Una vita in scatola
Paradise Garage di Jeff Bark
«Non voglio documentare, ma creare nuovi mondi. È l’illusione la parte che preferisco di più, rendere temporaneamente possibile ogni universo. Un film racchiuso in uno scatto, dove ogni immagine è traccia della mia presenza. In questo modo la mia fotografia è scultura». Questa dichiarazione di Jeff Bark (Minnesota, 1963), rilasciata in occasione della sua prima personale italiana organizzata a Palazzo delle Esposizioni (la mostra è a cura di Alessio de’Navasques), chiarisce esaustivamente un processo di costruzione delle immagini che non lascia nulla al caso e che si disegna nell’ambito di una articolazione linguistica di stampo metafisico, con forti valenze e risvolti surreali, finanche al limite del fantasy o del grottesco, dell’ironico o del malinconico, del sensuale, dell’ambiguo, del crudele.
Conosciuto nel mondo come un grande fotografo di moda, suoi servizi sono stati pubblicati su Dust, V Magazine, i-D, Dazed & Confused o Pop Magazine – ricordo ancora quel Numéro (marzo 2017) in cui i due corpi da lui inchiodati sono sottomessi in posa, intrappolati in ambienti paraliturgici, in ambienti che sembrano scavati e nei quali si avverte una sorta di assenza di gravità –, Bark centra ancora una volta il bersaglio: e questa volta con un progetto speciale che parte da una eterotopia, da un luogo personale e intimo, per schiudere un mondo dechirichiano, dove la fotografia si fa riquadro perfetto, contenitore di un tempo dilatato e di un controspazio capace di assorbire tutta una serie di sollecitazioni esterne, anche le più gravi, anche le più inaspettate, anche le più superflue.
Il punto di partenza di questo suo percorso italiano è, infatti, il garage dell’artista, e il titolo della mostra, Paradise Garage, descrive ironicamente questo contenitore muto, questo accumulatore di ricordi materiali che trattengono l’inquietante stranezza di qualcosa appartenuta a un passato che ci appartiene. «Un breve viaggio a Roma qualche anno fa mi ha dato l’idea di compiere il mio personale Grand Tour, proprio come i pittori del passato hanno fatto per secoli. Un Grand Tour, però, fatto a mia immagine e somiglianza, ricostruito interamente dello spazio del mio garage dove ho scattato tutta questa serie», racconta l’artista in un’intervista rilasciata a Fabrizio Meris. «Ero eccitato nel vedere come avrei potuto trasformare gli stessi sei metri in ambienti cosi diversi, che fossero sia molto piccoli sia maestosi».
Un po’ appartata rispetto alle splendide Mostre in mostra, e a primo acchito magari percepita come una esposizione estiva, una di quelle esposizioni da vacanze intelligenti che portano i turisti a trovare scampo nei musei e a gustare la solita rassegna d’arte confezionata come un gelato alla crema, Paradise Garage è veramente un progetto straordinario che non solo ha impegnato l’artista per ben due anni, ma palesa una lucidità inaspettata e, perdipiù, tutta una serie di riferimenti che soltanto l’occhio di un intellettuale qual è Bark può mostrare, con una abilità senza eguali. Intrisa di stilemi rinascimentali o barocchi che si coniugano brillantemente alla sfera contemporanea, come pure di note compositive che richiamano alla memoria un Dalì o un gigante della portata di de Chirico, gli scatti proposti in questo entusiasmante viaggio al limite della realtà e della verità, nascono tutti – e questo davvero sbalordisce – nel garage dell’artista: «è lui stesso a trasformare» artigianalmente «gli spazi e le pareti nude in scenari evocativi ed enigmatici in cui convivono riferimenti iconografici all’arte del passato e dettagli stranianti».
E nell’ambito del percorso, accanto alle fotografie dove sottile è il gioco tra Heimlich und Unheimlich o tra estraniante e consueto, c’è anche la ricostruzione del garage che lascia trasparire il potere teatrale di cui si nutre Bark quando assembla, fabbrica, monta e raccorda le parti di uno scenario segreto che coincide con una mente che, tra rappresentazione e spettacolo, crea stuzzicanti scene oscene, laccature in cui si perde ogni volere e si naufraga in un valere estetico fatto di luce, di ombre e penombre, di corpi consumati, di nature morte che strizzano l’occhio alla pittura fiamminga, di ritratti familiari, di cose semplici, arricchite però da un cromatismo severo e lisergico.
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