West romano
L'esplorazione psico-geografica di Marchini e Sotgia
Il libro di Rossella Marchini e Antonello Sotgia – Roma alla conquista del West (DeriveApprodi, 2017) – esordisce così: «Abbiamo cercato di raccontare un territorio senza dividerlo da chi lo abita. Abitare un territorio non è solo disporre di una casa, questo è il raggiungimento di un diritto. Vuol dire muoversi, fruire e produrre cultura, godere di garanzie sociali, praticare conflitto. La città non è la macchina della crescita».
Non abbiamo fra le mani un testo di urbanistica, per quanto ben corredato di mappe, ma un’esplorazione psico-geografica su come gli abitanti vivono materialmente e affettivamente (quindi conflittualmente) il «West» romano, cioè il quadrante nord-ovest della città, al di sopra del Tevere e via scivolando verso un mare che non si vede. Un’area scoscesa di valloni paralleli e dislivelli altimetrici, dove gli ettari urbanizzati sono la metà di quelli totali e la densità edilizia complessiva è molto bassa. Multipli di case isolate inframezzati da spazi vuoti senza collegamenti, «frammenti continui di città», con pochi servizi ma immancabili centri commerciali succhiasoldi. Antonello e Rossella hanno preso alla lettera l’indicazione di Guy Debord, solo saggiamente alternando le camminate per i saliscendi del West all’uso dell’automobile (in mancanza dei cavalli), della ferrovia per Fiumicino o di rari e traballanti mezzi pubblici (il 98 per Corviale, il suburbano 088 per il Casaletto):
Per fare una deriva, andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che sapete, ma in base a ciò che vedete intorno. Dovete essere straniati e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta. Un modo per agevolarlo è camminare con passo cadenzato e sguardo leggermente inclinato verso l’alto, in modo da portare al centro del campo visivo l’architettura e lasciare il piano stradale al margine inferiore della vista. Dovete percepire lo spazio come un insieme unitario e lasciarvi attrarre dai particolari.
(G. Debord, Théorie de la dérive, novembre 1956)
Come se fosse la prima volta. Non guardando sempre in alto, come il metropolitano Debord, ma anche in basso: buche pregresse e raggiane, sprofondi, insediamenti celati in fossi e scarpate, sotto ponti e viadotti, alle fondazioni ribassate rispetto al letto del Tevere, lungo i suoi argini. Ma tenendo gli occhi su chi ci vive. Espulsi dei fascistissimi sventramenti, baraccati di recente «democratico» risanamento, autoctoni, zingari, migranti di ogni origine, vivi, morti (il cimitero della Parrocchietta, uno Spoon River dei «solerti campagnoli» malarici sotto un cavalcavia e adiacente a un McDonald), 800 animali domestici sepolti all’Imbrecciata (dalla gallina di famiglia di Mussolini ai cani di Brigitte Bardot), cammelli da set televisivo alla Massimina, palazzinari e palazzinati signorili o a schiera, centri commerciali, multiplex, locations pasoliniane, visitatori domenicali al fortino legionario sulla Portuense, quello dove «una telefonata allunga la vita», e via saltando di soglia in soglia di livello, da vallone a vallone, di orrore in orrore (monacale Casa Generalizia bed&breakfastizzata o retail park, fatiscente tugurio o incongruo chalet svizzero). Si parte dalla sommità del Gianicolo, dove si sale per ammirare la città storica e «consolidata» (quella definita negli anni dai piani regolatori) e voltare le spalle al quadrante nord-ovest, il Vaticanenland che sta alla base di tutte le ulteriori speculazioni. Facile da quei terrazzi deprecare con vano moralismo i Mali di Roma o celebrarne la Grande Bellezza – più banali i sentenziatori meglio viene la zuppa –, più complicato (come fanno Marchini-Sotgia) leggere il territorio, gli interessi, i pezzi scomposti di città e gli abitanti che li fanno vivere. Vivere soprattutto attraverso le lotte.
Le città – lo ricorda Paolo Berdini nella bella Introduzione – non sono elementi neutri, ma luoghi di inaccettabili diseguaglianze, a partire dalle quali si sviluppano sia lotte fra poveri ed emarginati sia campagne rivendicative che possono «salvare» un quartiere, pur senza risolverne a fondo i problemi: il caso della Magliana. Per questo «le mappe mentono sempre e i veri posti non ci sono mai» (diceva Melville), se esse si lasciano sfuggire come quei posti cartografati vengono vissuti, al di del rendering a colori. Il «West» è Il regno degli «sviluppatori», gli eredi dei latifondisti papalini e dei rapaci «mercanti di campagna», i successori della fallita Immobiliare, oggi dediti al ben più proficuo mercato delle compensazioni, cioè del diritto di piazzare, sostanzialmente fuori da ogni logica urbanistica, cubature equivalenti (al valore attuale, in genere molto maggiore) ad aree edificabili secondo il sovradimensionato PRG 1962 e sottratte all’edificabilità con il PRG 2008 per esproprio o rimborsi in natura per opere pubbliche altrimenti non finanziabili (project financing). Parnasi è subentrato a Vaselli. Qui esistono gli Ufo: volteggiano e sganciano a casaccio nell’Agro superstite e ondulato del West cubature immense di cemento, astutamente disperse in modo da costringere il Comune a fornire i servizi di urbanizzazione valorizzando anche gli spazi intermedi di raccordo.
Non che il fenomeno manchi altrove, solo che a occidente è la regola principe, mancando in genere quegli interventi di edilizia popolare che avevano in passato mobilitato la rendita negli altri quadranti. Di qui la diffusione «a sciame» degli insediamenti, parodia dell’urban sprawl losangeleño, appiccicato alle arterie radiali consolari: l’Aurelia vecchia e nuova, con le derivazioni di Bravetta e Pisana, che distribuiscono a partire da S. Pietro le innumeri residenze fratesche a uso misto alberghiero, Boccea, la Portuense, strette nell’abbraccio mortale circolare della via Olimpica, creata in occasione dei giochi del 1960 e che ha stravolto radicalmente, insieme al nuovo aeroporto di Fiumicino le linee direzionali della crescita di Roma.
Il libro segue passo per passo la nascita e la trasformazione di questi aggregati, da un doppio e complementare punto di vista: la speculazione sui terreni, le cubature e dunque sulla graduale sussunzione della rendita urbana nel capitale finanziario e nella gestione bancaria (Unicredit nel West, mentre la Bnl marcia sulla Tiburtina), la resistenza e le lotte di chi vi è stato attirato o catapultato, a cominciare delle più antiche borgate della Magliana e del Trullo. Per parlare dell’esperienza dei centri sociali (meno presenti a West che nel resto della città) e della loro straordinaria confluenza nel grande corteo che bloccò temporaneamente nel novembre 2002 il Prg Rutelli, gli autori dedicano ben tre capitoli a narrare le lotte per la casa, la costruzione di autentiche comunità resistenti e in generale come il protagonismo sociale si sia riappropriato di spazi abbandonati, anche di uso culturale (dall’ex-Palazzo al Cinema America al Teatro Valle), tracciando quasi una nuova Forma Urbis per il futuro.
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