Tradurre o tradire?

Il compito del traduttore secondo Walter Benjamin

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Ritratto di Walter Benjamin (elaborazione grafica).

La recente edizione critica del breve testo di Walter Benjamin intitolato Die Aufgabe des Übersetzers, ovvero Il compito del traduttore (Mimesis, 2023, pp. 174, 14 euro) curato nella nuova traduzione italiana di Maria Teresa Costa con tanto di testo tedesco a fronte, permette di immergersi, con rinnovate possibilità rispetto alla vecchia edizione nella traduzione di Solmi, all’interno della ricchezza di uno degli scritti più stimolanti del filosofo tedesco. Composto ormai cent’anni fa, tra il 1921 e il 1923, fu pensato come introduzione alla traduzione che lo stesso Benjamin fece dal francese al tedesco dei Tableaux parisiens di Charles Baudelaire.

Il compito che Benjamin si diede, come da titolo, era quello di scandagliare il processo che permea la traduzione di un testo da una lingua ad un’altra, mettendo però in discussione l’idea della traduzione come mero processo immobile che si limita al passaggio da un testo di partenza, privilegiandolo o meno rispetto alla diversa lingua in cui verrà poi tradotto, ad uno di arrivo, arricchendolo o meno rispetto alla composizione della lingua originale. Contrapponendosi e anzi allontanandosi ferocemente dallo scontro dei diversi approcci tradizionali di traduzione, ovvero tra chi innalza la fedeltà contro la libertà e chi, viceversa, la libertà contro la fedeltà, le riflessioni di Benjamin si immettono da una parte sulla scia di quelle che saranno negli anni a seguire le sue teorizzazioni estetiche, in particolare de Il dramma barocco tedesco e di parte de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, così come del suo successivo confronto coi problemi filosofici hegelo-marxiani nelle Tesi di filosofia della storia, tanto da anteporre spesso il compito del «traduttore» a quello del «filosofo» e, come vedremo, ponendo quasi il problema della traduzione come fosse un problema della «filosofia della storia». A differenza dei primi due testi citati, le cui letture si presentano in alcuni loro passaggi come contorte, misteriose, enigmatiche, spesso contraddittorie – e che meriterebbero un approfondimento in altra sede –, Il compito del traduttore, certo non semplice, racchiude comunque un rigore la cui limpidezza può essere continuamente afferrata se si comprendono le categorizzazioni di Benjamin rispetto al mezzo della traduzione che il traduttore immette tra sé e l’oggetto da tradurre nel processo stesso di traduzione1.

Dandosi come presupposto iniziale l’idea secondo cui «nessuna poesia è […] rivolta al lettore, nessuna immagine all’osservatore, nessuna sinfonia all’ascoltatore», per Benjamin «riferirsi a un pubblico determinato o ai suoi rappresentanti è fuorviante». Come per la poesia, l’immagine e la sinfonia, anche la traduzione, la sua conoscenza e la sua comprensione non passa da chi la riceve, né la si afferra guardando a chi è rivolta. Partendo da un alto livello di astrazione, Benjamin introduce «la traduzione [come] una forma», riferendosi al rapporto tra originale e tradotto come «un rapporto di vita (Zusammenhang des Lebens)», spiegandolo in questo modo: «così come le manifestazioni della vita sono strettamente connesse al vivente, senza significare nulla per lui, allo stesso modo la traduzione procede dall’originale – non tanto dalla sua vita, ma dalla sua sopravvivenza (Überleben)», quest’ultima, come ben spiegato in nota da Costa, intesa in senso di proseguimento e trasformazione nel tempo. Le opere importanti per Benjamin «non trovano mai il loro traduttore d’elezione nell’epoca del loro sorgere» ed è qui che è racchiuso il senso, per lui «strettamente letterale e non metaforico», di «vita e di «sopravvivenza».

