Oltre il vuoto delle scissioni
Non sarà facile, per la minoranza scissionista del PD riempire di contenuti una scissione che tutto sembra tranne che una rottura politica con il renzismo. Molti, nelle ultime ore, si affrettano a descrivere questa scissione come l’esito finale di uno scontro atavico fra le due anime costitutive del PD, quella comunista e quella democristiana, la cui sintesi non sarebbe mai del tutto riuscita. All’interno di questa lettura, Renzi costituirebbe il mostro cattivo, che avrebbe forzato l’identità del partito in senso neoliberista, mettendo a dura prova la difficile, storica mediazione, fino a farla saltare. A noi sembra che il processo sia molto meno lineare, e che quel pezzo del partito che oggi sembra ormai in rotta di collisione con Renzi sia stato in questi anni parte attiva nella progressiva torsione neoliberista del PD. La precarizzazione del lavoro, con l’erosione della «cittadella del diritto del lavoro» di galliniana memoria (dal «pacchetto Treu» in poi), il rifiuto di un’estensione universale delle protezioni sociali, l’incapacità di pensare un modello di sviluppo alternativo a quello liberista, hanno aperto la strada all’abolizione dell’articolo 18, ai voucher e alla mercatizzazione dilagante, entro il paradigma dell’austerità.
In questo quadro, a ben guardare, Renzi ha rappresentato la punta più avanzata del partito, riuscendo a superare le residue resistenze «novecentesche», fresche di rottamazione, e a portare la ragione neoliberista nel cuore dei rapporti di produzione, fino al tentativo estremo, compiuto col referendum costituzionale, di verticalizzare il comando dell’esecutivo, superando l’ormai logora mediazione costituzionale «lavorista». Il tentativo non è riuscito, ma Renzi in questo momento è il personaggio di gran lunga più rappresentativo nel PD, l’unico in grado di affrontare alla pari, in una sfida elettorale, Grillo e i Cinque Stelle. È per questo che fa paura alla vecchia guardia del partito, in quella che sembra tanto una guerra personalistica per la leadership, al di fuori di qualsiasi confronto su temi e progetti. In questa bagarre, Emiliano si è mosso con grande astuzia: ha finto di uscire dal partito, inducendo Speranza, Rossi &co alla scissione, per poi rientrare così da presentarsi come l’unico avversario di Renzi per la segreteria nazionale.
Se vincerà, sarà un eroe; se perderà avrà comunque il suo ritorno in termini di visibilità e di potere contrattuale all’interno del partito. È un salto che Emiliano aveva programmato da tempo: la presa di posizione a favore del «sì» al referendum sulle trivelle, poi il forte sostegno al «no» in occasione del referendum costituzionale. Ma il dialogo avviato con Rossi, Speranza e Bersani non doveva trarre in inganno: Emiliano non ha mai rotto definitivamente con Renzi, e si è intelligentemente limitato a fare il «mediatore critico». Adesso è la persona più visibile, insieme a Renzi, nel secondo partito più forte d’Italia. Altro che Dp e altri progettini minoritari. Emiliano non è mai stato uno che ha scommesso in qualcosa senza avere la certezza di guadagnarci qualcosa.
Del resto, non bisogna dimenticare che molti degli scissionisti sono stati fra i maggiori sostenitori di Renzi, fino a poco tempo fa. Non bisogna neanche dimenticare la stoica resistenza di Bersani, nel 2013, al tentativo del Movimento Cinque Stelle di fare eleggere Rodotà come Presidente della Repubblica, che avrebbe aperto la strada ad un governo sostenuto dai Cinque Stelle stessi, con Bersani primo ministro. Quest’ultimo preferì le dimissioni, piuttosto che aprire il dibattito politico a beni comuni, reddito di esistenza, e alla rappresentazione di quei movimenti sociali che da anni si battono su questi temi, di cui Rodotà è importante interlocutore. Fu in quel momento che Bersani aprì le porte all’ascesa di Renzi, dentro e fuori il PD.
Forse è questo il nodo cruciale della questione. La scissione in corso, così come le intricate evoluzioni del PD in questi ultimi anni, sono state tutte legate ai rapporti interni ad un ceto politico che mai ha tentato di connettersi con le lotte territoriali, con i movimenti per il reddito, il lavoro e la casa, con le battaglie in difesa dei beni comuni, con quel sociale che è ben altro che una massa informe a cui attingere voti, ma che esprime forme di conflitto e costruisce forme di istituzionalità contro-egemonica.
Eppure, la grande forza del costituzionalismo italiano, a cui molti nostalgici del Novecento fanno riferimento in interventi e proclami, anche all’interno del PD, è stata quella di aver visto nei soggetti collettivi sviluppatisi al di fuori del «Politico» il motore dello sviluppo istituzionale del paese. La conflittualità e l’immaginazione dei movimenti sociali, nel dopoguerra, ha anticipato e stimolato la decisione politica, incidendo sulla produzione legislativa e piegandola al riconoscimento sostanziale dei diritti fondamentali, coniugando lo sviluppo economico con il rispetto della dignità umana. È forse la stessa connessione che è sembrata mancare, almeno in questi primi momenti costitutivi, al nascente partito di Sinistra Italiana, impegnato nei mesi scorsi in una guerra serratissima per la leadership e in un dibattito tutto autoreferenziale sui rapporti da intraprendere col PD.
Ora il PD di Renzi ha un’identità chiara e si avvia a giocarsi la partita con il movimento Cinque Stelle e con le destre, opponendo al sovranismo più o meno ricamato in chiave populista, un europeismo blandamente e strumentalmente critico, ma di fatto totalmente allineato alle regole neo-liberiste della sovranità del mercato e delle politiche di austerità. Per contro, scissionisti vari e Sinistra Italiana rischiano di andare a popolare la già folta schiera di partitelli tutti a caccia di una rappresentanza in Parlamento e tutti assai lontani dal connettersi con i bisogni degli impoveriti, dei poveri e degli esclusi. Con quei bisogni, cioè, ai quali la sinistra dovrebbe primariamente dare voce e rappresentanza.
Questo articolo è ucito anche sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 1 marzo 2017
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