Riformare, restituire

Il linguaggio nuovo e antico di Bergoglio

Claire Fontaine, Redemptions (Horde), 2013. Courtesy of the artist. (1000x667)
Claire Fontaine, Redemptions (Horde), 2013.

La raccolta di discorsi di papa Francesco curata da Alessandro Santagata sorprende chiunque per mestiere sia abituato ad analizzare i discorsi dei pontefici romani che hanno preceduto Bergoglio sul soglio di Pietro. Stupisce, in particolare, per l’assenza di concessioni a un’antropologia negativa ben radicata nella tradizione cristiana occidentale (si pensi solo a Ratzinger e al protestantesimo settario). Il linguaggio agostiniano del male inseminato nell’uomo; dell’obbedienza, della spada e del potere secolare come rimedi severi e necessari perché la convivenza politica possa esistere; della gerarchia sociale e della diseguaglianza dei beni materiali come inamovibili e visibili manifestazioni dell’insondabile volontà divina, destinata a privilegiare e a salvare poche anime, non trova alcuna eco nelle prese di posizione di Francesco, che si rivolge non tanto ai suoi fedeli, ma agli uomini e alle donne di buona volontà. Certo, si tratta di interventi pronunciati per una platea speciale: per i movimenti popolari, soprattutto latino-americani, che hanno posto al centro del loro operato l’opzione per i poveri e la lotta per il riscatto e i diritti degli ultimi. E tuttavia la teologia di Bergoglio – che in modo rozzo e infondato una parte della Chiesa vorrebbe eretico – suona nuova, pur richiamandosi a documenti come la Rerum novarum di Leone XIII (1891) e la Populorum progressio di Paolo VI (1967), senza contare il tenue profumo di teologia della liberazione che promana. Lo è davvero? Oltre a frastornare una sinistra priva di bussola e una destra feroce persino all’interno della gerarchia ecclesiastica, che cosa ha da offrire al mondo?

Come ogni istanza di reformatio (e come ogni progetto rivoluzionario che si rispetti), la proposta di papa Bergoglio guarda a un presunto passato che abbiamo perduto: «la comunità rurale e il suo peculiare stile di vita in palese decadenza e addirittura a rischio di estinzione» (p. 19). Ma non si tratta, in nessun senso, di un progetto reazionario. Si tratta piuttosto di profezia, nel significato in cui di recente l’ha intesa un grande storico come Paolo Prodi. La profezia come atto coraggioso e isolato che consiste nel rivolgersi pubblicamente alla città (a tutta la città) in nome di Dio per denunciarne il male e stigmatizzarne l’avanzata sovversione dei valori comunitari e della giustizia. La profezia, va da sé, non è affatto l’utopia, e la riforma non è la rivoluzione. Ma la sua radicalità può essere profonda, tanto che oggi può quasi confondersi con la demagogia. Se sul banco degli imputati, pare di capire, sono posti l’egoismo individuale, la rapace appropriazione delle ricchezze, la distruzione della natura a beneficio di pochi, il degrado umano che colpisce i poveri a fronte di patrimoni scandalosi in mano a un’oligarchia di miliardari, allora il linguaggio della giustizia mira a sovvertire (i cuori, se non altro); è rude, è diretto, bolla le ipocrisie del senso comune liberale che soffoca ogni visione alternativa della società e del tempo (molto presente, nessun passato, nessuna immaginazione futura: ovvero nessuna storia sacra, per quanto secolarizzata). Nella prima età moderna Erasmo, dalle ricche Fiandre, se la prendeva con i teologi scolastici che trattavano di «quiddità» e di «ecceità» e ponevano Aristotele, Cicerone, Agostino e Tommaso sullo stesso piano del messaggio e dell’imitazione di Cristo. Il senso della Croce, scriveva, è la carità, la sequela degli ultimi, il folle rovesciamento dei valori correnti, il rifiuto della gloria e della vanità mondane. Ne discendeva la denuncia dei gravami economici e del sistema bancario, della guerra e delle iniquità della giustizia formale esercitata dai tribunali umani dell’epoca. Non so se Bergoglio abbia mai letto Erasmo; molti scrivono che la cultura di questo papa è approssimativa. Troppo odore di pecore, poco latino, pochi libri, poche subtilitates. Tuttavia la sua istanza di reformatio, che si staglia in un orizzonte di enormi trasformazioni tecniche, economiche e antropologiche come quelle che interessano questo secolo edonista senza apparenti lotte sociali (cioè senza scelta riguardo alle vie di salvezza da intraprendere con gli altri, in un cammino di successi e sconfitte), suona piuttosto antica e – come nel caso dell’umanista di Rotterdam – minoritaria.

