Traiettorie e campi di calore
Avvenimento #2 Ho amato un sogno?
Avvenimento è il public program a cura di Edoardo Lazzari, attraverso il quale dal 2023 la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia crea un’eco delle proprie mostre dialogando con la scena performativa emergente locale e internazionale. Un evento di qualche ora che contamina pratiche artistiche, pensieri, spazi e corpi. Cura dell’allestimento e direzione tecnica dell’evento di Cosimo Ferrigolo, che quest’anno si è avvalso della collaborazione di Giulio Polloniato (suono) e Andrea Sanon (luci).
«It’s an everyday hallucination»
Bernadette Corporation, Reena Spaulings
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Avvenimento #2 Ho amato un sogno? (15 settembre 2024) è una creatura strabica che guarda in più direzioni e risponde a più desideri. Il titolo dichiara immediatamente la propria derivazione dall’edizione precedente ispirata alla serie di dipinti Avvenimento dell’artista veneziano Edmondo Bacci, amato dalla collezionista Peggy Guggenheim e celebrato nella mostra Edmondo Bacci. L’energia della luce (1 aprile – 18 settembre 2023). La discendenza nominale stabilisce una continuità, un format, una cornice all’interno del variegato public program che accompagna le mostre. Nel complesso di attività collaterali che rilanciano i contenuti e le riflessioni della collezione permanente e delle esposizioni temporanee, Avvenimento #1 e Avvenimento #2 si distinguono nel guardare, per la prima volta, alle pratiche performative.
Avvenimento #2 Ho amato un sogno? è, allo stesso tempo, anche la diretta manifestazione dell’urgenza curatoriale di Edoardo Lazzari, da anni attivo nella promozione di artistə che lavorano, vivono o semplicemente attraversano Venezia. Il rimando alla serie di Bacci celebra, per rimbalzo, la rete artistica locale, a maglia larga, composita, presente, ma invisibilizzata da eventi internazionali totalizzanti e fagocitanti. Se la prima edizione rifletteva sullo sperimentalismo del pittore veneziano attraverso un focus sulla scena emergente lagunare, la seconda ha espanso con tragitti imprevisti la vita e il lavoro di Jean Cocteau – a cui è dedicata la mostra Jean Cocteau. La rivincita del giocoliere (13 aprile – 16 settembre 2024) – attraverso la selezione di opere, anche internazionali, che più o meno dichiaratamente dialogano con l’autore.
Avvenimento #2 Ho amato un sogno? è un omaggio al poeta, saggista, drammaturgo, sceneggiatore, disegnatore, scrittore, librettista, regista e attore francese, alla sua versatilità espressiva, alle sue ossessioni. J’ai aimé un rêve è un posizionamento, una rivendicazione, un rimpianto, che infesta i muri delle periferie, gli spazi dimenticati, gli anfratti pubblici e quelli privati, facendo deflagrare la coincidenza tra realtà e dato oggettivo. Un’identità artistico-professionale, di genere e sessuale blur, che si sottrae al ricatto della categoria, fornisce l’occasione per convocare pratiche che pluralizzano l’arte performativa e portano le vite residue di Cocteau e delle sue opere verso percorsi imprevisti, forse indesiderati. Ogni opera modella un’interpretazione del termine performance; ogni opera espande e/o contrae l’autore.
Cu*mmia*1 – solo della danzatrice, performer e ricercatrice Danila Gambettola in collaborazione con Ulisse Schiavo, Giada Cipollone, Laura Pante, Davide Savorani – rievoca la dimensione identitaria attraverso un processo magico e politico di autodifesa che riscrive un Sud Italia subalterno e marginale. Tra memorie affettive, presagi, spettri e autofiction a emergere sono pratiche immaginative e somatiche che attivano comportamenti straordinari e insoliti all’interno di un sistema di relazioni tra presenze umane e non.
