La rivoluzione è finita

Abbiamo vinto

thumbnail_1_venezia 1964
Da sinistra: Nuria Schoenbeg, Italo Calvino, Luigi Nono, Giuliano Scabia, Luigi Pestalozza, Toni Negri, Martine Cadieu, Jean Paul Sartre, Rossana Rossanda, Massimo Mila seduti al tavolo di un ristorante dopo la rappresentazione de La fabbrica illuminata. Archivio Luigi Nono, Venezia. Courtesy Eredi Luigi Nono.

Pubblichiamo qui un estratto dell’«Epilogo» dal libro «Inappropriabili. relazioni, opere e lotte nelle arti performative in Italia (1959-1979)», Marsilio (2024). Ringraziando l’autrice e l’editore per la gentile collaborazione ricordiamo che il libro verrà presentato oggi 6 settembre all’interno di Short Theatre. L’appuntamento è alle 18.00 alla Pelanda (Mattatoio). Con Annalisa Sacchi interverranno Giuseppe Allegri, Viola Lo Monaco, Nicolas Martino

***

Storia notturna

La storia che ho ricostruito è principalmente notturna: una notte dopo l’altra sfilano gli spettacoli, i film, le feste, i concerti, i raduni, le cene, le discussioni ai bar, nelle cantine romane, nei teatrini e nelle gallerie, nelle osterie, affollando cronache e memorie in cui si fa sempre tardi, si dorme pochissimo, si ama molto e si litiga continuamente. Una storia notturna di esistenze artistiche capaci di oscillazioni così rapide tra catastrofi e riparazioni, tra trionfi e fallimenti da rendersi, per qualche tempo, imprendibili anche ai tentativi di analisi verso quello che apparve da subito come un fenomeno collettivo e irreversibile: lo sviluppo nella forma performance di un linguaggio e di una politica compositiva che non aveva precedenti.

Nel doppio legame personale e artistico, nell’andata e ritorno tra palco e cucina, cinema e cortile, piazza e camera da letto, tra privato e politico, scorreva la determinazione a rifare la vita, il compito titanico di alterare l’ordine esistente, la disidentificazione dalla tradizione estetica modernista che animò la scena sperimentale in Italia. L’emersione di una comunità artistica che lavora con la performance prende, all’inizio degli anni sessanta, la forma di un’affermazione comune, un consenso a volte gioioso, altre disperato, verso un’impresa plurale, e si manifesta in pratiche sanzionate continuamente da trazioni reazionarie e repressive. L’avvento imprevisto di questa forza insurrezionale fomentò le lotte per la libertà di espressione che ancora negli anni sessanta veniva negata, attaccata, ristretta da quella forma di disciplina e regolamentazione che è il conformismo culturale, sociale e politico. All’interno del generale rappel à l’ordre che seguì il 1979, il conformismo ebbe la sua rivincita nella composizione di un canone postumo della performance (o del “teatro sperimentale”, com’era nella definizione maggioritaria), dove molte delle soggettività più radicali vennero espulse, marginalizzate, dimenticate, e dove l’incandescenza di quanto venne riconosciuto come “genio” fu ricondotta all’autonomia celibe del singolo. La conferma ambigua del successo “di critica e di pubblico” conferì infatti centralità mentre generava assimilazione: le fu insofferente ad esempio Carmelo Bene, il cui dissentimento verso la storiografia teatrale non fu sufficiente a impedire l’esproprio delle sue memorie dalla comunità artistica e intellettuale, dagli amici, cui le aveva consegnate, come ho ricordato nell’apertura di questo libro.

E tuttavia l’energia sociale sostenuta collettivamente all’interno della sperimentazione performativa, sviluppata per linee di fuga sempre più radicali e impazienti, è stata capace di trasmettersi come colonna spinale attraverso generazioni successive che l’hanno incrementata: retaggio corsaro che ha passato frammenti e tracce e baluginii dei dispersi, dei dimenticati, di quelli impossibili da assimilare. Il titolo di questo libro, Inappropriabili, si riferisce così ad artisti come Alberto Grifi, Patrizia Vicinelli, Aldo Braibanti, Perla Peragallo, ma anche a momenti radicali nei percorsi di altri che poi furono in parte ricondotti a una produzione sorvegliata dalle istituzioni: Leo de Berardinis, Carmelo Bene, Giuliano Scabia. L’inappropriabilità è qui la qualità delle forme di vita che danno se stesse al cambiamento senza indugiare sulle conseguenze, delle pratiche artistiche che reintegrano nell’estetica e nella politica il godimento sensuale e la materialità della creazione, è il ritmo sincopato della sperimentazione e l’irruenza della critica all’esistente, è la risoluzione a fare del mondo il luogo di una trasformazione. È la misura di esperienze non disciplinate e agitate da una politica del rifiuto e della negazione che sarà causa dell’isolamento e della rimozione di molte vicende artistiche, artificialmente scollate dal territorio storicizzato della performance italiana. In questa distanza fittizia che per determinarsi ha operato con un taglio nelle relazioni, nelle sperimentazioni, nelle grammatiche, sono state per lo più spinte fuori confine molte delle esperienze che ho qui voluto raccogliere, quelle che più intensamente seguirono la chiamata della liberazione, che rifiutarono di adattarsi alle prestazioni competitive del mercato artistico, che non tollerarono la brutalità, l’ingiustizia sociale, l’aggressività dell’esistente. Artisti irriducibili che fecero casa nella spinta tumultuosa alla differenza, forsennando il potere dell’immaginazione politicoestetica come resistenza essenziale; soggettività determinate a muoversi oltre o contro la legge, fuggiasche come Vicinelli, condannate come Braibanti, internate come Grifi.

