Un pensatore del futuro

Tecnologia, Europa, Reddito: il lascito di Stefano Rodotà

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Cesare Pietroiusti, Artworks That Ideas Can Buy Opere in vendita (in cambio di idee) di Dara Birnbaum, Tania Bruguera, Adam Chodzko, Jeremy Deller, Maria Thereza Alves, Jimmie Durmìham, Dan Perjovski, Lia Perjovski, Joan Jonas, Lara Favaretto Wilkinson Gallery, Londra (2009).

Il prossimo sabato 2 dicembre, dalle ore 10 alle ore 17, presso la sede della Fiom nazionale, Corso Trieste 36, Roma, si svolgerà il seminario Leggere Tecnopolitica di Stefano Rodotà a 20 anni dalla pubblicazione, organizzato da CRS, Fondazione Basso, Openpolis e Il Secolo Della Rete per discutere sull’attualità dei temi trattati dal libro di Stefano Rodotà. Questo intervento che pubblichiamo ricorda, anche a partire da quel libro, il grande giurista e intellettuale a cinque mesi dalla sua morte, avvenuta lo scorso 23 giugno.

Sono passati cinque mesi e sembra ancora impossibile che Stefano Rodotà se ne sia davvero andato. Personalmente sconto tuttora una grande difficoltà a parlarne e a scriverne al passato. Allora, sicuramente in modo egoistico e autoreferenziale, provo a parlarne al presente. Ed approfitto di un possibile sentiero di lettura, anche questo sicuramente personale e parziale, attraverso i suoi ultimi venticinque anni di scritti e di incontri. Seguo tre piste che mi pare siano state poco battute nei ricordi letti in questi cinque mesi, tre tracce che continuano a interrogarci. Gli effetti delle innovazioni scientifiche e tecnologiche sulle abitudini e sulla vita singolare e collettiva delle persone, indagati a partire dagli anni Novanta per ampliare garanzie e tutele; la lotta per i diritti fondamentali nell’Unione europea del passaggio di millennio; l’affermazione di un diritto all’esistenza nel quadro di nuova idea di solidarietà, negli attuali, insicuri anni Dieci. In questi scritti Stefano Rodotà rimane un pensatore del futuro, seppure ben piantato nel tempo in cui studia, scrive, interviene, prende la parola, agisce.

Rete, bioetica e tecnopolitica verso il nuovo millennio
Venticinque anni fa, il capitolo conclusivo del suo Repertorio di fine secolo (Laterza, 1992) finisce con l’indagare il «mondo nuovo» che si afferma tra «costruzione della sfera privata» e «metamorfosi della privacy in una società aperta» (già indagata vent’anni prima in Elaboratori elettronici e controllo sociale, Quaderni IRSTA, 2, Il Mulino, 1973), quindi interrogando le «frontiere della vita» nel procreare e nel morire e la «democrazia elettronica» come occasione per cittadini consapevoli della difficile «resa democratica» dell’innovazione tecnologica. Il tutto con l’intenzione di favorire una sempre maggiore diffusione della conoscenza e responsabilità individuale, connessa a una socializzazione del benessere, tra universalismo e diversità. È una visione ecosistemica, di nuova ecologia politica, che con Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione (Laterza, 1997), interroga i mutamenti tra citizen (il cittadino che porta con sé l’ombra, il peccato originale, nazionalista e patriarcale), denizen (la persona residente che rischia di rimanere priva di diritti, intorno alla quale bisognerebbe invece pensare l’articolazione dei diritti fondamentali di vecchia e nuova generazione) e la condizione di netizen «che distende l’essere cittadino nell’infinita dimensione del net, della rete, quasi che lì soltanto sia possibile attingere alla pienezza democratica». E pensare tutto questo oggi, dentro la Silicon Valley globale dei monopolisti della rete e delle piattaforme digitali.

Questo libro è di una ricchezza irriducibile e di piena attualità, capace già vent’anni fa di porsi all’altezza della sfida sociale, tecnologica, giuridica e politica che tuttora stiamo vivendo. Basti pensare alle amare considerazioni sul rischio plebiscitario, oltre che populistico, di una democrazia elettronica che può diventare manipolazione dell’opinione pubblica, «democrazia delle emozioni», «sondocrazia» e living room democracy, «democrazia del tinello», in cui l’apparente disintermediazione digitale si trasforma in una «eclissi della democrazia pluralistica», polarizzata nella semplificazione strumentale del sì e del no, «cancellando in modo autoritario (o almeno arbitrario) alternative che pure sono realisticamente proponibili». Con un vertice «irresponsabile», del «capo» che impone il plebiscito alla atomistica e totalitaria base acclamante, in una pratica di galvanizzazione delle masse che distorce qualsiasi idea di democrazia.

Eppure entusiasmanti sono le pagine dove Rodotà insiste sugli spazi di una sperimentazione locale delle «città digitali», di «comune elettronico», di libertà, riservatezza e statuti proprietari in Internet dinanzi al rischio di «commodification dei dati personali», di necessaria alfabetizzazione digitale che permetta di ridurre il potere delle burocrazie, «liberare i cittadini dalla dipendenza delle burocrazie» innescando processi di «deburocratizzazione senza privatizzazione», articolando gli spazi politici tra locale e post-nazionale. E qui la letteratura di riferimento citata tiene insieme la ferma invocazione di una democrazia critica anti-plebiscitaria de Il «Crucifige!» e la democrazia di Gustavo Zagrebelsky (Einaudi, 1995) con la visione libertaria e garantistica della rete e delle reti di città in chiave di invenzione istituzionale: così ecco Franco Berardi Bifo e Paul Virilio, Manuel Castells e Howard Rheingold, Pierre Levy e i compianti Ulrich Beck e Franco Carlini.