Il nuovo Orfeo della scrittrice e artista Allison Grimaldi Donahue stabilisce un movimento in levare rispetto all’opera precedente, espandendo il gesto curatoriale oltre Venezia, legandosi esplicitamente a Cocteau. Ispirati al film Orfeo (1950), le due installazioni sonore, risultato del laboratorio tenuto dall’artista presso la Collezione, e il live reading modellano una riflessione sulla poesia, sul rapporto con chi ci ha precedutə, sul processo di creazione, sul prendersi cura della voce poetica, sulle origini del linguaggio poetico. I componimenti della scrittrice fuggono da un’autorialità iper personalizzata, mescolandosi con quelli dei e delle partecipanti del laboratorio che ha tenuto nel mese di giugno: Andrea Antonello, Rachele Bortot Borghero, Daniela Conte, Silvio Crosera, Lucca De Clario, Lucia Fontanelli, Adelaide Gnecchi, Doriana Alba Granzotto, Bianca Maria Negrini, Angelica Racco, Irene Woodbury, Martina Zullo.
La performance La Voix humaine, ideata dall’artista Gabriele Rendina Cattani per Avvenimento #2, trattiene ancora Cocteau con un’operazione di re-editing dell’omonimo dramma per sola attrice del 1930. Il testo originale è riarticolato in un dialogo a due tutto al maschile, che ne rende esplicito il carattere omoerotico. Il fallimento del linguaggio e il rapporto tra desiderio e tecnologia ri-emergono nella conversazione telefonica che Gabriele Rendina Cattani intrattiene con una voce interdetta al pubblico, che attraverso un vetro può prendere parte alla storia solo come voyeur.
Con Femenine del danzatore, performer e regista Gianmaria Borzillo, in collaborazione con Max_ine Simonetto, Emma Saba, Gaia Ginevra Giorgi, Juri Bizzotto, Johanna Robyn Closuit, il rapporto con l’autore francese si allenta. L’indagine sul sé è un processo sghembo che convoca l’altro; intimità e morte, AIDS e malattia, trasfigurazione e gioia dell’erotico, solitudine e scomparsa, celebrazione identitaria e stigma sociale legano il presente di Gianmaria Borzillo e il passato di Jean Cocteau attraverso l’intermediazione del musicista statunitense Julius Eastman e della sua Femenine (1974). La performance è un’entità viscosa che nel processo di rievocazioni fantasmatiche risucchia anche Felix Gonzalez Torres, la cui opera Untitled (Orpheus, Twice) (1991) apre la mostra con un’installazione costituita da due specchi, ma anche John Cage, che si è relazionato con Julius Eastman tra collaborazioni e confronti.
Il respiro si amplifica ulteriormente con Hot Bodies Choir di Gérald Kurdian (them), una partitura corale risultato di un laboratorio di cinque giorni di scrittura collettiva, che ha coinvolto persone queer, trans, non binarie e gender fluid. Scrittura, poesia e questioni identitarie ritornano attraverso testi polifonici e indisciplinati ispirati a manifesti queer, femministi, sex-positive e decoloniali. Un’altra vita residua di Jean Cocteau.
Con À la recherche du temps perdu dell’artista Est Coulon si compie un movimento circolare, tornando al locale di Cu*mmia*1. In occasione di Avvenimento #2, il lungo processo di riscrittura del romanzo di Marcel Proust diventa una performance destinata a un’unica persona alla volta. Il lungo leporello è lo spazio per un incontro intimo tra l’artista e la memoria affettiva e corporea del pubblico, un varco verso altri luoghi e altre temporalità. Uno specchio con cui possiamo reiterare quella trasmigrazione oltre il quotidiano tante volte compiuta da Cocteau.
Avvenimento #2 Ho amato un sogno? è un gesto di critica speculativa che trascina le opere e le riflessioni di Cocteau in un campo aperto di possibilità immaginative futuribili. La dimensione dell’erotico e di una sessualità tormentata, l’onirico e il fantastico come apertura del reale, l’autofiction come strumento per plasmare il quotidiano, l’impossibilità di separare la voce dell’autore da quella del protagonista sono materialità che fluttuano, affondano e/o riemergono nel susseguirsi spazio-temporale delle opere. Il presente dellɜ artistɜ inviatɜ è un trigger che spinge Cocteau verso futuri imprevisti.