Cattivi lavoratori

Nel 1975 Jacques Rancière è membro del collettivo fondatore della rivista «Les Révoltes logiques», inaugurata per contestare le correnti ufficiali della storiografia marxista e della sociologia storica nelle loro analisi della classe operaia. L’interesse principale del collettivo risiede nel riaprire archivi minori e periferici contenenti memorie dei lavoratori nel XIX secolo, in anni cruciali per lo sviluppo di eruzioni rivoluzionarie, per far emergere i loro desideri, i sogni, le sperimentazioni artistiche e di pensiero, i modi di trascorrere le notti come un tempo liberato dal lavoro. Lo slancio del collettivo era a che «gli archivi fossero dei discorsi, le idee degli eventi, la storia in ogni momento un’interruzione, […] interrogabile solo qui, solo politicamente»1

Da questa ricerca Rancière sviluppa la sua tesi di dottorato che poi diviene un libro, La nuit des prolétaires. Archives du rêve ouvrier (1981), in cui si legge di lavoratori che

si interrogano contemporaneamente sulla propria identità e sul proprio diritto di parola, spinti dalla logica stessa della disgiunzione che riconosce uno solo a spese dell’altro, in questa avventura in cui cercano di appropriarsi della notte di coloro che possono rimanere svegli, del linguaggio di quelli che non devono mendicare, dell’immagine di coloro che non è necessario adulare. Sulla presunta strada diretta dall’oppressione alla parola di classe e dall’identità operaia all’espressione collettiva, bisogna passare attraverso questo percorso, questa scena mista in cui, con la complicità degli intellettuali che sono usciti per incontrarli e che talvolta desiderano espropriare il loro ruolo, i proletari si cimentano nelle parole e nelle teorie di chi sta in alto, rielaborando e spostando il vecchio mito che definisce chi ha il diritto di parlare per gli altri2.

Rancière rincorre, nelle storie dei proletari, lo slancio alla creatività e la lotta per aver accesso a una vita emancipata dalla morsa della necessità: laddove il “buon lavoratore” è quello che rimane nel posto che la società gli ha assegnato entro i confini compressi di un rango, i protagonisti de La nuit des proletaires sono quei lavoratori sradicati che disertano l’impiego per seguire le seduzioni della filosofia e le promesse della poesia. Le descrizioni di Rancière degli itinerari delle diverse figure della classe lavoratrice frantumano il ritratto tradizionale di un tipo univoco di proletario con un’identità determinata e costante. Rancière indugia sui modi in cui queste figure rifiutano di essere risolte nella forma del loro lavoro materiale e nel ruolo di lavoratori salariati: sono nomadi pericolosi perché si muovono ai bordi delle classi, individui e gruppi capaci di sviluppare in maniera autonoma linguaggi artistici e critici che non producono alcun beneficio diretto alla loro vita materiale e che infrangono le barriere tra attività produttiva e attività senza opera, tra lavoro materiale e lavoro intellettuale ed estetico.

L’analisi del proletariato nella fase della sua composizione, nella contestazione al capitalismo nel momento in cui si strutturava come sistema economico-politico dominante, è di tipo genealogico: quella stessa possibilità insurrezionale si manifesta infatti negli anni sessanta ed emerge anche in Italia, nel pieno del boom economico e nell’irrompere sulla scena politica dei “cattivi lavoratori” che saranno i protagonisti dell’operaismo e dell’Autonomia Operaia organizzata. Ma “cattivi lavoratori” sono anche quegli artisti che si muovono tra militanza politica e pratiche espressive ibride, e quelli che il lavoro salariato lo rifiutano decisamente. A inizio anni sessanta, scrive Giuseppe Allegri, «arriva il formidabile Pinocchio di Carmelo Bene, vero e proprio manifesto contro l’ottusa scuola deamicisiana e l’obbedienza al lavoro sotto padrone»3. Più avanti, a metà degli anni settanta, nel Ritratto di signora del cavalier Masoch per intercessione della beata Maria Goretti, Bene scrive: «Canteremo, se vuoi, ma tutta un’altra cosa dalla musica; come se, invece che in questa stanza, noi si fosse di là, in tutt’altra parte… come non fossimo più noi… E soprattutto non lavoreremo – ci senti? – Noi non lavoreremo. E non potremo morire mai!…… Bambini? Forse. Un domani che dio ne sarà degno… L’umanità si fa tanto per fare…»4.