Da una parte il traduttore, figlio del tempo in cui vive e sulla falsariga della Nottola di Minerva cara a Hegel, compie il suo compito sul far della sera in rapporto al senso profondamente temporale e storico che Benjamin attribuisce alle due categorie: liberata la «vita» dal «dominio del debole scettro dell’anima» da una parte o dai tratti ontologici, naturali e fissi quali la «sensazione, che è in grado di caratterizzarla solo occasionalmente», «è piuttosto riconoscendo vita a tutto ciò di cui vi è storia, e che non costituisce solo lo scenario del suo accadere, che si rende pienamente giustizia al concetto di vita». Perché? Semplicemente perché «l’ambito della vita deve essere definito in ultima istanza a partire dalla storia e non dalla natura» e «il compito di comprendere ogni vita naturale a partire dalla vita più ampia della storia» contribuisce poi a storicizzare anche la «sopravvivenza» delle opere stesse, e quindi la loro evoluzione temporale. In questo modo la loro traduzione non le immobilizza, ma è «nelle traduzioni [che] la vita dell’originale raggiunge, in un continuo rinnovamento, il suo ultimo e più pieno dispiegamento». A questo punto la traduzione, prima spiegata da Benjamin come un «rapporto di vita», appare realmente come «rapporto» vero e proprio, ovvero come un’interrelazione dialettica non immobile ma in perpetuo interscambio senza alcuna derivazione gerarchica tra originale e tradotto. Un «dispiegamento» che ai nostri occhi richiama lontanamente (poiché mai citato) ma in verità molto da vicino (per via del gergo logico-categoriale utilizzato) allo «svolgimento della cosa stessa» (Auslegung der Sache selbst), vale a dire l’automovimento logico-dialettico hegeliano nella continua salita e ridiscesa tra «particolare» e «generale» o nella dimostrata distinzione non appiattente tra «essere» ed «essenza», «forma» e «contenuto». Ci si perdonerà per la lunghezza della citazione, ma scrive Benjamin del «dispiegamento»:

Questo dispiegamento, che è quello di una vita peculiare ed elevata, è determinato da una finalità altrettanto peculiare ed elevata. Vita e finalità – la loro correlazione apparentemente evidente, e che invece quasi si sottrae alla conoscenza, si mostra solo se lo scopo verso cui tendono tutte le singole finalità della vita non viene cercato a sua volta nella sfera stessa della vita, ma in una sfera superiore a essa. Tutte le manifestazioni della vita che hanno una finalità, così come la loro stessa finalità in generale, non sono rivolte in ultima istanza alla vita, ma all’espressione della sua essenza, all’esposizione del suo significato. Così la traduzione è rivolta in definitiva all’espressione del rapporto più intimo tra le lingue. Essa non può rivelare né istituire questo rapporto nascosto ma può esporlo, realizzandolo in forma embrionale o intensiva. E quest’esposizione di un oggetto significato attraverso il tentativo, il germe della sua produzione, è un modo di esposizione molto particolare, che non ha equivalenti nella vita non-linguistica. […] Esso consiste nel fatto che le lingue non sono estranee tra loro, ma, a priori e a prescindere da ogni rapporto storico, sono affini in ciò che vogliono dire.

Nella sua traduzione, Maria Teresa Costa restituisce alla categoria hegeliana da Benjamin utilizzata, Darstellung, il senso proprio di «esporre», a differenza di Solmi che la traduceva in «rappresentare», così come giustamente segnalato in nota dalla stessa Costa2. Ma d’interesse per il nostro confronto con Benjamin è l’ultimo passaggio della sua lunga citazione, dove potrebbe sorgere in chi legge un forte dubbio: Benjamin starebbe ricascando nella melma di un’astoricità prima criticata? Benjamin risponde negativamente alle possibili accuse riportando prima una premessa, ancora una volta lunga ma necessaria:

Per cogliere il vero rapporto tra originale e traduzione bisogna ricorrere a un ragionamento del tutto analogo nelle sue intenzioni alle argomentazioni con cui la critica della conoscenza dimostra l’impossibilità di una teoria della copia (Abbild). Così come risulta evidente che nella conoscenza non potrebbe darsi alcuna obiettività e nemmeno una sua pretesa, se essa consistesse in copie del reale, allo stesso modo qui si può dimostrare che nessuna traduzione sarebbe possibile se avesse come scopo ultimo la somiglianza con l’originale. E questo perché nella sua sopravvivenza (Fortleben) – che non potrebbe essere definita tale se non si trattasse della trasformazione e del rinnovamento del vivente – l’originale si trasforma.