La centralità della modalità espressiva in prima persona singolare o plurale, rivendicata dalle opere selezionate da Lazzari, necessiterebbe di una narrazione più ravvicinata per essere trasmessa a noi spettatorɜ in ritardo. La trasmigrazione di Avvenimento #2 Ho amato un sogno? su carta richiederebbe un racconto esperienziale, sensoriale, un attraversamento errante nello spazio-tempo (Hartman 2024), che tenga conto dei corpi e delle temperature. È per questo motivo che il mio testo è soltanto un’introduzione, un avvicinamento a quello che le studiose Elena Boscariol e Anna Purna Nativo hanno modellato a partire dalle loro visioni, dai loro respiri, i loro ritmi. Il loro esserci state genera preferenze, sbilanciamenti, ombre, ma anche luci accecanti, non c’è tutto e quello che c’è è manipolato dagli spostamenti, dalle difficoltà, dalle temperature lagunari, da coloro che restano ai margini delle descrizioni e delle foto, dal compiacimento di riconoscersi dentro una pratica o un’estetica. Leggiamo delle opere, dellɜ artistɜ, delle riflessioni, degli immaginari, e leggiamo anche di loro, di Elena e Anna Purna, del reciproco cercarsi e accordarsi nel tentativo, fortunatamente fallimentare, di vedere tutto per noi.
Alessia Prati
ore 19.30
Entrando nel giardino della Collezione Peggy Guggenheim, ci chiediamo come verrà occupato, abitato o infestato. Un ambiente mosso da presenze, statue forate in cui inserire lo sguardo, piante protettrici che diventano riferimenti per l’orientamento, una moltitudine di corpi in transito. Cosa rimane nello spazio di quelle presenze, cosa lasciano quei passaggi?
Palazzo Venier dei Leoni è un ambiente sospeso e ricolmo di artistɜ che abitano zone di promiscuità, calatɜ sulle tracce di un linguaggio poetico a più voci, figure che evocano presenze fantasmatiche in spazi queer sghembi. Nella cornice di una coreografia collettiva composta di intrecci tra un giardino e l’altro, nel dentro-fuori di ombre e corpi dellɜ performer, il museo è deformato come una casa con pareti di gomma.
In questa geografia, ci siamo mosse seguendo suoni, seguendo luci, seguendoci a vicenda, in un gioco senza mappa e senza regole. Captati questi micro-cambiamenti ambientali, sintomo di qualcosa che stava per accadere, corpi in massa si sono mossi per testimoniare gli accadimenti. I nostri sguardi sono griglie che mappano i luoghi, smascherati nelle loro cartografie di gerarchie di valore che variano di ora in ora, senza cronologie. Ci scopriamo popolate da organi di senso colpevoli di categorizzazioni, giudizi di valore e merito, selezionatori macchiati. Quando una luce o una voce si attiva, il nostro interesse si muove, prima l’orecchio, poi l’occhio, poi il busto, e così creiamo traiettorie e lacune.
ore 19.50
A: «La porta sembra chiusa, sono qui a guardare Danila. È appena iniziata Cu*mmia*1»
A: «La mostra temporanea è nel tuo lato»
E: «Io sono accanto all’albero»
A: «Io dall’altra parte»
Cu*mmia*1 inizia con un annuncio rivolto al pubblico della performer Danila Gambettola: mi muoverò prima in questa direzione e poi in quell’altra. Mette un piede nello stivale a tacco, poi l’altro. Le alte scarpe nere sembrano degli zoccoli che le danno una postura zoomorfa, agendo come elemento di disturbo e protesi corporea. Incastrata tra pantalone e bacino, tiene una parrucca che in alcuni movimenti assume la funzione di coda, discutendo la sua forma umana. Poi si perde e rimane a terra, testimone del passaggio avvenuto. Un’elevazione animale densa di abbandoni che ci scaraventa nel limbo tra umano e non umano, in cui rimaniamo sospese per tutta la durata della performance. In alcuni momenti, quasi a collaudare alcune parti del corpo, le gambe perdono la funzione di sostegno, piegandosi come bastoni, flettendosi come molle. Gambe immobili e divaricate, braccia aperte, busto perpendicolare al suolo. Inizia lentamente a piegare le ginocchia. I suoi movimenti tremano e la portano a terra, poi, ancora più tremolanti e lenti, di nuovo su.
