassegnate dai puntini» tratto dall’enigmistica, già usato nel 1962 da Andy Warhol nella serie Do It Yourself, applicandolo però all’immagine di una chiave inglese.

La commistione tra alto e basso tipica di queste illustrazioni si coniuga all’uso del falso e del détournement nella rubrica Dietro lo specchio, realizzata in coppia con Gabbianelli, pubblicata su Lotta Continua tra il 15 luglio e il 2 agosto del 1977. Il titolo richiama l’idea del «linguaggio al di là dello specchio» espressa da A/traverso nell’articolo Informazioni false che producono eventi veri (febbraio 1977), in cui il collettivo bolognese sosteneva la necessità di appropriarsi dei modelli di comunicazione degli organi di potere per sovvertirli dall’interno, senza limitarsi, come aveva fatto sin lì la controinformazione, a smascherare la faziosità della stampa ufficiale: «La controinformazione – si legge su A/traverso – ha denunciato quello che il potere dice di falso, laddove lo specchio del linguaggio del potere riflette in modo deformato la realtà – ha ristabilito il vero ma come mero rispecchiamento. […] Occorre prendere il posto (autovalidantesi) del potere, parlare con la sua voce. Emettere segni con la voce e il tono del potere. Ma segni falsi. Produciamo informazioni false che mostrino quel che il potere nasconde, e che producano rivolta contro la forza del discorso d’ordine»9.

Echaurren e Gabbianelli accolgono la sfida lanciata da A/traverso: Dietro lo specchio è un racconto a puntate basato sul montaggio di testi e fotografie eterogenei, tratti dalla storia del Dada, dall’attualità politica e da fonti popolari, in cui l’uso del falso è concepito come strategia per decostruire il linguaggio dominante. Nel luglio del 1977, ad esempio, nella rubrica compare la copertina della rivista Le Cœur à barbe. Journal trasparent pubblicata da Tzara nel 1922, qui contrabbandata per un «testo teorico attualmente in libreria»10. Nella stessa rubrica, i due pubblicano il finto annuncio di un nuovo mandato di cattura per Franco Berardi detto Bifo, accusato di avere ritoccato la Gioconda. Come prova del misfatto gli autori presentano la foto di L.H.O.O.Q. (1919) di Duchamp. L’articolo esce a firma, oltre che dello stesso Duchamp, di Nanni Balestrini, Alberto Lupo, i Vianella, Félix Guattari, Giulio Carlo Argan ecc.

L’uso del falso e del sabotaggio, in questa nuova fase del lavoro di Echaurren, assume un ruolo cruciale; in questo periodo l’artista conduce una serie di azioni di sapore neo-dadaista volte a scuotere dall’interno il consueto funzionamento della redazione di Lotta Continua. Gli esempi che si potrebbero portare sono diversi: nella rubrica Avviso ai compagni l’artista, sempre in coppia con Gabbianelli, introduce il finto annuncio di una manifestazione indetta a Jesi sul tema «vendemmia e abbronzatura totale»; in un’altra occasione i due, inviati a intervistare alcuni liceali impegnati nell’esame di maturità, consegnano al giornale un pezzo inventato, basato su stralci tratti dai manifesti Dada (il gesto tuttavia passa inosservato); o, ancora, dettano per telefono a una redattrice neoassunta un articolo su una sedicente Colonna Marlene Dietrich che sfila sul Canal Grande di Venezia (stavolta invece l’azione provoca la risposta indignata della redazione)11.

