È morto il direttore del Macro! Viva il direttore del Macro
In morte di Giorgio de Finis, uno dei pochi direttori della cui esistenza in vita siamo stati certi dal primo all’ultimo giorno
Giorgio de Finis ha fatto degli errori. Per dirne una, la cosa veramente brutta del suo Asilo era la collezione del Macro esposta permanentemente. Ma, d’altra parte, quella non l’aveva costruita lui, non è stato lui ad aver speso i soldi pubblici a quel modo. Ma lo biasimo lo stesso, per averla tirata fuori dalle segrete del museo, dove stava ben nascosta come il ritratto di Dorian Gray. Altre cose biasimo, poi, della sua direzione: diversi errori politici e di comunicazione. Primo fra tutti l’aver creduto che il proprio progetto fosse stato ben spiegato ai vari players del sistema dell’arte. Non è stato così. La semplificazione linguistica del «museo aperto a tutti» ha messo in ombra quel criterio di selezione che, invece, c’è stata (anche se basata su processi diversi da quelli abituali e in alcuni casi più interessanti) e che, se meglio comunicata avrebbe probabilmente generato minori diffidenze da parte di alcuni protagonisti della scena nazionale. È andata così che un museo d’impianto inclusivo abbia finito per escludere (o far autoescludere) qualcuno.
Al di là di tutto, questo tipo di contraddizioni vanno registrate ed elaborate in un bilancio critico obiettivo. Al direttore questi errori sono costati il posto. Anche questo è un dato da registrare in un computo finale. A parte questo anche altre cose potevano funzionare meglio, come sempre. Ma considerato il tempo relativamente breve in cui il progetto ha avuto il suo corso, direi che de Finis, in un arco più ampio avrebbe potuto correggere il tiro – cosa che mi parve essere intenzionato a fare già dalla seconda parte del suo mandato. Però ragionare sulle eventualità e i forse è un esercizio ozioso quando si fa a posteriori. L’esperienza si è conclusa e a bocce ferme, da osservatore, posso dire che mi spiace per quelli che non l’hanno capito o non hanno voluto capirlo, ma abbiamo abbastanza dati per valutare questo esperimento come un successo.
Dovremmo abituarci a sfuggire alle semplificazioni per cui un successo è tale quando tutto va bene e un flop si dichiara quando tutto va male. I casi limite (ossia i tutto bene o tutto male) non si verificano mai e sono la consolazione di chi non ha le spalle abbastanza grosse per stare nella bufera che sta in mezzo. Dunque, nel calcolo generale dei dati che possiamo analizzare, il Macro ha mancato in alcuni elementi, ma ne ha prodotti altri di non trascurabile importanza, specie perché latitavano nel nostro mondo dell’arte «bello e bamboccione» da molto tempo. In primis non si può negare la ritrovata generosità del dibattito pubblico, fin anche della polemica (che un tempo era cosa nobilissima). Abbiamo fatto l’abitudine a figure scialbe e prive di ogni utilità al vertice di molti musei. Non lo si dice mai direttamente per non turbare gli equilibri di un sistema ridotto già allo stremo. È stata quasi una benedizione, quindi, avere qualcuno che s’è offerto volontariamente in sacrificio per essere criticato, accusato, bestemmiato. Ha consentito a tutti di esercitare il proprio senso critico un poco atrofizzato. Un altro contributo essenziale del Macro Asilo è stato il raggiungimento dell’unico vero grande obiettivo posto da de Finis, l’allargamento della sua comunità e della frequentazione del museo.
Gli oltre 330.000 visitatori dicono molto per uno dei musei storicamente meno frequentati d’Italia. Ma anche la qualità e le modalità di frequentazione marcano una certa crescita. Il Macro Asilo, a dispetto del proprio nome, ha ospitato dei visitatori più adulti, capaci di discutere e confrontarsi maggiormente, di fare comunità. Qualcuno non ha apprezzato perché a Roma, si sa, solo le «nostre comunità» sono quelle giuste, le altre sono «comunità nemiche», un po’ come ai tempi di Romolo e Remo, e, infatti, i risultati di questa mentalità originario-tiberina hanno dato nella capitale eclatanti riscontri negli ultimi decenni. Diciamo che, invece, il Macro Asilo è servito per traghettare 330.000 unità di un pubblico abituato come i bambini della scuola materna a ragionare per «mio» e «tuo» verso una mentalità almeno da scuole elementari, in cui si comincia a lavorare assieme, a sentirsi parte di una microcomunità che discute, ma non prova a strapparsi reciprocamente i giocattoli di mano.
Una terza buona pratica del Macro Asilo è stata l’attività editoriale. La storia dell’arte, d’altra parte, vive di documenti e noi (pur facilitati dal digitale) abbiamo quasi smesso di produrne. Lo sforzo titanico delle centinaia di quaderni pubblicati dal Macro Asilo vale da solo un riconoscimento oggettivo. Probabilmente di cose buone ce ne sono state altre, così come di errori. Ma fermiamoci un momento a valutare l’istituzione. Finiti i fasti dell’era Eccher (che pur con poco pubblico ci ha però fatto vedere mostre mirabili ed interessanti progetti, impegnando un budget oggi non più possibile), il museo ha stentato sempre. Di cose per le quali dichiararsi contrariati ne abbiamo viste negli anni, ma abbiamo taciuto (basti ricordare le opere milionarie commissionate con la legge del 2%). In alcune stagioni abbiamo anche dovuto registrare un conto di artisti morti superiore di tre o quattro volte rispetto a quello dei viventi (con percentuali di defunti maggiori perfino rispetto alla GNAM che non ha il contemporaneo come sua mission istituzionale). Altre volte ci siamo semplicemente chiesti se il museo fosse ancora aperto (lo era!).
A fronte di questo come potrei non dire che questo biennio esagitato di direzione de Finis non sia entrato a tutti gli effetti nella storia positiva della Kunsthalle romana e, per estensione, in quella dei musei italiani. Lo ripeterò fino alla noia, non era perfetto, ma quand’anche la perfezione fosse raggiungibile, un progetto di rottura non dovrebbe preoccuparsi di essa e guardare a traguardi ben più sostanziali. Non sarà perfetta neppure la gestione futura, quella di Luca Lo Pinto, personalità differentissima da quella di de Finis e che forse è il miglior candidato possibile per garantire al museo un’alternanza di stimoli che è certamente vitale. Al nuovo direttore (che conosco dagli esordi e che appartiene alla mia generazione) il miglior augurio che posso rivolgere è di fare un progetto che sia altrettanto significativo come quello che lo ha preceduto.
I musei, prima che degli uni e degli altri, dei tradizionalisti o degli squatters, dei frustrati o dei miracolati, dei meritevoli o dei raccomandati, sono del pubblico. Alla fine di tutto, l’unica cosa che conta è far crescere (non solo numericamente, ma anche intellettualmente) il pubblico, farne un complesso di cittadini migliori. Per riuscirci non c’è una formula. Si può farlo alla maniera del Guggenheim (la preferita di chi scrive) o alla maniera del MAAM (che pure, a modo suo, ne ha tagliati di traguardi). L’unica cosa che hanno in comune però queste differenti maniere è il fatto che per raggiungere risultati veri serve un lavoro difficile e sostanziale che poco si presta ad essere letto correttamente dalle ipocrisie incrociate del sistema dell’arte. Da parte nostra, artisti, critici, collezionisti, galleristi, l’unica cosa sensata da fare è aiutare il raggiungimento di questi risultati con coscienza critica, ma anche grande generosità. Nell’interesse di tutti. Finis.
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