Siamo circondate da elementi che, chiamati in causa, modificano la narrazione: altari di merletti, stampe di foreste che attendono la loro connessione, ciuffi di capelli a terra e lunghe catene penzolanti. Siamo spinte oltre il corpo in un luogo denso di presenze immerse nella dedizione al rituale. Un sonnambulismo collettivo in quella zona di promiscuità tra magico e quotidiano, in cui l’invisibilizzazione del Sud Italia riemerge in pratiche del corpo immaginative e somatiche. Un’invisibilità che non possiamo controllare, uno spazio fuori controllo in cui immaginiamo nuove storie bagnate di memoria: un’immaginazione che risiede nella materia del corpo.
Il suono composto live del musicista e cantante Ulisse Schiavo ci avvolge in una sacca di pulsazioni e micro-loop sonori e materici, in un andirivieni di associazioni e dissociazioni continue. Canti lontani si muovono in sottofondo e si avvicinano; non ci accorgiamo quando tornano o spariscono in un suono a volte sincopato, quasi a creare un inciampo uditivo, altre volte lineare e costante. Danila si muove in quanto presenza alterata, una creatura microfonata, amplificata, una cassa di risonanza da cui il nostro orecchio diventa dipendente. La sua voce traduce ciò che vede mentre il corpo si muove, si contorce, perde l’equilibrio e talvolta si scaraventa a terra, dove non riusciamo più a vedere.
La materia sente, ricorda, conversa, ha strati energetici. Il corpo si fa archivio e materia vivente stratificata. Si trascina e si abbandona, piega le caviglie e le fa tremare. Un abbandono che aggancia la costruzione di due altari, collegati tra loro da una lunga catena di devozione da cui penzolano capelli, foglie, teli e stampe lucide. A rimanere è una traccia controluce, gli stivali, i merletti e le catene, un altare solitario nel giardino da cui partire per parlare di Cu*mmia*1.
Un vertice che ci ha fatto riflettere sulle sue direzioni, ce le ha fatte disegnare su piccoli pezzi di carta per individuarne gli intrecci. Abbiamo tracciato i suoi percorsi e li abbiamo attraversati più volte, tormentandoci e creando a nostra volta delle zone calde. Ci sono dei punti di rumore, dove le linee delle braccia e delle gambe hanno costruito delle intersezioni percepibili, dove il pubblico è andato ad accumularsi. Settori larghi pochi metri. Ci piace pensare che una zona di calore si sia creata quella sera nel giardino principale del museo, seguendo (o inseguendo), forse di proposito, le geometrie del pavimento.
A pochi metri l’una dall’altra, Cu*mmia*1 e Femenine si sono sfiorate, e in un gioco di temporalità e geografie hanno parlato tra di loro. Le reliquie lasciate dopo le performance restano e resistono come erbacce infestanti dell’accaduto, dilatandone le temporalità. Nell’intersezione di corpi e materie si è creato uno spazio ricolmo di cose stranamente vive, mosse da una forza virulenta che crea contatto. Una casa invasa da presenze disturbanti, quelle di Thoreau, quell’oltre l’umano che ci spaventa nella foresta. Energie conative come grovigli, residui di vibrazioni di corpi, pronte a contagiare involucri di transito. Un campo di calore, uno sbalzo termico che ha inglobato e inghiottito Femenine in una spirale generativa.
ore 20.14
A: «Prenotato À la recherche du temps perdu, io alle 22.30, tu alle 22.45»
E: «Ho trovato delle casse in giardino, forse prosegue nella terrazza»
A: «Arrivo»
Ci siamo perse e ritrovate. Una voce ha cominciato a narrare, la riconosciamo, l’abbiamo già incontrata nelle due grosse casse incastonate tra i cespugli mentre recitava una rielaborazione de Il poema di Venezia (1965) del poeta della Beat Generation Robert Duncan. Nel terrazzo abbiamo ascoltato un po’ assorte un altro frammento de Il nuovo Orfeo, accompagnato da letture collettive che spostavano continuamente la nostra attenzione. Una traccia più lunga su poesia e relazione.