Questa determinazione a un rifiuto plurale (noi non lavoreremo, non moriremo, non saremo più noi) chiama in causa una comunità, quella di una generazione di artisti che si diede convegno nel territorio ontologicamente relazionale e collaborativo della performance, dove si articolavano coscienza politica e sapere artistico, conoscenza sensuale e militanza contro i sistemi di dominio e di sfruttamento, contro il conformismo culturale e la distruzione ecologica.

Rancière trova che il potenziale rivoluzionario dei gruppi di “cattivi lavoratori” origini dalla loro amicizia: in altre parole, ritiene che l’amicizia sia la condizione essenziale dell’alleanza e della militanza per il cambiamento sociale. Dopo di lui, Avery Gordon, Céline Condorelli, Saidiya Hartman, Fred Moten hanno parlato dell’amicizia come un modo di co-esistere e di cooperare, un annodamento disinteressato oltre i sistemi di potere, una relazione gratuita, affettiva e di cura, una resistenza e un rifiuto condiviso dell’esistente. L’amicizia così intesa è antagonista ai modelli omosociali, quelli dei circoli elitari e sempre maschili dove il potere si (ri)struttura, si riproduce e si impone come privilegio.

In particolare, Condorelli scrive come l’amicizia sia una «struttura di supporto» generativa nella creazione artistica: «Spesso invisibili o date per scontate, le strutture di supporto e di sostegno sono essenziali per la produzione culturale, specie nei contesti artistici in cui l’autorganizzazione e l’autorialità individuale sono la norma»5. Una condizione fondamentale disupporto, un modo per fare “cose insieme”. L’amicizia dunque non solo come relazione intima, ma come processo, “condizione di lavoro” specifica del lavoro artistico, che non viene tematizzata all’interno delle opere ma scorre nella modalità formativa e operativa della composizione. La storia che ho ripercorso, in questa prospettiva, è leggibile come un archivio di pratiche di amicizia tra artisti che provenivano in gran parte dalla classe lavoratrice, dall’emigrazione meridionale, dall’emarginazione di genere. L’amicizia che li legò non derivava dalla riproduzione di un privilegio che li aveva visti frequentare le stesse università, i medesimi cenacoli e gli ambienti della cultura “maggiore”, e per ciò stesso fu straordinariamente solidale, duratura e imprevedibile.

È forse tra gli esclusi che le pratiche di amicizia più radicali hanno luogo (Vicinelli chiamava Emilio Villa “il mio amico re”), poiché l’amicizia qui funziona come una miccia per il cambiamento sociale, per la produzione di modi diversi di fare le cose, di vivere e di pensare l’esistenza, per se stessi e per gli altri. E questo tipo di amicizia diviene politico perché si allarga dalla scala del privato e dell’elettivo a quella del pubblico, producendo conseguenze e durata di più vasta scala: è per merito suo, ad esempio, che si è generata un’opposizione alle forze centripete che hanno spinto le opere di Grifi, Braibanti, Vicinelli, Villa fuori da quanto è considerato coerente, riconoscibile e ammissibile nel canone disciplinare, è lei ad aver fatto custodire memorie, intrecci, accensioni capaci di restituire la trama delle relazioni e delle forze. Questo significa anche che il mio libro è necessariamente un’assemblea di assenti. Moltissime altre storie avrei voluto ricostruire all’interno di questa collettività, da Simone Carella a Ketty La Rocca a Franco Cordelli a Demetrio Stratos a Pino Pascali ad Annabella Miscuglio a Cathy Berberian a Dario Bellezza a Gino De Dominicis. Mi piace pensare che lo faranno altre, e che gli archivi e le relazioni si allarghino per (ri)generare altre storie, fino a che i fili di questo gioco del ripiglino diventino fittissimi e pieni di annodature.

Note

Note
1Collectif «Les Révoltes logiques», Deux ou trois choses que l’historien social ne veut pas savoir, in «Le Mouvement social», n. 100, juillet-septembre 1977, p. 30.
2J. Rancière, La nuit des prolétaires. Archives du rêve ouvrier (1981), Paris, Fayard, 2012, p. 34.
3G. Allegri, Il 1968 come arte del Caosmos, in È solo l’inizio. Rifiuto, affetti, creatività nel lungo ’68, a cura di I. Bussoni e N. Martino, Roma, ombre corte, 2018, p. 21.
4C. Bene, Ritratto di signora del cavalier Masoch per intercessione della beata Maria Goretti. Spettacolo in due incubi (1976), in Id., Opere. Con l’Autografia d’un ritratto, Milano, Bompiani, 1995, p. 410.
5C. Condorelli in conversazione con A.F. Gordon, in A.F. Gordon, The Hawthorn Archive. Letters from the Utopian Margins, Fordham, Fordham University Press, 2018, p. 75.

Newsletter

Per essere sempre aggiornato iscriviti alla nostra newsletter

    al trattamento dei dati personali ai sensi del Dlg 196/03