Ancora sul Settantasette, l’autonomia e la creatività diffusa, il Pci di Berlinguer, la Settimana della Performance a Bologna, una mostra sul ’77 a Roma e il Festival dei poeti di Castelporziano.
La spiaggia vista dal teatro
A Castelporziano il teatro divorò la poesia. Ma si può anche dire che la poesia divorò il teatro. Nel senso che un evento con tanto pubblico, a partire da un’arte indipendente come la poesia, probabilmente non s’era mai visto e non s’è mai visto dopo. Se oggi alcuni validissimi artisti possono convogliare ai loro spettacoli centinaia di persone, beh a quei tempi compagnie come La Gaia Scienza di Barberio Corsetti, Marco Solari e Alessandra Vanzi, potevano convogliare oltre mille persone ai loro spettacoli.
Dunque si trattava di un momento di grande partecipazione del pubblico. Un evento di tale portata si verificò in forma teatrale con un palco, un aspetto performativo intorno alla poesia e non al teatro. Anche se poi alcuni degli ispiratori di quel simposio, esseri anfibi come Simone Carella e come lo stesso Franco Cordelli che fece parte di quella temperie, avevano un piede da una parte e uno dall’altra. Il tempo lo richiedeva, così come l’esigenza di un’arte «politica» prima ancora che per i contenuti per la modalità che sceglieva di adottare, e che molto spesso cercava di contestare le accademie rompendo e forzando gli steccati delle discipline e quindi contaminandosi. La contaminazione era una delle parole d’ordine così come quella di un’«arte totale».
Castelporziano è stata vicina a questa possibilità partendo dalla scrittura poetica. Poi c’è stato il folklore, lo rivediamo nei video su yuotube con gli improvvisati che chiedevano spazio per leggere e con gli organizzatori che spiegavano che «c’è una fila , ci sono dei turni per leggere». L’altro fenomeno è la trasversalità di questo teatro che divora la poesia o di questa poesia che divora il teatro, e poi l’estrazione sociale del pubblico. Non parliamo solo di persone che provenivano da strati sociali bassi ma con livelli e retroterra culturali coltivati, ma di persone che si affacciavano in maniera ingenua a quel mondo. Essere riusciti, attorno a personaggi sicuramente mitologici come la Beat Generation, a convogliare tanto pubblico, anche impreparato, è uno dei punti di forza di Castelporziano, insieme alla contaminazione e al superamento degli steccati che trasformava l’evento in una grande performance.
Oggi l’infatuazione per il performativo ha cambiato segno, forse ci ha anche stancati, ma in quel momento storico ha aperto dei mondi anche intercettando un pubblico e un artista ibrido. Qualche anno fa Massimiliano Gioni ha inaugurato la Biennale d’arte dedicandola agli outsider che è una gran fetta della creatività del Novecento. Proprio quella parte di artisti che non hanno studiato, non si sono formati nelle Accademie, non hanno coltivato in queste la loro vocazione, ma sono diventati d’interesse nazionale e a volte transnazionale. Il Novecento è stato un secolo infatuato degli outsider che sono emersi proprio in quanto tali forse prima ancora che per le loro qualità poetiche o artistiche, ma che comunque hanno portato una capacità d’innovazione o quantomeno di ibridazione dei linguaggi. Castelporziano è stato tutto questo e altro ancora.
Anche nel teatro era presente questa idea di performance. Roma è stata nel ’79 l’epicentro di un grande stagione di rinnovamento. Di tutti i movimenti quello delle cantine romane è stato, e lo dico in senso molto positivo, il più cialtrone, con quella capacità di creare spazi informali che innervava tutta la scena. Ricordare spazi come il Beat ’72 che intercettavano le istanze creative dell’epoca, è già stato fatto con pubblicazioni dettagliate. M’interessa, invece, soffermarmi sulle condizioni approssimative dal punto di vista tecnico (oggi sarebbe illegale occupare quegli spazi), dal punto di vista del professionismo comunicativo (oggi è impensabile pensare a festival anche innovativi senza un lavoro comunicativo orientato al marketing), e anche sotto l’aspetto della gestione artistica. Questa approssimazione è stata però una delle caratteristiche, insieme ovviamente a un tempo prolifico di artisti, che ha creato quel brodo di cultura dove si sono formati artisti come Carmelo Bene che nella sua parabola è stato fuori e dentro quella esperienza, fino alle generazioni più giovani che si stavano consolidando in quel momento come Barberio Corsetti.
Tutta quell’esperienza è stata seminale per le generazioni successive nonostante negli anni successivi, in particolare negli anni Ottanta , quello spirito si sia andato spegnendo in realtà chiuse, a volte anche riconosciute dalle istituzioni. Comunque seminali soprattutto per le generazioni che si sono proposte negli anni Novanta e Duemila, riferendosi a quel mondo ma con risorse produttive più scarse. Quell’ambiente diffuso che era Roma in quegli anni ha influenzato il teatro e l’autoproduzione teatrale. Oggi assistiamo a casi di artisti come Daniele Timpano, Lucia Calamaro, Daria De Florian, Andrea Cosentino, che tornano a scrivere. Dal teatro di performance , dal teatro atto totale che sembrava essere divenuto allergico alla drammaturgia in senso classico – la parola era infatti uno degli elementi scenici e non sempre il più importante – si torna a usare la parola, a dire il mondo e con una libertà figlia di quegli anni.
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