Qualcunɜ se ne stava affacciatɜ sul canale, chissà se ascoltava davvero. In un certo senso, però, sembrava essere giusto anche così. Ci siamo parlate, avevamo più di qualche pensiero per la testa e il bisogno l’una dell’altra per mitigarlo. Spesso ci siamo accorte di non capire proprio tutti i testi, quindi abbiamo provato a riconoscere qualche voce, spostandoci da una cassa all’altra. La terrazza è diventata un luogo inquinato da una pluralità di voci, in cui sentirsi al sicuro.
Un’attesa condivisa e rumorosa, densa di risacche liquide e suoni schiumosi provenienti dalla laguna, che in quel momento sembrava emanare gas pregni di temperature affettive. Le letture ci hanno legate e possedute fino a separarci. Una di noi si è sentita chiamata dalla mostra temporanea su Jean Cocteau, l’altra ancora non è chiaro dove fosse finita.
ore 20.50
A: «Giù dalla scalinata è cominciato qualcosa»
E: «Ho sentito dei suoni, arrivo»
A: «Dietro di noi inizia Femenine»
Illuminatə da una luce proveniente dal palazzo, Max_ine inizia una costruzione silenziosa di corone fatte di foglie e rami. Sedutə, sdraiatə, accovacciatə, assembla ghirlande; piante che si muovono fuori luogo, in una propulsione che viene direttamente da terra, dalle fughe della pietra. Nel mentre risuona Femenine di Julius Eastman, compositore afroamericano radicale, omosessuale dichiarato ed esploratore di musica organica. Una performance che fa da cassa di risonanza alla mostra temporanea su Jean Cocteau e alla volontà di un atto di riemersione in delay. Una presenza fantasmatica che si muove su linee, forme e traiettorie. Un ritorno di un fantasma misconosciuto, materico. Una delle poche registrazioni eseguite da Eastman, di cui molto è stato perso, sopravvive nella riscoperta dell’ascolto.
Sembra di essere immerse in un’altra percezione temporale. Improvvisamente ogni nostro gesto, ogni movimento degli occhi si fa lento. Il tempo sembra dilatarsi. Persino il clima sembra essersi arrestato, quasi avesse capito che il vento avrebbe potuto distruggere la costruzione in divenire. Alcune persone si accovacciano, assumendo una postura imitativa, cercando di osservare alla stessa altezza degli occhi dellə performer.
Dopo aver intrecciato le corone, Max_ine inizia a comporre delle strutture scultoree organiche, delle nature vive, reliquie vibranti fatte di ramoscelli e residui di piante che assumono la forma di cespugli. La composizione sembra mirare a una figura a più punte, con un campo di calore centrale. Lo abbiamo mappato, disegnato, abbiamo cercato uno schema. Abbiamo ricostruito l’ordine dei movimenti corporei, catalizzatori tra punti. Due direzioni lə guidano, una verso la mostra permanente, l’altra verso il giardino. I due nodi radicali delimitano il luogo della performance e del movimento: lo spazio dei fumi di Danila e il giardino di Max_ine, che, rimanendo sempre molto vicinə al suolo, si muove come se la performance fosse destinata a scomparire a un metro da terra, creando un sentiero dall’umano al non-umano.
