Corpi, parole, immagini (di sé, di altre donne), mezzi e strumenti per dare visibilità ai primi, un altro senso alle seconde, ripensare le terze. Lo hanno fatto le donne coi movimenti delle donne animando una rivolta chiamata «femminismo». Le hanno fatto anche le artiste della mostra «L’altra misura: arte e femminismo negli anni Settanta». Tra le pratiche dei femminismi e le pratiche artistiche obiettivi comuni e percorsi intrecciati: costruirsi dei corpi votati ad altro che al dominio.
Oh! La meraviglia dell’esistente!
Intervista a Libera Mazzoleni di Raffaella Perna
Libera Mazzoleni – Una volta comprese le ragioni del mio rifiuto di una visione dell’arte idealistico- formale puramente estetizzante, non mi rimaneva che ricominciare daccapo, il che significava partire semplicemente dall’esistenza, cioè da me, dal mio sentimento di fragilità e di interesse per il mondo.
Libera Mazzoleni è nata a Milano nel 1949. Diplomatasi all’Accademia di Belle Arti di Brera, è stata docente di Educazione e Comunicazione Visiva presso l’Istituto d’Arte Sperimentale di Monza… Parliamo del tuo esordio nella scena artistica milanese dei primi anni Settanta.
La mia prima personale si tenne nel 1972 alla Galleria San Fedele, la seconda al Palazzo dell’Arengario nel 1973. La mostra fu presentata da Pierre Restany e allestita da Nanda Vigo, che corse a soccorrermi quando mi trovai in difficoltà con le dimensioni dei pannelli. La mostra all’Arengario rappresentò per me un significativo impegno e un importante discrimine. A 21 anni ho realizzato molte sculture e sperimentato materiali differenti, tuttavia il ricchissimo panorama dei movimenti artistici e gli stimoli prodotti dal flusso dei grandi eventi di quegli anni ‒ la rivoluzione femminista e il movimento studentesco ‒ sollecitavano il mio bisogno di comprendere sia ciò che facevo come artista, sia ciò che accadeva attorno a me. Ero affascinata dalla minimal art, dall’arte povera, dall’arte ambientale, dall’arte concettuale, tuttavia constatavo uno scarto profondo tra le opere che ammiravo e la linea instabile e dinamica e l’acceso cromatismo tipici delle mie sculture.
Nel tentativo di comprendere questa differenza, decisi di indagare le mie emozioni fotografando ogni cosa che ritenessi significativa: realizzai quindi una trentina di grandi pannelli con elaborazioni pittorico-grafiche e riporti fotografici che esposi accanto alle sculture. Su alcuni pannelli avevo scritto frasi realizzate con la vernice nera, su altri avevo incollato vari inserti fotografici, su altri ancora la scrittura accompagnava le immagini: frammenti di paesaggio, forme inorganiche, parti del corpo di donna, brevi riflessioni. Intitolai questo lavoro: Oh! La meraviglia dell’esistente!
Dopo questa ricerca, mi resi conto della mia lontananza dai movimenti artistici del tempo. La potenza dei gesti che si appropriavano del territorio espressa dall’arte povera e dalla land art; la sicurezza inderogabile dell’assunto nell’arte concettuale; la potenza formale dell’impatto materico-geometrico nella minimal-art; la concezione dell’artista come demiurgo e sciamano e infine l’insistita affermazione del legame tra arte e scienza sostenuta dagli artisti e da molta critica, mi si rivelarono come un pensiero onnipotente e una visione idealistico-metafisica che non potevo condividere. A questo mio sentimento non erano estranee le letture di testi come Sputiamo su Hegel (Carla Lonzi, 1970), Noi e il Nostro corpo (Boston Women’s Health Collective, 1974) o Speculum (Luce Irigaray, 1975). È quindi vero che la mostra all’Arengario rappresentò per me l’occasione di rispondere alla domanda di identità sul mio essere nel mondo, come artista ma anche come donna.
Una volta comprese le ragioni del mio rifiuto di una visione dell’arte idealistico- formale puramente estetizzante, non mi rimaneva che ricominciare daccapo, il che significava partire semplicemente dall’esistenza, cioè da me, dal mio sentimento di fragilità e di interesse per il mondo.
Subito dopo la mostra all’Arengario, nel 1974, realizzi il libro d’artista Linee Complessi Essere, dove le fotografie e la scrittura sono concepite come mezzi espressivi per riflettere sull’identità e sull’autenticità. Nel volume esprimi il rifiuto di una «concezione astratta e impersonale dell’arte». Cosa intendevi? E come venne accolto il libro?
Il libro-opera Linee Complessi Essere che pubblicai nel 1974 rappresentò un mio tentativo di risposta, nella forma dell’arte, alle seguenti problematiche:
– l’espressione artistica è una mia necessità?
– qual è il ruolo dell’artista all’interno del modello di produzione capitalistico?
– come si declina il rapporto tra universale e particolare e come si può rappresentare il «genere» nel fare artistico?
– qual è lo spazio di libertà dell’arte nell’orizzonte dominato dalla scienza e dalla tecnica?
