Una vita politica

Il nuovo libro di Francesco Raparelli

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Claire Fontaine, Capitalism kills (love), 2008.

Francesco Raparelli, in Singolarità e istituzioni. antropologia e politica oltre l’individuo e lo Stato (Manifestolibri, 2021, in libreria dal 15 Febbraio), definisce la politica neoliberale come una contro-rivoluzione. La definizione è intesa, in primo luogo, come una reazione al Sessantotto. L’anno non indica per Raparelli solo i famosi moti studenteschi e operai, l’opposizione alla guerra in Vietnam, bensì una mobilitazione generale e politica «antisistemica», di natura globale, iniziata negli anni successivi alla fine del Secondo dopoguerra e continuata fin dentro gli anni Ottanta. Ciò che chiamiamo «Sessantotto» è una costellazione globale di politiche e culture che non sono riuscite a coniugare rivoluzione e riforma, diritti sociali e civili, libertà e uguaglianza in un insieme non lineare e spesso contraddittorio di prassi e sensibilità che comprendono tanto le lotte anticoloniali e anti-imperialiste quanto la liberazione delle cosiddette «soggettività» oppresse e rimosse dalla storia. Questo contro-ciclo politico ha trasformato sia l’idea di rivoluzione che quella di contro-rivoluzione, modificando entrambe rispetto al canone della «rivoluzione borghese» e a quello della «rivoluzione bolscevica».

Così inteso il 1968, oggi non a caso calunniato in ogni dove, può essere considerato sia in continuità con le rivoluzioni che hanno trasformato la modernità capitalistica, il 1848 e il 1917, ma anche in una discontinuità. La sua specificità consiste in una critica immanente dei poteri esposti continuamente a «rinnovate domande di democrazia», scrive Raparelli. Quelle che sono puntualmente strumentalizzate in forme aberranti com’è stato dimostrato nella stagione populista in Italia. Il problema non è nuovo. La politica, se vogliamo trovare una definizione, è il conflitto tra storia e divenire, tra cicli storici e prospettive.

Una contro-rivoluzione neoliberale è, in secondo luogo, una politica di ispirazione capitalistica e non solo una teoria economica «liberista». Stiamo parlando di un nuovo liberalismo politico, opposto al liberalismo sociale e soprattutto al socialismo, capace di alternare nella contingenza tonalità liberal-capitalistiche con altre autoritarie repressive e conformistiche. La sua agenda ispirata all’individualismo proprietario e alle istanze farlocche della «creatività» imprenditoriale continua ad avere un consenso nelle masse, non è solo la violenza organizzata di un’élite criminogena. Ha creato una nuova rappresentazione della società, non è solo la proiezione ideologica di una qualche teoria sulla realtà. A sinistra, come a destra, il neoliberalismo è stato invece inteso come una teoria economica che minimizza il ruolo dello Stato e massimizza quello del mercato, accresce la funzione estorsiva e di rapina di quest’ultimo riducendo la politica alla privatizzazione dell’esistenza. Il mondo sarebbe ridotto a un mercato globale dove il Capitale agisce da potere assoluto. La storia sarebbe finita in una gabbia d’acciaio.

Non c’è alternativa, è il detto famoso. Non è così. Le alternative esistono, eccome. Solo che sono occupate da una politica che le anticipa rovesciandole nel loro opposto, cioè nello stato di cose presenti, amministrato da una politica che mira a spoliticizzare e neutralizzare ogni forma di vita collettiva, riducendola all’individualismo, all’impresa, alla proprietà. La controrivoluzione, scrive Raparelli, ha istituito un nuovo «principio di individuazione» di tipo «schizofrenico» che oppone «la fantasia all’immaginazione», definisce il desiderio non come «connessione» bensì come «fantasma» e separa il piacere dalle forme collettive, trasformandolo in un ideale normativo o in una morale individualistica che spinge alla concorrenza e «produce nausea e vuotezza allo stesso tempo». «La controrivoluzione capitalistica – aggiunge – non ha semplicemente represso la creatività ma ha divaricato fino a contrapporre fantasia e invenzione istituzionale». Non solo: ha imposto la legge per cui «l’immaginazione è produttiva per le imprese» ma non per la società.

