Quelli che Immuni non è
La Cura ai tempi del Coronavirus #4
La necessità di riposizionare la malattia nella nostra società torna ad essere un fatto di primaria importanza come mai in questi giorni in cui il pianeta è colpito da un’epidemia di portata globale. Ce ne dà l’occasione di nuovo, dopo 7 anni, Salvatore Iaconesi. La performance de La Cura continua con una tragica e peculiare sincronia, nel momento in cui tutti quanti possiamo trarne più beneficio e coglierne l’opportunità, insieme.
In questa serie di articoli l’autore pone le basi per una nuova Cultura Ecosistemica che trova il luogo materiale e immateriale per sperimentare le forme di un «abitare iperconnesso» in HER she Loves Data: il centro di ricerca di nuova generazione dedicato alla cultura dei dati fondato da Iaconesi e dalla sua compagna, Oriana Persico. Leggi gli articoli precedenti.
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«È il momento più importante della giornata. Di base si agisce nei quartieri, ma se vuoi (per esempio se conosci qualcuno di quel posto) ti puoi collegare anche ai rituali di altri posti. E so anche di comunità più piccole che si riuniscono così: singoli condomini; gruppi che desiderano fare il rituale nella loro lingua; ci sono veramente tanti casi.
È iniziato tutto con la celebrazione dei morti. Durante la pandemia del 2020 è stato difficilissimo. Con le regole imposte dal social distancing non era possibile neanche dare l’ultimo saluto ai propri cari passati a miglior vita. Intere famiglie, amici, conoscenti, conviventi separati dalla malattia, magari bloccati in città differenti per i casi della vita, o separati dalle porte del reparto di emergenza, non potevano salutarsi, piangere, urlare, fare un brindisi, accendere una candela, cantare e tutte quelle cose che gli esseri umani fanno da millenni per salutare chi non c’è più, per poterci avere a che fare, nell’intimità e con la propria famiglia o comunità.
All’epoca era scoppiato uno scandalo, un putiferio: a fronte di norme senza senso, cose importanti come i funerali non erano nemmeno nel pensiero degli amministratori pubblici, e i cadaveri dei morti viaggiavano solitari nei camion dell’esercito. L’anno successivo, però, al ritorno del secondo ciclo di contagio, quando il problema si pose di nuovo, un gruppo di artisti, antropologi e psicologi si unirono insieme e crearono una pratica: un nuovo rituale. Era un modo in cui le persone si potevano riunire online e condividere materiali, immagini, testi e video della persona deceduta, un rituale della celebrazione e del passaggio. Le persone si potevano finalmente riunire – seppure virtualmente nei casi più complicati –, e potevano mangiare e bere insieme e, insieme, trarre un senso dalla morte avvenuta, per incasellarla nella cosmologia di questo nuovo strano mondo in cui tutti ci trovavamo. Quello era anche il momento per iniziare a capire quale potesse essere il dopo del tragico evento.
Perché, come avviene in tutti i rituali del mondo, quel nuovo funerale era anche l’occasione in cui sia le singole persone che le autorità iniziavano ad impostare e comunicare la loro solidarietà, i loro modi per sostenere e aiutare quelli che erano rimasti in vita: il rito era anche e a tutti gli effetti il primo passo in cui i vivi comunicavano il proprio aiuto, la possibilità di ricevere affetto, sostegno psicologico, sociale, economico e servizi.
Chi moriva veniva accompagnato verso le fasi in cui ogni civiltà umana ha creduto che si arrivasse quando sopraggiungeva la morte. Chi restava in vita veniva accompagnato verso le successive fasi del proprio restare in vita. Con un senso. E non da soli. Il momento in cui nacque quel rituale fu una specie di rinascita.
Una rinascita che mi porta direttamente qui, adesso: il momento più importante della mia giornata di oggi. Sto per controllare se oggi avrò il mio Cambio di Stato. Il Cambio di Stato avviene quando, per qualche motivo, uno di noi si trova a diventare più a rischio, più debole, più fragile nella nostra società.
Cambiare stato non è una cosa negativa. E infatti nessuno ha un problema ad ammettere di aver cambiato stato. Anzi, in un certo senso, è una cosa bella. Quando cambi stato e lo comunichi, tutti sanno che potrai trovarti nelle condizioni di aver più bisogno di aiuto, e sia le persone che le istituzioni si fanno in quattro per farti sapere che, se ti dovessero servire, ci sono. Le persone ti iniziano a dire di chiamarle se ti dovesse servire qualcosa. Ci sono tante reti di volontari a cui chiedere aiuto. E le istituzioni mettono a disposizione i servizi per chi ha cambiato stato. Visto che si tratta di un ambiente digitale, puoi comunicare il tuo Cambio di Stato anche in maniera anonima.
È una cosa molto chiara e comprensibile: quando qualcuno è più fragile, le persone e le istituzioni sono lì, se serve, per prendersene cura. Ci sono molti motivi per cui le persone possono cambiare stato: aver perso il lavoro; una situazione difficile in famiglia; essere ammalato; o ancora altro.