Si trattava certamente di una presa di posizione: scoprire, partendo da sé, quella visione altra, differente del mondo, che il modello patriarcale aveva rimosso. Non mi bastava uscire dall’oikos (il privato) per rivendicarla, era bensì dall’interno dell’orizzonte dell’arte che io volevo guardare il mondo.
Il libro venne presentato nella galleria Multhipla a Milano, fu recensito da Jole de Sanna, Giancarlo Politi, Romana Loda, ma la cosa per me dolorosa non fu tanto la negatività di una recensione comparsa sul n. 15 di «Data», quanto la gratuita aggressività dell’autrice, Barbara Radice, una giovane donna mia coetanea. Evidentemente «Data», preferiva ospitare articoli sull’arte femminista americana che non riconoscere quella esistente in Italia.
Quando ci siamo conosciute stavo conducendo una ricerca su Romana Loda, gallerista, curatrice e figura chiave nella promozione dell’arte delle donne in Italia negli anni Settanta. A Loda si deve ad esempio la realizzazione della mostra Magma, una tra le più interessanti esposizioni al femminile realizzate in Italia, riproposta in varie sedi tra il 1975 e i 1977, a cui parteciparono artiste italiane e straniere, tra cui Marina Abramovic, Annette Messager, Katharina Sieverding. Che ruolo ha avuto secondo te Loda nel panorama artistico italiano? E qual era il vostro rapporto?
Incontrai Romana Loda nel 1976, si materializzò, all’improvviso, a una mia personale in una galleria assolutamente irraggiungibile e dispersa nell’hinterland milanese. Non so come arrivò lì, né perché. Io allora non la conoscevo, né tantomeno conoscevo il suo impegno nell’arte, ma da quel moment, non vi fu mostra o evento significativo che non visitammo insieme. Con lei ho conosciuto Stephanie Oursler, Suzanne Santoro, Verita Monselles, Vana Caruso, Turcato, Emilio Villa e moltissimi altri.
Romana era una donna ironica, coraggiosa, dal fortissimo temperamento, ma era anche una persona tormentata e fragile: a volte capitava, infatti, di doverla proteggere come fosse una piccola bambina. L’amore per il jazz, l’arte, la letteratura erano la spinta che l’aveva catapultata nel mondo dell’arte, dove ha aperto uno spazio superando il provincialismo italiano, facendo della provincia un centro collegato alle istanze internazionali più avanzate, che allora avevano già iniziato a parlare anche al femminile.
Ma nulla è garantito all’infinito se nessuno ne raccoglie l’eredità. In un paese dalla profonda tradizione patriarcale e clientelare, dove il gap culturale e civile in fatto di diritti delle donne e dei giovani non è mai stato superato, desta davvero meraviglia che oggi, dopo quasi quarantanni, vi siano giovani donne, cariche di conoscenze e di interessi, che guardano questo passato per conoscerlo e leggerlo alla luce della loro passione per l’arte.
Negli anni Settanta hai affrontato temi considerati tabù: sei tra le pochissime artiste italiane ad avere rappresentato pulsioni e desideri omoerotici. Come nasce l’idea della serie fotografica Kisses?
Nell’opera Luca II-4 emergevano diversi significati, compreso quello omofilo. Nella fase di ricerca scattai molte fotografie a uomini e a donne, che aprivano la possibilità di un approfondimento sulla tematica omosessuale. Mi ricordavo del famoso video di Andy Warhol Kiss del 1963. All’epoca non usavo ancora il video, ma decisi che il limite tecnico sarebbe stato compensato dall’immediatezza di un significato meno conformista. Così feci, parafrasandone il titolo, con l’opera il bacio (1976-1977). Questo lavoro non ha un significato puramente sessuale, ma riguarda quel percorso di soggettivazione e di disalienazione che riposa nella possibilità di ogni singolo individuo che voglia «mettersi in cammino» alla ricerca di sé. Non ho mai dimenticato che è sulla presunta mancanza insita nella sessualità femminile e sulla passivizzazione del corpo delle donne che, da Aristotele a Cartesio, si è fondata la spiritualità maschile e la metafisica di tutti i monoteismi.
È da poco uscito il libro Ni una más. Arte e attivismo contro il femminicidio di Francesca Guerisoli (postmedia books, 2016), dedicato al rapporto tra arte e attivismo femminista a Ciudad Juárez, città dove si registra un tasso di violenza contro le donne tra i più alti al mondo. Alcuni anni fa hai affrontato questo problema, in che modo?
Nel mio lavoro artistico è sempre stato presente uno sguardo di genere. Nello specifico, appresi del femminicidio a Ciudad Juárez nel 2006, leggendo i libri Ossa nel deserto e La città che uccide le donne; vidi poi anche il film Border Town. Nel libro fotografico I Muri della Mente (2006), un excursus sulle conseguenze nel mondo del pensiero unico e della sua matrice patriarcale, ho dedicato la parte centrale, sei facciate, proprio all’orrore di Ciudad Juárez, prima di affronatere i modelli di femminilità orientali e occidentali. Mentre nel 2008 ho dedicato l’intero lavoro di Las Mariposas (42 elaborazioni fotografiche) alle giovani donne di Ciudad Juárez.
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