Riconoscendo la storicità dell’essere umano, dunque della sua parola e in ultima istanza della sua traduzione, Benjamin scrive che «ciò che un tempo suonava fresco, può diventare logoro, ciò che un tempo era considerato di uso corrente, può suonare arcaico». Tali mutamenti non possono essere spiegati a partire dalla «soggettività dei posteri», il che significherebbe «confondere il fondamento di una cosa con la sua essenza» ovvero «negare uno dei processi storici più potenti e fecondi per debolezza di pensiero». Se esiste un’«affinità sovrastorica tra le lingue [questa] consiste nel fatto che in ciascuna di esse, considerata come un tutto, è intesa una sola e unica cosa, che tuttavia non può essere colta da nessuna di esse presa singolarmente, ma solo dalla totalità delle loro intenzioni tra loro complementari: la pura lingua». E anche a questo giro risalta all’occhio un’altra categorizzazione hegeliana, quella della «totalità». Eppure, in un primo momento, stona l’idea della «pura lingua».

Con quest’ultima non si intende certo qualcosa di ontologicamente originario e realmente privo di mediazioni – «pura» come se fosse isolata, cosa impossibile – ma, immessa in una storicità che è sempre lotta, dunque movimento, «ogni traduzione non è altro che un modo provvisorio di confrontarsi con l’estraneità delle lingue» – dunque in stretto rapporto. Lingue che si distinguono ed escludono reciprocamente tra loro per «singoli elementi (parole, frasi, nessi sintattici)», ma che «si integrano nelle loro stesse intenzioni». «Intenzioni» che caratterizzano e mediano la «pura lingua», ovvero la lingua in generale. È proprio nelle intenzioni, secondo Benjamin, che si svolge il distinguo «tra inteso (Gemeinten) e modo di intendere (Art des Meinens)». Facendo l’esempio della parola «pane», per Benjamin «brot» e «pain» hanno un modo d’intendere differente per un tedesco e un francese, «non sono intercambiabili», eppure l’inteso è lo stesso, «significano la stessa identica cosa», fanno riferimento allo stesso medesimo oggetto. La maniera in cui la traduzione cerca di risolvere questo distinguo non può immobilizzarsi alla fedeltà verso la singola parola, la quale «non può quasi mai riprodurre completamente il senso che essa ha nell’originale. Poiché […] il senso non si esaurisce nell’inteso, ma acquista tale rilevanza esattamente attraverso la modalità in cui inteso e modo di intendere si legano nella parola specifica». Così, conclude allegoricamente Benjamin:

come i cocci di un vaso, per essere ricomposti, devono susseguirsi nei minimi dettagli senza tuttavia assomigliarsi, così la traduzione, invece di assimilarsi al significato dell’originale, deve piuttosto ricreare nella propria lingua, amorevolmente e fin nei singoli dettagli, il modo di intendere dell’originale, in modo che entrambe le lingue, come i cocci, frammenti di uno stesso vaso, siano riconoscibili come frammenti di una lingua più grande.

«La vera traduzione è traslucida, fa passare la luce (durchscheinend)», ma questa riesce a manifestarsi solamente se traduttore e traduzione si irradiano della stessa sostanza di cui entrambi sono fatti: il tempo. Perso ciò il traduttore diviene traditore. Allontanando il traduttore dal poeta, «la cui intenzione non è mai rivolta alla lingua in generale nella sua totalità, ma solo e immediatamente a determinati contenuti linguistici», e assimilandolo invece al filosofo, Benjamin pone nella storia il problema del compito del traduttore, ed è sempre nella storia che quest’ultimo, nell’ambizione ad essere risolto, trova i propri strumenti.

Note

Note
1Categorizzazioni che, chi scrive qui, legge con la lente di Hegel. Che questa affinità sia filologicamente dimostrata o meno non è d’interesse rispetto alla breve analisi qui presentata
2Pur non sottolineando l’origine hegeliana della categoria di Darstellung, che richiama direttamente all’esposizione estrinsecamente concettuale del sistema logico-dialettico hegeliano, ovvero l’esposizione del concetto, della cosa stessa nel farsi del suo autosvolgimento per negazione interna.

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