Posizionare l’utopia
Note a margine di «Performance + Curatela»
Voglio sabotare gli usuali criteri di lettura di un libro. Pur non avendo affatto intenzione di proporre una contro-logica, desidero far esplodere momentaneamente la prassi di sfogliare un volume secondo un ordine rigoroso, che garantisca l’approccio analitico tradizionale, e prendere in considerazione, invece, la dedica, le epigrafi, qualche citazione. Sono, questi, luoghi privilegiati di manifestazione degli affetti di chi scrive. E, inoltre, dicono molto su intenzioni, traiettorie e aspirazioni. È con questa strategia che mi propongo di far emergere da Performance + Curatela, curato da Piersandra Di Matteo nel 2021 per i tipi di Luca Sossella Editore*, questioni che – mi sembra – continuano a interrogarci.
È Frie Leysen l’intestataria della dedica di un libro che, come Di Matteo stessa chiarisce, ha la vocazione di essere «una prima introduzione al tema attraverso la raccolta e la traduzione di testi prelevati dal dibattito internazionale, che descrivono posizioni teoriche, riflessioni su orizzonti operativi, processi curatoriali collettivi, contesti di produzione e scambio di saperi radicati nell’esperienza» (p. 16). Un fortunato paradosso: un libro che getta uno sguardo sulle teorie e pratiche relative alla curatela delle performing arts viene dedicato a una straordinaria signora, scomparsa nel 2020, che detestava essere chiamata curatrice. Lo ha ricordato lei stessa, nel 2017, in un incontro pubblico con Catia Gatelli a Forlì, durante la XXIV edizione del festival Crisalide: «Sono una programmatrice ossia colei che ha il compito di essere antenna e captare ciò che preoccupa gli artisti. A partire da questi bisogni il programmatore mette al centro gli artisti e il loro lavoro. Il curatore invece mette al centro se stesso, il tema, e solo in un secondo momento cerca quegli artisti che possano dimostrare la sua intelligenza e il suo buon gusto»1. Un paradosso che funziona bene perché è proprio la «presa» del gesto autoriale che Di Matteo vuole sconfessare nella composizione di questo volume. Così non scrive un trattato sulla curatela, una cronistoria o una disamina dei vari orizzonti teorici e delle diverse metodologie dispiegate. Semmai nello stesso atto di pensiero che genera il libro adotta una postura curatelare, abbandonando qualsiasi tentazione geometrizzante che disponga schematicamente i diversi interventi: li fa, invece, dialogare in funzione di principi di assonanza e risonanza.
Un altro luogo di affetti: l’epigrafe che apre il saggio di Rachida Triki, La Dream City di Selma e Sofiane Ouissi. A essere interpellate sono le parole di John L. Austin: «Our ordinary words are much subtler in their uses, and mark many more distinctions than philosophers have realized; and the facts of perception are much more diverse and complicated than has been allowed for». In merito alla teoria degli atti linguistici e alla sua capitale importanza per le riflessioni a venire nell’elaborazione del concetto di performance è già stato detto moltissimo, a tal punto che possiamo considerare Come fare cose con le parole un atto di detonazione. Non è un caso che la riflessione di Austin si affacci in vari saggi di questo libro per corroborare quell’uso, ormai sdoganato, del concetto di performatività secondo un’accezione diffusa e allargata. Un uso che, negli anni Novanta dello scorso secolo, ha trovato nuova forza teorica nelle declinazioni di intellettuali quali, solo per fare un esempio, Judith Butler. Ed è questo il nodo cruciale che qui mi interessa sottolineare, il colore dominante che esplode nell’intera concezione del libro: l’utilizzazione di performatività come categoria della politica, così come vuole Butler. Se, come fra gli altri scrive Florian Malzacher in uno dei saggi qui raccolti (Sentirsi vivi. Il potenziale performativo della curatela), occorre concepire la curatela come performativa e se la performatività è atto politico, allora la curatela stessa è atto politico. Ma come declinare qui il politico? A quale sfaccettatura della politica si fa riferimento in questi saggi?