Tutto è basato sui dati. Ma non sui dati che qualcuno raccoglie su di te, estraendoli dalla tua storia e dai tuoi comportamenti. È più una peculiare forma di espressione autobiografica. Sono disponibili tanti modi in cui tu puoi raccogliere dati su te stesso: ad esempio usando varie forme di diario, o attraverso i modi in cui è possibile usare le tecnologie per memorizzare qualcosa su sé stessi, che siano temperature, ore di sonno, stati emotivi, relazionali o cos’altro.
Ognuno tende scegliere quali dati raccogliere e a usarli nei modi che gli generano più senso. Ad esempio, avanzando con l’età, potrebbe interessarmi osservare meglio il mio stato di salute; mentre invece nel pieno della giovinezza, di solito, prevale il desiderio di raccogliere dati circa le dimensioni emozionali della vita, l’arte, la musica, la moda, le relazioni. Anche la selezione dei dati che scegli di osservare di te stesso e del mondo in cui vivi diventa una forma espressiva, tanto che alcune persone li trasformano in musica, visualizzazioni info-estetiche, capi di abbigliamento da indossare, con pattern generativi. Nessuno ti obbliga a scegliere dei dati particolari. Poi, ovviamente, ci sono delle campagne di comunicazione che ti fanno pensare che sì, è meglio controllarlo quel dato, ora.
Come oggi: il dato più caldo del giorno è il rischio di contagio da corona virus. Sì, proprio come quella primavera di 6 anni fa. Da allora è stata sempre un’altalena, perché appena finiva una emergenza in una nazione ne iniziava una nuova da qualche altra parte. E quindi continui stati di tranquillità si alternavano, sempre e globalmente, a continui stati di emergenza. Oggi è uno di questi ultimi.
Le persone che decidono di condividere anonimamente i propri dati (c’è uno standard per questo, che si chiama Ubiquitous Commons) contribuiscono a creare una mappa globale dei rischio. Ciascuno se la scarica sul proprio dispositivo e la confronta con i propri dati per vedere se si è verificata una qualche condizione di rischio tale da giustificare un cambiamento di stato: questa fase si chiama il Grande Aggiornamento.
Ecco. La barra del download è all’80%. Simultaneamente, anche le altre persone stanno scaricando la mappa del rischio che tutti abbiamo contribuito a creare. (86%, 88%, 90%). Anche loro, penso, saranno emozionati come me: il Cambio di Stato è un momento importante, in cui si decide di prendersi cura di una o più persone che decidono di esporre agli altri – a noi – la propria fragilità: per sé stessi, per stare meglio e non soffrire; ma anche per noi, come in questo caso, per non mettere a repentaglio la nostra salute collettiva.
98%, 99%, 100%. Sono pronto».
L’idea che le cose possano limitarsi ad essere soltanto utili, efficienti o efficaci è, ovviamente molto limitata. Allo stesso modo di come è limitata l’idea che il conoscere i fatti, i dati e l’essere informati sia sufficiente a cambiare i comportamenti delle persone. Le persone, infatti, agiscono secondo molteplici dinamiche e logiche differenti: emozionali, spirituali, di appartenenza, di autorappresentazione, di senso. Tra queste, la logica e l’utilità non sono certamente le più potenti e immediate.
Se operiamo esclusivamente secondo le logiche della razionalità, dell’utilità e del calcolo perderemmo l’accesso a tutte queste altre modalità secondo cui le persone (re)agiscono e che, spesso, sono non solo più potenti, ma anche maggiormente capaci di insediarsi nelle culture delle comunità, unendole nella capacità di generare senso e, di conseguenza, permettendo di concepire e ottenere obiettivi comuni. Proprio per riuscire a operare secondo tutte queste altre dimensioni, le grandi e piccole comunità di ogni tempo e luogo hanno creato rituali per stare insieme, per difendersi, per avere un buon raccolto, per rimanere in salute, per essere solidali con gli altri membri della comunità, per conoscere e imparare, e così via.
Nel corso della storia (e nei modi in cui la storia si è manifestata nei vari luoghi del mondo, che non sono sincronizzati tra loro) rituali e ritualità si sono di volta in volta manifestati come hanno potuto: sotto forma di azioni codificate indirizzate alle divinità che incarnano i fenomeni fisici, psicologici e sociali; poi nelle religioni e nelle filosofie; e poi nelle scienze, nei mercati, nel consumo, nelle tecnologie, nella comunicazione e nella conoscenza. Siamo sempre stati completamente immersi nelle ritualità, e sono potenti: perché ci fanno fare le cose, e perché inquadrano queste cose che facciamo in un contesto fatto di segni, simboli, significati, senso.
Quel che è certo è che queste ritualità si sono composte a formare gli stili, gli atteggiamenti e le estetiche (ovvero le capacità di essere esposte al sentire) con cui le civiltà si manifestano nel mondo: hanno sempre guidato gli esseri umani a fare le cose insieme e, simultaneamente, sono state la guida per la loro evoluzione culturale. I singoli individui hanno trovato (e costruito) nelle ritualità i modi di rappresentarsi nella propria civiltà, e i modi di chiedere e offrire solidarietà, conoscenza, sostegno psicologico, sociale, relazionale, economico.