Entriamo in questo suo mondo immaginato, una realtà onirica dove non si è mai cresciute. Ci sentiamo delle guardone di un rituale privato e intimo, sensazione amplificata dalla nostra posizione. La performance si consuma in una piccola porzione del giardino, non si posiziona al centro, non è frontale al pubblico, non imita uno spazio teatrale. Si ricava un piccolo anfratto vicino all’ingresso della mostra permanente, quasi a non voler richiamare l’attenzione. Noi siamo lì al margine, alimentando la dimensione intima di eroticità tra corpi, spazio e vegetazione.
E se fossero altari per comunicare con antenatɜ non appartenenti alla specie umana? Al centro una struttura geometrica fatta di ornamenti organici e altari fantasma, da cui inizia una lenta danza trasformativa. Con la schiena a terra, Max_ine ruota su se stessə, seguendo una temporalità imposta. Il nostro sguardo è fermo sul suo corpo, che assume le sembianze di un lombrico che smuove la terra in diagonale. Il confine tra la carne, la pietra e cellulosa si consuma, si sgretola. Non è chiaro a quale capacità di azione stiamo assistendo.
Il vento interrompe la pausa donata per il tempo della performance. Gli oggetti, costruiti con tanta cura, vengono abbandonati nel cortile e si uniscono alle reliquie di Cu*mmia*1. Non importa che siano stati spostati o meno, la loro presenza è rimasta a infestare lo spazio, come una presenza più che umana. Ai nostri occhi gli alti stivali neri hanno camminato tra le tombe organiche, complicando i percorsi.
ore 21.30
Ci siamo perse ancora, ma ci ritroviamo quando Allison Grimaldi Donahue inizia a narrare sotto la scalinata della mostra temporanea.
Some poets love money, I avoid them avidly
They make it appear behind the listener’s ear
Mostly money is made by selling the teeth
The sharper the teeth the richer the poet
Makes for clamps and bed posts and vises
Some poets love money will sell you words up a river
In a canister for making soap they pull out vowels values two for one.
Di Allison abbiamo raccolto le tracce poetiche lasciate a terra dopo il live reading, stampate su carta a bassa grammatura con alcune parole disallineate. A ogni foglio corrispondono stringhe poetiche disordinate, lasciate scivolare a terra dopo la lettura. Ci sono arrivate sulla punta delle scarpe e, quando ci siamo guardate, ne avevamo una ciascuna. Ci siamo viste attraverso, e abbiamo ascoltato parole ruotare come vortici nel nostro campo di calore, accelerare il tempo, manometterlo infilandosi nelle sue pieghe ormai piene di gente.
ore 21.40
Una chiamata senza risposta, inizia La Voix humaine. Pronto? Un monologo ci prende di spalle, ci posizioniamo un po’ incerte in quella zona calda in cui tanto ci siamo soffermate. Nello stesso punto erano collocate le corone di Femenine, sparite nel potere della loro rievocazione effimera. Ci sediamo. Siamo le prime a farlo, ma pian piano diventa un’azione condivisa. Riconosciamo la voce di Gabriele Rendina Cattani, leggiamo nel pieghevole: La Voix humaine.
Fa freddo e ci ritroviamo chiuse fuori da una casa a curiosare al suo interno come animali nel buio, non è affar nostro, ma ci attira. Nelle finestre della mostra permanente una casa arredata di soli quadri e una luce calda. Calzini arrotolati e una camicia verde come se il letto fosse proprio dietro l’angolo. Non vediamo tutto, nemmeno il volto. E adesso? Eppure parlo forte. Parlo forte! Mi senti? Sì, ma lontano. Lontano! Tu mi senti? Mi sembra di essere morto. Di stare nell’aldilà. Riesco a sentire ma non posso farmi sentire. Un uomo, probabilmente un amante, una conversazione telefonica di cui non facciamo parte. Sentiamo tutto, ma solo una parte. Non ci rimane che ascoltare sfumature romantiche e aggressive che non ci appartengono. Un monologo interiore a sfondo omoerotico macchiato di fiction, un dramma per sola attrice di Jean Cocteau del 1930.
