Orizzonti politici nell’atmosfera capitalista

Per una rivoluzione senza futuro

Claire Fontaine, Balls sculpture - Untitled (tennis ball sculpture) 2008 palle da tennis riempite con vari oggetti non visibili, dimensioni variaibli (2)
Claire Fontaine, Balls sculpture - Untitled (tennis ball sculpture) 2008.

Is it just me, or is it getting crazier out there?
Joker 

Il presente esiste in oscillazione tra innumerevoli futuri, infinite possibilità inscritte nell’incertezza. Futuri possibili che cercano corpi presenti, in grado di tollerare la complessità di un ambiguo orizzonte politico. Sono prospettive in divenire che attendono di incarnarsi in un corpo sociale attualmente impotente e paralizzato, che non vede alcun futuro d’innanzi a sé, che non lo desidera. Le proposte politiche dei nuovi e vecchi partiti sembrano un rimpasto più o meno variegato di scorciatoie che ci illudono di rifuggire la nostra condizione di impotenza. Illusorie proprio perché a nulla serve sottrarsi al presente mitologizzando il passato (il make america great again! di Trump), e neppure abbagliare le prospettive future con illusioni sociolatriche di ripresa e crescita (magari green) inserite nell’attuale paradigma economico e sociale, quel tempo è finito, non solo perché le persone non saranno mai in grado di ripagare il debito accumulato, ma anche perché le risorse fisiche del pianeta sono vicine all’esaurimento. Non ci servono muri e non ci servono Viagra.

Per dare ossigeno a una critica attiva dell’esistente occorre innanzitutto «guardare la bestia negli occhi», come consiglia Franco Berardi, poiché «la paura è l’impotenza: non c’è alcuna impotenza se non nel temerla». Il timore dell’impotenza, temere di «essere soggetti a» (pur continuando ad esserlo) e le reazioni che la accompagnano, sono ciò di cui si nutre il potere, quel codice di convenzioni che schiaccia le possibilità future entro necessità presenti. Al contrario, accettare che siamo sempre e comunque soggetti a un sentimento collettivo in grado di governare tacitamente i comportamenti e l’affettività della comunità, è il primo passo verso un cambiamento sociale evolutivo. Comprendere (contenere in sé) in che modo «patiamo» l’atmosfera in cui siamo immersi collettivamente è una precondizione dell’azione critica ed emancipatrice. Ed infatti, «l’autorità di un atmosfera sociale […] quasi mai sopravvive alla sua penetrabilità cognitiva […] risulta invece gravemente inficiata dalla piena comprensione delle condizioni generative dell’atmosfera cui si è esposti»1.

Guardare la bestia negli occhi vuol dire saper tollerare ed accogliere in sé i sentimenti irradiati da quello sguardo, permettendo una interpretazione (estrazione di significati inscritti) estetica (incontro dei sensi con la novità) del presente in trasformazione. In altre parole, abbiamo bisogno di tornare a sentire come il mondo ci fa sentire e come reagiamo ad esso per permettere al «next»2 di emergere dall’eterno presente in cui siamo confinati, evitando di rimettere ciecamente in circolo sentimenti annichilenti. Questo non si può fare da soli, la novità può emergere solo in un contesto di sostegno, amicizia e solidarietà e non sotto minaccia. Per questo motivo il capitalismo neoliberale comporta il crollo della temporalità, il collasso di passato e futuro nel presente. Il futuro viene «lentamente cancellato»3 poiché, minando la solidarietà tra consociati, erode alla base le condizioni che permettono l’emergere di nuove forme di percezione sociale. La famosa affermazione di Fukuyama «la storia è finita» è quindi perfettamente adeguata al sistema capitalistico, o forse potremmo dire all’atmosfera capitalista, che nega e non sostiene il conflitto tra potere e possibilità.