Il falso, la parodia e il rovesciamento caratterizzano anche le riviste e i fogli militanti a cui Echaurren collabora in questo periodo. Nel marzo del 1977 l’artista progetta la veste grafica del già menzionato Oask?!, giornale legato all’area romana degli indiani metropolitani, alla cui redazione partecipano, oltre Echaurren, Gabbianelli, Olivier Turquet (Gandalf il Viola), Massimo Terracini, Carlo Infante e Massimo Pasquini. Oask?! è pensato come un montaggio di testi collettivi disposti liberamente nello spazio della pagina con un andamento discontinuo e zigzagante, volto a restituire la coralità e la frammentarietà del movimento, che ricorda da vicino la soluzione adottata nel 1921 da Picabia nel collage L’Œil Cacodylate. Anche la grafia a mano, intervallata da pochi testi scritti a macchina, è intesa come una strategia per ridare voce alla soggettività e al personale. La diffusione di informazioni contraffatte è al centro anche del foglio Il complotto di Zurigo, ideato da Echaurren e Gabbianelli nel settembre del 1977. L’edizione esce a cura di 391 (omaggio all’omonima rivista di Picabia); in prima pagina una foto di barricate è accompagnata dalla didascalia «Ancora una giornata di tensione in città alimentata dai gruppi più avventuristici». Il servizio riporta la falsa notizia della recente chiusura del Cabaret Voltaire e l’arresto con l’accusa di eversione di Tristan Tzara, Hugo Ball, Hans Harp, Emmy Hennings, Hans Richter e Marcel Janco. Nelle pagine centrali sono riprodotti fotografie e documenti legati al Dada di Zurigo e a Marcel Duchamp, corredati da didascalie fittizie usate per comprovare la veridicità del fatto, come nel caso dell’immagine di Fountain accompagnata dalla scritta «La porcellana sanitaria posta sotto sequestro da Fouché»; del ritratto di Hugo Ball che recita il suo poema Elefantenkarawane (23 giugno 1916) seguito dalla frase «Hugo Ball nel momento dell’arresto»; o della riproduzione del terzo numero di Dada, presentata come la rivista diffusa durante «i gravi episodi di violenza dei giorni scorsi»12. Il complotto di Zurigo viene presentato nella facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza di Roma: in quest’occasione Echaurren e Gabbianelli denunciano pubblicamente la reclusione del gruppo dadaista, riportando la notizia come autentica. Con una logica simile – legata al gusto del paradosso e alla critica di certe consuetudini dell’azione politica diffuse anche nel movimento stesso – l’artista, sempre insieme a Maurizio Gabbianelli, aveva distribuito durante un corteo a Roma nel maggio del 1977 il volantino «Libertà per i compagni arrestati per avere diffuso questo volantino».

Da questi esempi, come dalla mole di disegni, quaderni e appunti realizzati da Echaurren a ridosso del ’7713 emerge, come in parte si è visto, la centralità della figura di Duchamp, il cui rifiuto della pittura retinica e soprattutto delle logiche di valorizzazione economica dell’opera è preso a modello dal più giovane artista. Negli anni Settanta Echaurren guarda all’opera di Duchamp perché in essa riconosce una rottura non solo estetica e concettuale, ma anche etica e politica, in grado di aprire la strada allo sviluppo di nuove strategie creative che si pongano in aperto conflitto con il sistema di circolazione e mercificazione dell’arte e, più in generale, con i modelli di produzione e di vita tipici del capitalismo tardo. All’idea di opera come invenzione e produzione del singolo, Echaurren in questa fase preferisce il concetto di creatività diffusa e collettiva: egli attinge, dunque, al lavoro di Duchamp per rileggerlo in chiave militante e anticapitalista, nella prospettiva di un’arte che si dispieghi nell’esistenza quotidiana e contribuisca a modificare i rapporti di potere.

Dal collettivo di Oask?! prende vita Wam, foglio caratterizzato anch’esso da una pluralità di voci e interventi grafici diversi, in cui si ritrovano sia il culto per Totò, sia riferimenti al Dadaismo di Zurigo (il sottotitolo della testata è Zurich 1916 oh!). Il gusto del rovesciamento è particolarmente evidente nell’ultima pagina, dove è riprodotto il fac-simile di un foglio, mai pubblicato, intitolato A/prescindere: parodia di A/traverso, in cui gli scritti e gli slogan della rivista bolognese vengono riproposti in dialetto napoletano. L’impostazione ludica e ironica della testata si riallaccia all’esperienza di Wow, foglio realizzato da Dario Fiori, in cui i richiami all’avanguardia dadaista si mescolano alle citazioni dei grandi attori del comico: Buster Keaton, Harold Lloyd e soprattutto Totò.