Del resto quelli sono gli anni in cui Rodotà ripensa l’articolazione di una nuova cittadinanza sociale negli spazi pubblici materiali e immateriali, tra città e dimensione continentale intesa come spazio politico adeguato al tempo della globalizzazione. Perché, come ci è capitato di scrivere altrove (Autonomie sociali e locali, Diritto on Line, Treccani) nelle democrazie pluralistiche, ancor più dinnanzi alla progressiva innovazione tecnologica, lo spazio pubblico non è da intendersi come immediatamente statale e neanche solamente una sommatoria di dimensione «private», ma spazio collettivo di inedite esperienze giuridiche e istituzionali in grado di «ridare centralità al legame sociale, mettendo in discussione il modello individualistico, senza però negare le libertà della persona che, anzi, conquistano più efficaci condizioni di espansione e inveramento per il collegamento con i diritti fondamentali» (S. Rodotà, Postfazione. Beni comuni: una strategia globale contro lo human divide, in M.R. Marella, a cura di, Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, ombre corte, 2012).

La lotta in Europa per i diritti, presi sul serio
Tra il dicembre 1999 e l’ottobre 2000 Stefano Rodotà, a quel tempo presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, è stato, in qualità di rappresentante designato dal Governo italiano, uno dei quattro membri italiani della Convenzione europea che redasse la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (gli altri erano Andrea Manzella, Piero Melograni, Elena Paciotti, tutti Autori di Riscrivere i diritti in Europa, Il Mulino, 2001), solennemente adottata a Nizza nel dicembre 2000 (e perciò nota anche come Carta di Nizza). Nel suo intervento in quel libro collettivo, Stefano Rodotà (La Carta come atto politico e documento giuridico) contesta veementemente quelle critiche alla Carta che «hanno trovato accoglienza soprattutto in una parte della sinistra più legata alla tradizione comunista». «Di nuovo corriamo il rischio, a sinistra, di costruire una montagna di obiezioni, che sarà faticosissimo scalare quando scopriremo che la Carta potrà tornare buona di fronte a vere e aggressive pretese di destra». Qui stiamo, ora, quasi venti anni dopo. E Rodotà cita due esempi paradigmatici, ieri, ma ancor più oggi, 2017.

«Perché non valorizzare il fatto che, salvo limitate eccezioni, i diritti della Carta prescindono dalla cittadinanza nazionale e parificano così europei e stranieri, immigrati legali e clandestini? Perché non rafforzare questi aspetti della Carta anche per evitare le possibili ricadute negative di norme come quelle sulle espulsioni e sul diritto di circolazione?» Come non comprendere che l’articolo 34 di quella stessa Carta tiene insieme «lotta all’esclusione sociale ed alla povertà» con «il diritto ad una vita dignitosa» e che proprio grazie a questa previsione, «anche nel difficile contesto europeo di oggi si può, anzi si deve, porre la questione di un reddito minimo come condizione, appunto, della vita dignitosa»? Si trattava di accettare la sfida di una cittadinanza post-nazionale e post-salariale. Sfida del tutto inevasa dalla miope e litigiosa cultura politica e sindacale della vecchia sinistra di lotta e di governo che ha accompagnato il bel Paese in questo ventennio e d’altra parte naturalmente evitata dalle forze nazionaliste, oscuramente reazionarie e qualunquiste, del vecchio conio, «rappresentativo» e «spettacolare», come di quello nuovo, «digitale» e «plebiscitario».

Un reddito universale tra solidarietà e felicità
«Grazie a previsioni come quella contenuta nel già ricordato art. 34 della Carta dei diritti fondamentali, l’Unione europea contribuisce a delineare i caratteri di quel diritto [all’esistenza ndr] aprendo le porte a una «democrazia del reddito universale» (Il diritto di avere diritti, Laterza, 2012), non solo per garantire una nuova idea e pratica di Solidarietà (Laterza, 2014), nella Nouvel âge de la solidarité (Nicolas Duvoux, Seuil, 2012), ma per affermare libertà e dignità, contro ogni sfruttamento e come strumenti di pieno «godimento della vita», alla ricerca di quel «diritto alla felicità» evocato dalla Dichiarazione di indipendenza della Virginia del 1766. L’idea di un costituzionalismo globale, trans-temporale e intergenerazionale che costituzionalizzi la persona nella prossima epoca post-umana, tra robotica, intelligenza artificiale, «neuroscienza e neuroetica».

Ecco ricordata assai parzialmente la poliedrica e radicale sensibilità di Stefano Rodotà per le reali trasformazioni che investono individui e società, avendo cura di analizzarle e situarle nelle vite concrete delle persone, per estendere diritti, tutele, garanzie e doveri di solidarietà rimasti ampiamente sconosciuti alle coevi e attuali «culture politiche» italiane, incapaci di comprendere la portata rivoluzionaria di un pensiero che spiazza i rigidi dogmi ideologici, poiché tiene insieme in modo indissolubile autodeterminazione individuale e solidarietà collettiva, redistribuzione del potere nella rivoluzione digitale, adeguata alfabetizzazione e informazione scientifica, cooperazione sociale e indipendenza, libertà quotidiana e responsabilità verso le generazioni presenti e future, diversità ed eguaglianza, vita degna e orizzonti di felicità, beni comuni e legame sociale. Un pensiero lungo, al futuro, per il nostro XXI secolo e per la curiosità delle nuove generazioni.

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