Visioni della gender theory
Una rassegna all'Istanbul Modern Museum
Nella sua capitale intellettuale anche quest’anno l’estate turca offre un brillane palinsesto di esposizioni e attività culturali che hanno la capacità di dialogare con i più importanti circuiti internazionali. Irrinunciabile, per chi ha voglia di puntare sulle eccellenze, è il corollario creativo che l’Istanbul Modern propone ai propri visitatori, stanchi magari di gozzovigliare tra le innumerevoli sollecitazioni della città o forse alla ricerca di un ambiente ben refrigerato. Ma non è di grande considerazione se sia l’una o l’altra strada a portare il turista in questo museo ameno (e ci auguriamo che sia piuttosto una terza ipotesi, ovvero il desiderio di andare a nutrire la mente con un ottimo pasto educativo): quello che realmente importa è piuttosto entrare in questo luogo dell’arte – l’attuale sede è provvisoria – e respirare finalmente un’aria che profuma di sperimentazione, di attualità.
Accanto a una importante retrospettiva dedicata a Ara Güler che è possibile incontrare al quarto e ultimo piano dello stabile (Güler è un reporter d’eccezione), l’Istanbul Modern presenta infatti una imperdibile sfilata di videoarte – si tratta dell’International Artist Films (Uluslararası Sanatçı Filmleri), il programma fondato dalla Whotechapel Gallery nel 2008 che comprende ben 18 partner internazionali tra cui lo stesso Istanbul Modern – il cui impatto socio-antropologico pone al centro dell’attenzione tematiche legate all’ospitalità, all’alterità, alla differenza, all’accoglienza (quest’anno il tema è la gender theory).
Il consiglio per il nostro visitatore è di partire dall’ultimo piano, e dunque dalla mostra di Güler, per scendere via via a meno uno, dove si giunge finalmente a questa rassegna di videoarte la cui particolarità non è soltanto quella di irrobustire un dialogo internazionale con istituzioni quali il CCAA di Kabul (The Center for Contemporary Art Afghanistan), il Cultural Centre of Belgrade, l’Hanoi Doclab, il Tromsø Center for Contemporary Art, la Bonniers Konsthall di Stockholm, il texano Ballroom Marfa o la nostra GAMeC di Bergamo, ma anche e soprattutto di partecipare in maniera attiva alla costruzione del palinsesto, lanciando ogni anno una nuova stella nazionale della videoarte: negli anni sono stati proposti i lavori di Ali Kazma, İnci Eviner, Ergin Çavuşoğlu, Sefer Memişoğlu, Bengü Karaduman, Burak Delier, Vahap Avşar, Zeyno Pekünlü, Cengiz Tekin, Pelin Kırca: e ci auguriamo che in un prossimo futuro possa essere incluso anche un artista raffinato quale Burak Arıkan, presente qualche tempo fa nella bella Istanbul. Passion, Joy, Fury, organizzata al MAXXI. Otto i video in mostra, qualcuno dirà che sono pochi ma forse è la giusta quantità per non annoiarsi a guardare opere che hanno una loro durata e impongono un tempo più dilatato per la loro giusta lettura: e gli artisti (Carolina Caycedo, Theresa Traore Dahlberg, Atefa Hesari, Lars Laumann, Jacopo Miliani, Senem Gökçe Oğultekin, Marko Tirnanić e il vietnamita Hguyen Hai Yen) palesano tutti una bella freschezza compositiva.
Tra i vari video che la rassegna ci propone, oltre all’esemplare lavoro offerto da Jacopo Miliani con Deserto (2017, 6’09”) e alle preziose Apparitions (2018, 9’11”) di Carolina Caycedo o al Summer Siesta: 6th hour counting from Dawn (2017, 13’24”), è possibile guardare, divorare con gli occhi, e anche più di una volta (personalmente ho riguardato questo video ben tre volte, senza percepire l’arrivo della disattenzione, nonostante duri 13’13”) il formidabile lavoro – Dun (Ev) / Dun (Home) – offerto da Senem Gökçe Oğultekin, artista nata a İzmir nel 1982. Realizzato nel 2018 in uno scenario straordinario (le antiche rovine di Ani, città che si trova nella provincia di Kars), il video mostra due ragazze – Aslı Bostancı e la stessa artista – che performano, che lottano tra loro, che resistono, che giocano al gioco della sopravvivenza, che recitano la loro parte e la loro vita in un ambiente indifferente, ma la cui potenza evidenzia quanto poco e nulla è l’esistenza dell’uomo rispetto a quella della natura o di una civiltà.
A ben vedere, tra la polvere, tra i calpestii, tra gli abbracci, tra i capelli intrecciati da un nodo, quasi a confondere le due ragazze e quasi a mostrare la chiarezza di qualcosa che ha il sorriso amaro dell’infanzia (come pure la spina pungente dell’erotismo), ci sono temi spinosi. C’è il passato che ritorna, c’è la delimitazione che indica un confine (non dimentichiamo che oggi Ani è solo un luogo di confine con l’Armenia, e non un sito archeologico degno di nota), c’è l’appartenenza a un territorio e la resistenza, c’è il corpo e naturalmente la donna, l’essere donna determinata e tenace, costantemente agguerrita e perseverante, aperta a scommesse e a visioni future, legata al sentimento umano di libertà.
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