Tra i fogli realizzati da Echaurren nel ’77 occorre ricordare Abat/Jour (Echaurren-Gabbianelli-Turquet-Terracini) e Materiali (Echaurren-Gabbianelli-Carlo Infante): in essi infatti si colgono le prime tracce del distacco dell’artista dalla politica violenta condotta o tollerata da una parte del movimento. Nella prima pagina di Abat/Jour, ad esempio, la foto di uno scontro tra forze armate e militanti è accompagnato dalla scritta Mai più senza limone; la frase, tuttavia, come si desume da alcuni disegni realizzati dall’artista nei quaderni, non si riferisce al limone usato dai manifestanti per difendersi dagli effetti dei gas lacrimogeni, ma alla volontà di allontanarsi dagli scontri per godersi una tazza di tè alla luce, appunto, di un abat-jour. Il desiderio di estraniarsi dalla violenza si fa più forte con il passare dei mesi: «Ma sì, sì, restiamo poesia, pura immaterialità…», recita il sottotitolo del secondo numero di Materiali, pubblicato a chiusura del ’7714. L’insofferenza di Echaurren nei confronti dell’uso delle armi e della violenza, in questo momento, è testimoniata da diversi appunti presenti nei quaderni, in cui l’artista rintraccia nel gioco, inteso come dispositivo di rottura dell’ordine preesistente, il possibile antidoto alla crisi vissuta dal movimento a ridosso del 1978: «Contro il gioco della violenza, subita e inflitta, scegliete il gioco. La rivoluzione passa proprio attraverso questo cambiamento di strategia. Questo spiazzamento. […] Farsi una scorpacciata di Risate (rosse) e fare impazzire il potere»15. È nell’utopia di queste parole che risuona forse il senso più autentico dell’esperienza di Echaurren indiano metropolitano.

Note

Note
1Manifesto degli Indiani Metropolitani, pubblicato in AA.VV. (a cura di), Lingue & linguaggi. Gli indiani metropolitani. Storie, documenti, testi, immagini, DeriveApprodi, Roma 1997, p. 34.
2Si v. Claudia Salaris, Il movimento del Settantasette. Linguaggi e scritture dell’ala creativa, AAA, Bertiolo 1997, pp. 65-66.
3Manifesto realizzato dai Circoli proletari giovanili per promuovere lo happening organizzato il 27 e il 28 novembre 1976 all’Università Statale di Milano.
4Si v. Emanuela Martini, Matrici culturali di un genere nuovo, in Egeria Di Nallo, Indiani in città, Nuova universale Cappelli, 1977, pp. 18-31.
5«Con linguaggio indiano e metafore attribuite solitamente ai pellerossa nei film western si descrivono le condizioni di vita dei giovani nelle città italiane: un vegetare in riserve ai margini della società», Klemens Gruber, L’avanguardia inaudita, Costa & Nolan, 1997, p. 120.
6Gastone Novelli, I viaggi di Brek, Alfieri, 1967.
7Illustrazione pubblicata in Oask?!, s.d. (marzo 1977).
8La citazione è tratta dal quaderno Pablo et, 1977, conservato presso La Fondazione Echaurren Salaris, Roma.
9Collettivo A/traverso, Informazioni false che producono eventi veri, in A/traverso, febbraio 1977.
10Dietro lo specchio, rubrica a cura di Pablo Echaurren e Maurizio Gabbianelli, in Lotta Continua, 15 luglio 1977, p. 9.
11Pablo Echaurren, La casa del desiderio. ’77: indiani metropolitani e altri strani, Manni, 2005, pp. 28-30.
12Pablo Echaurren, Maurizio Gabbianelli, Il Complotto di Zurigo, settembre 1977.
13Un’ampia selezione di lavori appartenenti a questa fase è stata esposta nella mostra Pablo Echaurren. Contropittura, a cura di Angelandreina Rorro, Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, 20 novembre 2015-3 aprile 2016.
14Pablo Echaurren, Maurizio Gabbianelli, Carlo Infante, Materiali, ottobre 1977. Il secondo numero esce nel gennaio del 1978.
15Pablo Echaurren, quaderno Macchine coniugi, 1977, conservato presso La Fondazione Echaurren Salaris, Roma.

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