Povertà o barbarie?

Per un'antropologia politica dei nuovi poveri

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Francesco Clemente, Senza titolo, N.d.R. 18. 07. 1977

Era la generazione che aveva cominciato a pensare dopo l’inondazione.
Non aveva tradizioni, non ricordi che la legassero al vecchio mondo scomparso.
Una generazione nata senza cordone ombelicale…
E tuttavia aveva ragione dal suo punto di vista.
Bisognava strappare quel cordone ombelicale,
rinnegare l’ultimo vincolo che legava gli esseri umani
alla vana concezione
dell’onore e alla dignità ipocrita del vecchio mondo.
Arthur Koestler, Buio a mezzogiorno

Corre l’Anno Domini 1933 quando, con l’ascesa al potere del nazionalsocialismo, inizia l’esilio, assieme a quello di tanti altri, di Walter Benjamin. Prima Parigi, poi Ibiza, dove la miseria lo conduce a ridurre i propri bisogni e costi vitali «a un minimo sotto il quale è pressoché impossibile scendere». Per via del suo aspetto sempre più trasandato e malmesso gli ibizenchi presero a chiamarlo el miserable. È però in situazioni simili, di estrema indigenza e difficoltà, racconta l’amico Gershom Scholem, che la capacità di Benjamin di concentrazione nell’attività intellettuale diveniva di «quasi miracolosa intensità». «Raccolgo fiori al margine del minimo esistenziale», ebbe a scrivere a una sua parente questo figlio della borghesia ebraica assimilata che scelse disgrazia e miseria pur di allontanarsi dal suo contesto famigliare originario.

Tra questi fiori spicca un testo, lapidario nella sua brevità e forse tra i più belli che abbia mai scritto, che proprio alla povertà è dedicato: ma a una povertà tutta particolare, l’Erfahrungsarmut, la povertà di esperienza. Quello doveva essere, peraltro, il titolo originale del saggio, ma, nel dicembre 1933, venne pubblicato sulla rivista praghese di un altro emigrato, Willy Haas, «Die Welt im Wort», col titolo ormai noto di Erfahrung und Armut, «Esperienza e povertà».

Eventi dalla portata epocale – la Prima guerra mondiale, la crisi economica, i nuovi modi di produzione del capitalismo avanzato, il progresso tecnologico – avevano messo in scacco e fatto precipitare la potenza connettiva propria dell’esperienza così come il pensiero e la tradizione l’avevano conosciuta fino ad allora. Questo il fenomeno che Benjamin analizza. Inizio della fine delle grandi narrazioni, secondo il ben più tardo adagio postmoderno, o, in altri e assai più convincenti termini, apocalisse, catastrofe, distruzione dell’esperienza, e, quindi, della tradizione stessa. Fisiognomica di una generazione che, dopo il quadriennio del ’14-’18, era tornata «muta» dai campi di battaglia, «non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile», che, sulle soglie di un nuovo conflitto mondiale, si trovava d’improvviso «sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui niente era rimasto immutato tranne le nuvole, e nel centro – in un campo di forza di esplosioni e correnti distruttrici – il minuto e fragile corpo umano».

La distruzione della vecchia esperienza, intesa come organica e sistematica connessione di fatti ed eventi, basata sullo schema dell’abitudine e della consuetudine, è sostituita e velata da una continua e convulsa simulazione del processo esperienziale, al fine di mistificare ed esorcizzare, più o meno nostalgicamente, l’indigenza del contemporaneo 

Il mutismo – la perdita della capacità di raccontare – fa il paio però, a mezzo dell’«immenso» sviluppo tecnologico, con un altro fenomeno, quello della galvanizzazione. Miseria alla seconda potenza, esito delle nuove forme di vita metropolitane, che si esprime nella sovrapproduzione di choc percettivi. La distruzione della vecchia esperienza, intesa come organica e sistematica connessione di fatti ed eventi, basata sullo schema dell’abitudine e della consuetudine, è sostituita e velata da una continua e convulsa simulazione del processo esperienziale, al fine di mistificare ed esorcizzare, più o meno nostalgicamente, l’indigenza del contemporaneo. In questi termini Benjamin legge i fenomeni di nuova, «orrenda e caotica Renaissance»: dietro «il raccapricciante guazzabuglio di stili e di visioni del mondo» a spuntare è il meccanismo proprio di un artificio compensativo, là dove risulta troppo «disonorevole confessare la nostra povertà». Spasmodica ricerca di una dimensione autentica che non c’è più – se mai ci fosse stata –, ritorno a piccole o presunte nuove patrie, oscillazione continua tra reazione identitaria e nuovismo sfrenato, questa la tensione profonda occultata dall’«opprimente ricchezza di idee» che si diffonde «tra – o meglio, sopra – la gente». I grandi luna park metropolitani, le nuove tecnologie, rivitalizzano per galvanizzare – virtuosismo nichilistico – ed è così che tutto può tenersi insieme: «astrologia e sapienza yoga, Christian Science e chiromanzia, vegetarianismo e gnosi, scolastica e spiritismo».