Bergoglio non spiega ai movimenti di base cosa fare: non vuole «paternalismo assistenzialista» (p. 31), non indica vie e strumenti: la Chiesa, scrive, non ha il monopolio dell’interpretazione del mondo. Il «cambiamento redentivo» che evoca contro la forza e la dittatura del denaro, definito «sterco del diavolo» (p. 37), è una «militanza» nel senso di una missione. La rivoluzione novecentesca, come si legge in un passo significativo, non ha riscattato perché non è stata preceduta da alcuna conversione, perché si è innamorata di una teologia, di una dottrina, di un’idea, e non delle persone che voleva salvare – senza contare la violenza. Ebbene, basterà leggere passi come questo per comprendere che la sinistra che si richiama ancora al marxismo, smarrita com’è ai giorni nostri e in cerca di nuovo messianismo, non dovrà inebriarsi troppo dei discorsi del pontefice (si inebria però un vecchio arnese becero-azionista come il liberale Scalfari, scopertosi in prossimità della morte ateo ma romano e devoto: mi chiedo se capisca quello che Francesco vuole trasmettere).

E tuttavia le pagine messe a disposizione da Santagata ci interrogano non solo per ciò che dicono di nuovo (i pontefici, prima di Bergoglio, non avevano mai denunciato con tanta franchezza il colonialismo, il dominio dei media, le politiche di austerità, i trattati di libero commercio, l’oppressione storica dei popoli indigeni, il cambiamento climatico, la violazione dei diritti del lavoro e della tutela sindacale, l’uso delle paure a danno dei migranti e dei rifugiati, la corruzione delle élites), ma soprattutto per quel retaggio antico e tradizionale che offrono alla comunità globale degli uomini. Il Vangelo (Lc 19, 1-10) racconta di un ingiusto esattore arricchito, il pubblicano Zaccheo, che si converte ed esclama davanti a Cristo: «ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Ora, nei suoi discorsi, anche Bergoglio ci parla di restituzione: del dovere di restituire ai poveri e ai popoli deprivati ciò che è appartenuto loro, ciò che un tempo era comune. Si tratta, insomma, di ripristinare «una realtà antecedente alla proprietà privata» (p. 48), non importa se mai esistita storicamente (dato che ogni reformatio ha bisogno di un mito risalente, cioè di un racconto del passato originario). Qui, in questo passo, che si richiama a una dottrina antica e a una prassi sociale cristiana come quella medievale della restitutio (il perdono della Chiesa impartito solo dopo la riparazione dei torti economici), le parole del papa svelano il loro più autentico significato. E lo svelano anche nel punto in cui si riallacciano all’episodio dei discepoli di Cristo affamati che si nutrono delle spighe di un campo nel giorno del sabato (Lc 6, 1-5). Niente si dice del padrone di quel terreno, osserva Bergoglio (p. 67), perché i beni (solo in caso di bisogno?) hanno una «destinazione universale». I movimenti per la casa, per la terra e per il lavoro non sono partiti, ammonisce il papa, ma hanno il compito di promuovere una politica dei poveri. Si tratta forse di una «teologia politica», come interpreta Santagata? Certamente sì, a patto che si intenda questo sintagma in un senso liberatorio che non ha mai avuto nella lunga storia della cristianità. Potrebbe risultare utile alla ripresa del cammino messianico che mira al riscatto sociale su questa terra? Sì, a patto che non si scambi la profezia per l’utopia, e che in Bergoglio si riconosca l’antico insieme col nuovo.

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