Dunque immergiamoci. L’atmosfera che respiriamo è caratterizzata da un senso di minaccia e di perdita, ed è vissuta con panico e rassegnazione. Questi sono i segni impressi nei corpi della globalizzazione neoliberale, della competizione e della scomparsa della solidarietà tra membri di una comunità. Il futuro ha «cambiato segno», non promette più ma minaccia, attiva ed eccita senza sostenere. Così emergono le «passioni tristi» che inchiodano il desiderio e costringono il soggetto lungo le prescrizioni stabilite dal potere tecno finanziario, ovvero alla competizione per l’esistenza in una rete di connessioni iperstimolanti e prive di solidarietà.

L’accelerazione prodotta dal flusso di info-stimolazione, la sua complessità difficilmente maneggiabile e la difficoltà nell’estrarne delle regolarità e a fare delle previsioni, producono panico. La depressione è la disattivazione del desiderio dopo l’accelerazione: quando non si è più in grado di comprendere il flusso di informazioni si tende a desertificare la vita psichica4. Berardi riassume così il vortice di impotenza e competizione in cui siamo intrappolati: «autonomia e solidarietà sono state cancellate dalla precarietà, dall’ansia e dalla competizione che sono i caratteri principali dell’attuale organizzazione del lavoro. L’effetto della deterritorializzazione del lavoro e della frammentazione tecnica del corpo sociale genera l’incapacità di creare reti efficaci di solidarietà, mentre la nostra epidemica solitudine viene rotta soltanto da improvvise esplosioni di rabbia»5.

E ancora: «Non c’è più il tempo per avvicinarsi l’un l’altro, non c’è più tempo per le carezze, per il piacere e la lentezza delle parole sussurrate. La pubblicità esalta e stimola l’attenzione subliminale, la continua connessione moltiplica le promesse di incontro, ma queste promesse non si avverano mai. Il desiderio si trasforma in ansia e il tempo si contrae»6. Sciolti i legami di solidarietà, disconosciuto il calore decontratturante che essi evocano, nulla è possibile, desiderabile e comunicabile, a meno che non sia compatibile con il codice percettivo che domina la post-modernità: il «realismo capitalista» descritto da Mark Fisher, è una superstizione, per la quale la spietatezza delle leggi di mercato è inevitabile. Per chi, giocando a ribasso sulle proprie aspettative, si sottomette alla teologia capitalista, semplicemente non c’è alternativa, ed «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». Forse perchè, finchè vivremo nel suo riverbero devitalizzato, il mondo sarà già finito. Eppure, sottomettendosi qualcosa si perde.

Secondo lo psichiatra Miguel Benasayag, le passioni tristi sono alla base della psicopatologia contemporanea7, mentre la sociologa Rosalind Gill parla di ferita neoliberale riferendosi al dilagare epidemico dei casi di depressione negli UK8. Lo stesso Fisher, in Ghosts of my life, traccia un collegamento, disconosciuto e rinnegato dal mondo accademico e dalla pratica clinica, tra l’aumento dei casi di depressione le politiche neoliberiste degli ultimi trent’anni. La sofferenza umana va quindi compresa nell’ambito delle dinamiche di potere, ed è importante il lavoro di chi, ne sono esempio gli autori qui citati, a partire dalle esperienze estreme di questa sofferenza, prova a restituire alla società intera uno sguardo su di sé e una possibilità di scambio e dialogo.

Con questo intento la British Psychological Association ha recentemente proposto un cambio di paradigma nella classificazione ed eziologia dei disturbi psichiatrici, pubblicando il power-threat-meaning framework9, che concepisce il disagio mentale, lungo tutto il suo continuum che va dalla normalità all’anormalità, come una risposta alle minacce del potere (o forse potremmo dire come reazione automatica all’impotenza?). E d’altronde cos’è la sofferenza se non adattamento necessario e custodia del possibile? Secondo la formula de «Il personale è impersonale» di Mark Fisher, le possibilità inscritte nella sofferenza possono però emergere solo se l’esperienza individuale viene condivisa e ripoliticizzata. Come ricorda Judith Butler: «quando e dove c’è sofferenza o precarietà, essa è presente per essere trasformata nella vita dell’azione e del pensiero. Quest’azione e questo pensiero devono essere performativi in senso illocutorio, modellati su un giudizio estetico e portatori di qualcosa di nuovo nel mondo»10.