Lo stesso «patrimonio culturale» si fa simulacro patinato e artificioso a cui gli ultimi della stirpe dei Titani si aggrappano, significante vuoto che si sgretola dall’interno, dal momento che non c’è più alcuna esperienza in grado di congiungerci a esso. In tal senso, afferma Benjamin, una simile povertà non investe tanto, o solo, le esperienze private, ma le «esperienze dell’umanità in generale». Processo storico e collettivo dunque, che porta alla luce «una specie di nuova barbarie».

Come è noto Benjamin utilizzerà questo nesso tra cultura e barbarie in una delle più celebri tesi Sul concetto di storia, individuando dietro ogni documento di cultura e civiltà il servaggio dei senza nome, la barbarie appunto. Ma in questo testo del ’33 l’operazione è differente, più ambiziosa se si vuole, là dove traccia le linee fondamentali per ripensare il rapporto, decisivo, tra trasformazione dell’esistente, rivoluzione e fondazione di una nuova antropologia. È il problema dell’uomo nuovo, il quale può sorgere soltanto dai resti delle macerie del presente, assumendo fino in fondo l’indigenza esperienziale e non rifiutandola o mistificandola; può formarsi cioè esclusivamente nella carne emaciata e fragile del povero d’esperienza, del barbaro contemporaneo. Il «nuovo positivo concetto di barbarie» che qui Benjamin propone non muove da alcun impulso nostalgico e malinconico per il passato, per la tradizione in crisi e in via di disfacimento, piuttosto quel che in prima istanza rifugge è proprio quell’«immagine umana tradizionale, solenne, nobile, fregiata di tutte le offerte sacrificali del passato, per rivolgersi al nudo uomo del nostro tempo che, strillando come un neonato, se ne giace nelle sudicie fasce di quest’epoca».

Ma chi sono i barbari così positivamente intesi? La risposta di Benjamin è netta: sono coloro che, facendo i conti con la propria miseria, ricominciano da capo

Ma chi sono i barbari così positivamente intesi? La risposta di Benjamin è netta: sono coloro che, facendo i conti con la propria miseria, ricominciano da capo. Coloro che lasciano agire in termini trasformativi su se stessi una simile povertà, la quale non può che indurli a «iniziare dal nuovo; a farcela con il poco: a costruire a partire dal poco e inoltre a non guardare né a destra né a sinistra». I barbari sono dei creatori, dei costruttori implacabili, che, per prima cosa, fanno «piazza pulita». Si muovono in bilico sulla superficie delle cose, la pura esteriorità è il loro piano di lavoro, «l’arbitrario elemento costruttivo» il loro metodo, di contro all’«organico», al capriccio metafisico e borghese dell’«interiorità». Barbaricamente distruggono, parafrasando un altro testo di Benjamin di poco anteriore a questo, riducono una volta di più l’esistente in macerie, ma «non per amor delle macerie» – secondo un tic onanistico di fascinazione estetica per la distruzione fine a se stessa –, ma per amore della «via d’uscita che le attraversa».

Le Corbusier, Adolf Loos o Paul Scheerbart, sono alcuni dei profili esemplari che Benjamin sceglie per pensare la disposizione barbarica: la «cultura del vetro» dell’architettura scheerbartiana o un certo utilizzo dell’acciaio da parte del Bauhaus hanno fatto esplodere le stanze felpate dell’interno borghese, zeppe di «tracce» delle consuetudini di chi le abitava; materiali freddi e sobri, privi di aura, nemici del «segreto» come del «possesso», hanno prodotto combinazioni inedite, combinazioni che puntavano, secondo le parole dello stesso Scheerbart, a una «completa trasformazione dell’uomo» e della natura.

Ambienti in cui non si anela a «una nuova esperienza», ma in cui vien fatta «risaltare la propria povertà, quella esteriore e in definitiva anche quella interiore», fanno così da controcanto a figure mostruose, de-umanizzate, che rifiutano la somiglianza con l’uomo, creature scuoiate, che hanno dato solo avvio al processo della propria muta e che sono perciò in attesa di una pelle nuova. Sono le creature di Paul Klee, insieme angeliche, luciferine, bestiali; è Lesabéndio – personaggio dell’omonimo romanzo fantastico di Scheerbart – e, insieme a lui, gli abitanti dell’asteroide Pallas, col loro corpo composto da un’unica gommosa zampa tubolare fornita di piede a ventosa e con i loro nomi che ricordano tutto tranne che dei nomi propri umani.