Le autorità e le istituzioni hanno sempre costruito nei rituali la capacità di rappresentare la propria autorevolezza oltre la violenza, tramite la creazione del senso e la padronanza del sapersi orientare, muovere e posizionare nella cosmologia, rendendosi capaci di rappresentare una direzione, per evitare il disastro – che vuol dire letteralmente dis-astro, senza stelle, senza la luce degli astri per orientarsi.
Come si scrive, quindi, una civiltà? Da quanto detto, non è sufficiente operare solo sul livello della tecnica e dell’amministrazione: non bastano, quindi, le dimensioni dell’utilità, dell’efficacia, della logica, della razionalità. Questi livelli, ovviamente importanti, aiutano a stabilire i canoni di quel che è possibile e consigliabile fare, di ciò che si conosce e di quello che si vorrebbe conoscere e poter fare.
Ma per costruire un contributo che vada nella direzione dell’evoluzione culturale servono i modi dell’estetica – del poter essere esposti al sentire –. Solo così è possibile andare oltre i limiti dell’utilità e della logica, per essere esposti all’esperienza del mondo e per descrivere uno stile del nostro essere ed agire. Per poter costruire e descrivere i perché delle cose e, allo stesso tempo, per riuscire a convivere con il fatto che non possiamo definirli completamente, se non nella morte.
Tra queste due dimensioni esiste una tensione, che è quella in cui possiamo agire. Ad esempio attraverso l’Arte e il Design, e la continua azione di traduzione tra scienza, tecnologia e società in cui consiste il lavoro principale degli artisti e dei designer. Lo stiamo vedendo, ad esempio, in questi giorni di pandemia, e in particolare nel momento di passaggio dalla fase di lockdown a quella della possibilità del progressivo ritorno all’aperto, alla socializzazione, alla relazione.
In questo processo la tecnica e l’amministrazione sono sufficienti per arrivare a progettare e realizzare quei prodotti e quei servizi che, effettivamente, «salveranno vite umane». Si potrà essere o non essere d’accordo con le specifiche tecniche progettuali o implementative di questi dispositivi tecnici e amministrativi, o si potrà essere convinti che amministrino male, o che addirittura portano la società in direzioni autoritarie.
È importante, e bisogna avere a che fare con la tecnica e l’amministrazione per tentare di realizzare le soluzioni migliori, ma in questo momento è ancora più importante capirne il ruolo, e come si posizionano questi livelli nella nostra società. Perché solo capendone il ruolo si può, per differenza, comprendere anche cosa manca.
È questo, ad esempio, quello che sta accadendo in questi giorno circa Immuni e le altre app di Contact Tracing (inclusa una, che ancora non esiste, che si chiamerà Trustband, ad opera di un gruppo di ragazzi giovanissimi, a cui devo l’idea della mappa del rischio nel racconto). In tutti i casi le fazioni dei sostenitori delle diverse metodologie tecniche e amministrative si stanno duramente scontrando sul piano dell’ottenere quella che secondo loro è la soluzione migliore. Ma nulla si sta facendo per inquadrare questa soluzione – e, quindi, questa nostra nuova dimensione dell’essere, della nostra realtà – nelle dimensioni del senso, della cultura, dell’estetica.
Sono addirittura i governanti della Cultura – ad esempio l’attuale Ministro – a fare questo tipo di errore, ragionando sulle soluzioni – facciamo un Netflix della cultura! –, e non avendo niente da dire su queste altre dimensioni. Che, invece, sono quelle che faranno la differenza. Se, infatti, in questo modo tecnico e amministrativo possiamo progettare e realizzare i prodotti e servizi che «ci salveranno» (qualsiasi cosa questo voglia dire), in questi modi abbiamo ben poco da dire sulla progettazione e realizzazione di quelle ritualità e di quegli interventi nella cultura e nell’immaginario che ci permetteranno di immaginare (e di credere, e di avere fiducia) che «sia effettivamente possibile salvarsi e come», uniti, come una civiltà.
Questa possibilità è di fondamentale importanza per far sì che le persone adottino queste soluzioni, e perché la creazione del senso di questo adottare avvenga nella società, così che si senta non solo rappresentata, ma anche e soprattutto giusta, dignitosa, e persino bella. Per questo servono l’Arte e il Design. Purtroppo siamo di fronte ad un problema grave, perché l’arte e il design non sono per nulla rappresentati nei luoghi dove si decidono le strategie, salvo poi essere chiamati per abbellire e decorare decisioni già prese. Ottenendo ovviamente risultati terribili.
Dobbiamo iniziare a capire come agire in questo scenario. Nella prossima puntata della serie di articoli inizieremo a vedere come impostare il discorso della creazione di un centro di ricerca che si occupa di esplorare la creazione di nuovi rituali che usano dati e computazione, nella civiltà.
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