Secondo l’autrice statunitense, l’esperienza di sofferenza mantenuta su di un piano pre-politico (tramite operazioni di potere a cui partecipano anche i discorsi e le pratiche di salute mentale) è «sofferenza inutile». La retorica maniacale neoliberista, ad esempio, nega il contenuto «intenzionale» della sofferenza e investe l’individuo ideale del potere di oltrepassare qualunque ostacolo si frapponga tra sé e la propria realizzazione, con l’ulteriore danno psicologico che segue l’eccessiva responsabilizzazione e colpevolizzazione. La società neoliberista chiede ai propri consociati di «trovare soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche», come analizza Franco Palazzi nel suo Tempo presente. Accettare l’impotenza, invece vuol dire accogliere il fatto che in quanto esseri umani siamo affettivamente eterodeterminati e cioè soggetti all’atmosfera in cui siamo immersi, o posseduti dai fantasmi della nostra era direbbe Fisher riprendendo Derrida. Per questo motivo, delle atmosfere, di ciò che esiste «tra» gli individui, dobbiamo avere cura. «La nostra comune esposizione alla precarietà non è altro che il terreno condiviso della possibile uguaglianza e dell’obbligo reciproco a produrre insieme le condizioni di una vita vivibile»11.

Galimberti, nel suo ultimo libro, chiama nichilismo attivo la capacità di mantenere compresenti la realtà di precarietà esistenziale post-moderna e il sogno di una vita buona, e in questa peculiare predisposizione vede «l’opportunità di ridisegnare i rapporti umani, rimettendo in discussione le mappe – fisiche, mentali e sociali – trasmesse dalle precedenti generazioni». Concludendo con le parole di Berardi, «dobbiamo trasformare l’impotenza in una linea di fuga dall’universo della competizione», resistendo la tentazione, suggerita dall’asfissia di certe atmosfere, di «uscire» dalla realtà, di controllarla, di non esserne assoggettati. Come spiega Laurent de Sutter in Narcocapitalismo, la vita nell’era dell’anestesia: «La nostra è un’epoca perduta perché la sua lotta consiste nella messa sotto controllo delle nostre emozioni, dei nostri sentimenti, delle nostre eccitazioni. Ma perché tacerle? Probabilmente perché le nostre paure fanno paura – prima di tutto a noi stessi, e poi a tutti coloro che temono che ci mettano in movimento, che ci spingono a unirci» (p. 8).

Il movimento rivoluzionario è invece quello opposto di un’immersione, di una stasi nella realtà e di una condivisione di questa realtà esperienziale con uno sguardo terzo, quello degli altri. Se l’ideale di potenza illuministico, trascinatosi fino al suo trionfo (e crollo) post-moderno, era la locomotiva, perennemente proiettata ad un altrove e ad un futuro redentivo, «la rivoluzione è un freno di emergenza»12 che ci permette di «stare» e di «sentire», e in buona compagnia, si spera, «cantare all’infinità del presente, abbandonando l’illusione del futuro»13.

 

 

Note

Note
1Tonino Griffero, Il pensiero dei sensi. Atmosfere ed estetica patica, Guerini Scientifica, 2016, p. 99.
2Margherita Spagnuolo Lobb, Il now-for-next in psicoterapia. La psicoterapia della Gestalt raccontata nella società post-moderna, Franco Angeli, 2018.
3Franco Berardi Bifo, After the Future, Ak Press, 2011.
4Franco Berardi Bifo, How to heal a depression
5Franco Berardi Bifo, Futurabilità, Nero editions, 2018
6Franco Berardi Bifo, After the Future, Ak Press, 2011, p.74
7Miguel Benasayag & Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli (2014
8Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero Editions, 2018
9https://www.bps.org.uk/news-and-policy/introducing-power-threat-meaning-framework
10Judith Butler, A chi spetta una buona vita?, Nottetempo, 2018, p.36
11Ibid. p.62
12Michael Löwy, La révolution est le frein d’urgence. Essais sur Walter Benjamin, Editions de l’éclat, 2019.
13Franco Berardi Bifo, After the Future, Ak Press, 2011, p. 129.

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