Si tratta di un processo che non può esser pensato separatamente dallo sviluppo tecnologico, come Benjamin ha ben mostrato con le sue riflessioni sull’opera d’arte e sulla riproduzione tecnica, individuando nella riconfigurazione del sensorio umano, oltre che dei modi di produzione, il cuore del nuovo «contrasto storico mondiale» col capitale. Il montaggio cinematografico aveva infatti portato alla luce una tecnica mediante la quale venivano fatte «le prove per un nuovo tipo d’uomo», una tecnica che per la prima volta in maniera drastica palesava la sua intrinseca ambivalenza: immenso potenziale di liberazione o terrificante strumento di rinnovata schiavitù e distruzione, a seconda dell’uso che di essa se ne sarebbe fatto, a seconda di quanto le masse sarebbero riuscite ad appropriarsi dei suoi mezzi nello scenario dei rapporti di produzione del capitalismo avanzato. Più che demonizzare la tecnica e il suo Gestell, più che demolirla, per dirla con Brecht, si trattava di svilupparla; di riallacciarsi non «alla bontà del vecchio ma alla cattiveria del nuovo», inserendosi e sciogliendosi innanzitutto nelle masse, perché soltanto da esse l’uomo sarebbe ridiventato uomo – «un uomo diverso da prima». Perché le rivoluzioni altro non sono che «innervazioni del collettivo», adattamento alle nuove forze produttive e, insieme, «padroneggiamento delle forze elementari della società»: nei tentativi di fare della tecnica gli organi del nuovo collettivo, nel fare di essa uno strumento di liberazione dalla schiavitù del lavoro, intendendola finalmente come un «gioco armonico», critico e sperimentale, tra natura e uomo – non più cioè nei termini del dominio dell’uomo sulla natura e dell’uomo sull’uomo – lampeggia la chance rivoluzionaria, la quale converge in un sol punto con l’abolizione della «morta contrapposizione a-dialettica tra individuo e massa».

Forse nessuno come Benjamin ha preso sul serio le bellissime pagine sul comunismo dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 e, con esse, la radicalità dell’antropologia marxiana: rivoluzione e comunismo non possono che coincidere con la costruzione di un nuovo tipo d’uomo, la soppressione della proprietà privata non può esser pensata scissa dall’«emancipazione di tutti i sensi e di tutti gli attributi umani». L’uomo comunista, l’uomo nuovo deve essere necessariamente l’«uomo che si appropria del suo essere onnilaterale in maniera onnilaterale», deve farsi «uomo totale», a partire da un processo di riappropriazione e attuazione delle sue molteplici determinazioni e attività, della sua sensibilità complessivamente intesa (non solo quindi dei «cinque sensi», ma anche dei «cosiddetti sensi spirituali, i sensi pratici»). Questi nuovi organi devono formarsi e incarnarsi come nuovi organi sociali.

Ma che vuol dire, nel tempo in cui viviamo, fare della propria miseria una risorsa, ripartire da capo e costruire a partire dal poco, quando il capitalismo è riuscito a mettere a valore anche questa stessa miseria esperienziale? 

Interrogarsi oggi su come si sia ridefinita la nostra povertà di esperienza resta domanda politica aperta. Una cosa è certa: siamo diventati nuovamente poveri, ancora una volta e una volta di più, indigenti. Ma che vuol dire, nel tempo in cui viviamo, fare della propria miseria una risorsa, ripartire da capo e costruire a partire dal poco, quando il capitalismo è riuscito a mettere a valore anche questa stessa miseria esperienziale?

Paolo Virno ha parlato a tal proposito di «Kindergarten da incubo» per descrivere l’orizzonte delle attuali forme di vita metropolitane, il nuovo scenario produttivo, in cui proprio l’assenza di solide abitudini e tradizioni diventa fonte decisiva per l’estrazione di valore da parte del capitale, in cui questa stessa assenza viene deliberatamente resa cronica, al fine di consolidare e mettere a sistema una simile procedura estrattiva. Esito anche del lungo processo di capitalizzazione della rivoluzione, dell’esodo e della diserzione operaia dal lavoro salariato, il rifiuto del regime di fabbrica, di un ruolo definito, la rivendicazione di autonomia e mobilità, la capacità umana di ri-abituarsi sempre da capo, vengono catturati e sussunti per essere restituiti in forma di doppio, di superfetazione deforme: coazione al padroneggiamento continuo dell’imprevisto, flessibilità, precarietà e formazione permanenti, creatività, inclinazioni e linguaggio messi al lavoro. Nuovo sfruttamento, nuova schiavitù del general intellect.

È così che, nel tempo in cui massima è la cooperazione produttiva e, con essa, la socializzazione, si assiste a un nuovo trionfo di quella «finzione grammaticale» chiamata io, al proliferare ininterrotto e convulso di differenze e novità all’ingrosso corrisponde, contemporaneamente, una produzione febbrile di tradizioni fatiscenti – rinascenza di identità e reazione. Schizofrenia del capitalismo, avrebbe detto qualcun altro. Esito anche del fallimento di quella generazione che aveva tentato di costruire l’uomo nuovo, finendo per generare, secondo le parole ineguagliabili di Arthur Koestler, un «aborto dalle membra mostruose». Epilogo disgraziato delle Grandi Ideologie, acclamazione nichilistica del relativismo di tutti i valori e del pensiero molle. Ripartire dai nuovi poveri, questo il compito eminentemente politico. Rovesciamento delle loro, delle nostre «sorisa fimere» – spero abbiate visto tutti l’ultimo lavoro di Corrado Guzzanti – in risa barbariche, vendicatrici e costruttrici. O moltitudine dei barbari della nuova era o barbarie, quella vera, catastrofica, peraltro già in corso.

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