Occorre farsi riscaldare da un’altra epigrafe, quella che apre La curatela come mentalità ambientale di Elke Van Campenhout. La parola è affidata a Tom Plischke: «Per trovare una cornice, una temporalità o una situazione all’interno della quale i suggerimenti degli altri possano essere realizzati». La stessa Van Campenhout ricorda la sua esperienza di spettatrice. Nel 2001 si trovò a partecipare a di BCD / Tom Plischke & Friends al BSBbis di Bruxelles, evento performativo che durò dieci giorni, ventiquattro ore su ventiquattro ore. Oltre a due performance di Plischke e del suo collettivo BCD e a quelle di altri artisti, fu predisposto un programma di film, conferenze, workshop e incontri diluiti nella durata-monstre che, proprio per la sua natura, erose i confini fra tempo del lavoro, tempo del riposo e tempo libero. Nelle parole di Van Campenhout sembra rivivere quella che a tutti gli effetti fu un’esperienza aurorale: il sorgere di una nuova modalità di intendere la curatela, concepita come pratica volta a creare un ambiente in cui possano essere innescate azioni condivise che esulino dalle logiche del risultato programmato in anticipo e che, invece, si facciano carico di possibilità di rischio e di imperfezione. In altre parole, una pratica ecologica su cui innervare il pensiero creativo. Un modello, questo, che è il trait d’union delle visioni proposte dai saggi raccolti in questo libro.
Ma quello che mi interessa sottolineare rispetto alla declinazione politica del performativo riguarda il potenziale trasformativo, qualità intrinseca della performance. È qui che il discorso incontra e si misura con l’esistente. È qui che la vocazione performativa della curatela deve mostrare la sua tenuta. Sto scrivendo di qualcosa che immediatamente mi sposta altrove, verso un altro libro e all’epigrafe di Oscar Wilde che lo apre: «Una mappa di questo mondo che non includa l’Utopia non è degna di uno sguardo». È con queste parole che si apre Cruising Utopia di José Esteban Muñoz (Nero Edizioni, 2022), atto di pensiero volto alla costruzione di una «futurità» utopica anche attraverso pratiche performative che nel presente e nel passato abbiano mostrato il baluginio dell’orizzonte desiderato. Se il progetto di una curatela performativa vuole produrre orizzonti più abitabili, esso si scontra necessariamente con quelle istanze che, in termini foucaultiani, chiamiamo di governamentalità, capaci di sussumere qualsiasi forza voglia eccederle, qualsiasi visione voglia neutralizzarle. Tanto è vero che, riflettendo su quei festival che nascono come spazi di ripensamento e riformulazione di un agire consolidato, in Festival come entità pensanti Daniel Blanga Gubbay lucidamente afferma: «Pensare il festival come eccezione comporta il rischio di rafforzare la norma» (p. 115).
Più avanti, continua: «Ma il carnevale è proprio una delle genealogie dello ‘stato di eccezione’ che finisce per rafforzare la norma» (p. 118). La riflessione è profonda perché individua la dialettica tra il possibile, il pensabile, l’auspicabile e l’esistente. Per quanto Muñoz, in un passo del suo libro, riprenda una conversazione tra Adorno e Bloch con il primo che sostiene che le immagini dell’utopia sono in primis una forza di negazione della realtà che rinvia a ciò che deve essere e che il farsi di queste immagini sia carburante per una critica del presente, mi chiedo quanto oggi l’esercizio da fare sia solo immaginare il futuro anche attraverso pratiche come la curatela. Una domanda che ci espone a una situazione di estrema fragilità. La vera interrogazione rivolta ai curatori, così come a chi crea arte, non è solo tentare di prefigurare il futuro. C’è di più. C’è da setacciare attentamente il presente con un esercizio di fantasia, c’è da interrogarsi con urgenza su come determinate pratiche possano cristallizzarsi in posture permanenti e diffuse che non si pongano solo come eccedenze, ma che possano ricavarsi spazi di autonomia nell’orizzonte contemporaneo.
* Performance + è una collana edita da Sossella in collaborazione con il corso di laurea in Teatro e arti performative dell’Università Iuav di Venezia.
Note
↩1 | Simone Azzoni, Artista vs omologazione. Un dialogo con Frie Leysen, https://www.artribune.com/arti-performative/teatro-danza/2017/09/intervista-frie-leysen-festival-crisalide-forli/ |
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