Questa trasformazione antropologica è parte della contro-rivoluzione politica. Di solito, invece, restano aspetti separati. L’individuo sembra sospeso nel nulla. La politica è un universo autoreferenziale. Da questa separazione nasce il sentimento diffuso di impotenza. Se invece consideriamo l’antropologia del soggetto neoliberale come una piega della politica allora comprendiamo l’operazione del neoliberalismo: dividere il campo di coloro che dovrebbero opporsi, mentre agiscono per consolidare l’egemonia che li opprime. La disperazione diffusa è l’altro volto di una realtà che appare insuperabile, mentre le agende neoliberali parassitano «il desiderio di vita e di autodeterminazione».

L’analisi dei limiti dell’individuo neoliberale si ferma alla constatazione dell’insuperabilità di una condizione biografica separata sia da un’analisi di classe che dalla genesi storica che ha portato alla controrivoluzione. Parlare, invece, di «contro-rivoluzione» neoliberale permette di non attestarsi sulla sofferenza dell’Io, prodotta di una riduzione della società alla psiche individuale, né di indulgere nella contemplazione dello scacco ontologico in cui resta prigioniero l’individuo performante. In questi casi il momento dell’analisi non porta alla definizione di una politica che opera un rovesciamento della controrivoluzione, ma a una clinica che riduce le contraddizioni del soggetto neoliberale al disagio psichico la cui ambizione sarebbe quella di costituirsi in un’individualità eroica o, ben più modestamente, «autoriale». Il problema non riguarda solo la bolla dei social network, ma un intero assetto culturale dove trionfano i luoghi comuni reazionari secondo i quali il neoliberalismo sarebbe stato l’esito del «Sessantotto». Come dire che gli studenti massacrati da Reagan, allora governatore della California, al People’s Park nel 1969 sono diventati un decennio dopo gli araldi del «liberismo», quando il loro massacratore arrivò alla Casa Bianca. O che il movimento femminista abbia spianato la strada al femminismo neoliberale o al femonazionalismo contemporaneo, mentre invece è l’opposto. O che la drammatica insorgenza dei movimenti del 1977 in Italia sia stata il prodromo della «Milano da bere», non l’ultima resistenza alla controrivoluzione nascente.

Il libro di Raparelli andrebbe letto solo perché fa giustizia di questi luoghi comuni diffusi in un certo cosiddetto «pensiero radicale» e recepiti anche in una parte dell’accademia italiana in cui risuona ancora un’astiosa, quanto poco documentata e normalizzante, polemica contro il pensiero critico. Andrebbe inoltre discussa la ragione per cui, a suo avviso, la critica resti sul terreno psicoanalitico, confrontandosi con Herbert Marcuse, mentre in una prospettiva materialistica e spinozista, ugualmente presente nel libro, questo è parte del problema, non una risorsa per la liberazione. In ogni caso è a questo che punta l’autore.

Il suo libro è una testimonianza del lavoro su di sé necessario per comprendere le cause di una condizione e prospettare una strategia per superarle. E, allora, da dove cominciare? Qui sta la chiave dell’interpretazione che resta una verità della ragione, ma non ancora della politica. «I movimenti – scrive Raparelli – faticano a far durare l’apertura democratica. Alcuni sostengono che ciò accade perché non si presentano sulla scena o non lo fanno abbastanza (…) Altri lamentano l’incapacità a trasformarsi in partito e, dunque, in potere politico nelle istituzioni dello Stato». «Più banalmente – osserva – occorre riconoscere che la loro debolezza ha molto a che fare con la drammatica precarietà delle condizioni di lavoro e di vita di chi li anima».

Una vita politica, invece, si fonda sul tempo «in abbondanza» e sul suo uso virtuoso e collettivo. In una società agonica questo tempo non c’è: è divorato dal capitale. Chi non lo può comprare, è fottuto. Uno dei modi per contrastare questo strangolamento è creare strategie collettive che sottraggono tempo al capitale e distribuirlo affinché ciascuno goda delle possibilità oscurate dal reale. La distribuzione del tempo liberato dipende dalla socializzazione delle ricchezze e dalla riappropriazione dei mezzi di produzione. Questa politica, assai impegnativa, ha conosciuto numerosi compromessi e altrettanti conflitti nel corso della storia recente. Non è ancora troppo tardi per cercare di ritrovarla.

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