ore 22.35
E: «Dobbiamo dividerci, io vado À la recherche du temps perdu»
A: «C’è un coro in giardino»
Ci separiamo, una di noi entra nella mostra temporanea dedicata a Jean Cocteau in attesa del suo turno per À la recherche du temps perdu di Est Coulon. Se prima ero un’intrusa in una chiamata e in un rapporto giunto al capolinea, ora mi ritrovo nella casa di Est. Spazi che continuano a risignificarsi, a riappropriarsi, ad apparire storti. Un lungo leporello mi circonda, mentre la luce soffusa mi ricorda quella della stanza. Parliamo di pareti, ricordi, dimensioni affettive, ci diciamo i segreti. Parlo dell’ultima casa in cui ho vissuto, della stanza buia e piena di muffa di cui ricordo tutto a memoria. Dov’era l’interruttore della luce?. Mi alzo e scelgo due pagine del leporello che diventano la risposta alla mia domanda: Quale luogo mi appartiene?
Una bibliomanzia di Est Coulon a partire dalla trascrizione a mano in lingua originale del romanzo omonimo di Marcel Proust, una scrittura personale e un affidarsi a parole su carta. Così intimo che sembra quasi sbagliato da raccontare, da dovere rimanere lì nel piccolo carillon della mia camera scritto a inchiostro blu da un lato, a matita dall’altro. La richiesta è quella di operare una scelta: staccare la doppia pagina di leporello, e provocare così una rottura e la conseguente ri-scrittura in un nuovo arco temporale delle stesse parole, o esprimere la volontà di lasciare tutto invariato. Una piega temporale mi è parsa così generativa che non ho saputo resistere, o forse a decidere è stato il mio feticismo per l’accumulo. Credo di aver provato dolore nel taglio della pagina, nel suo staccarsi ha provocato uno sbalzo di temperatura e un rumore molto forte. Quando la carta cade a terra sembra urlare.
Prima di uscire, un cambio di scena: una stanza accanto con un piccolo scrittoio, una sedia e una lampada puntata sul piano, alcuni fogli. In cambio del furto di pagina, è richiesta la firma di un contratto di ciò che è avvenuto, un mescolamento di date e luoghi che crea delle rotture, delle crepe a cui mi capita spesso di ripensare. Un suono mi tormenta e canticchio: Nothing was left, only a low battery, and my flesh …
ore 22.45
A: «Un coro in giardino ci chiama». Nel cortile si consuma l’ultimo atto della serata, Hot Bodies Choir. Le persone rimaste si radunano per vedere, ma soprattutto per ascoltare quelle undici voci, in piedi sugli scalini che portano alla collezione permanente del museo, solitamente luogo di passaggio e mai di permanenza. Quella sera, però, tutto ha già assunto un altro ruolo. I canti sono accompagnati dallo schioccare delle dita di Gérald Kurdian e dal coro spontaneo del pubblico, incoraggiato dalla presenza di un libretto contenente le lyrics delle canzoni sulle identità plurime dei partecipanti, frutto di un laboratorio di scrittura collettiva.
Uscite, ci siamo ritrovate in Fondamenta Venier dei Leoni per confrontare il materiale che eravamo riuscite a racimolare: una guida di Avvenimento #2 Ho amato un sogno?, i testi poetici in carta trasparente della lecture Il nuovo Orfeo, la registrazione della conversazione telefonica La Voix humaine, una pagina del leporello di À la recherche du temps perdu e infine il libretto delle canzoni di Hot Bodies Choir.
La sensazione di presenze, attraversamenti e macchie sullo spazio, ci si è attaccata addosso come fosse resina. Uno strato appiccicoso che ha raccolto e accumulato ci ha permesso di riflettere su punti di calore dove il suono si faceva più alto, dove le linee di sguardo si sono affollate. All’interno del giardino una zona vibrava di calore, erano state le linee di sguardi ad affollarlo e i corpi del pubblico a delimitarlo. I luoghi si sono interrogati e messi in discussione, quella sera non hanno voluto seguire il compito per cui erano stati pensati, sono diventati elementi vivi e partecipi, co-attori delle performance.
Elena Boscariol, Anna Purna Nativo
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