A Mirafiori si fumava Marijuana

Introduzione alla nuova edizione di «Scrittura e movimento»

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Istubalz, Felix (2020).

La primavera del 1973 fu straordinaria. Nel mese di marzo ero a Torino, ospite di una coppia di giovani operai di Mirafiori, Cicci e Salvatore. Cercavo un alloggio, a quell’epoca non c’era airbnb, e non avevo soldi da spendere. Perciò chiesi a Marione Dalmaviva, che dirigeva la piccola pattuglia dei militanti di Potere operaio della città, se poteva aiutarmi a trovare una sistemazione perché volevo fermarmi in città per mescolarmi con le vicende della lotta dei metalmeccanici che stavano scioperando per ottenere un nuovo contratto di categoria, e migliori condizioni di vita e di salario.

Mario mi presentò questi due ragazzetti che avevano all’incirca la mia età, ventitré anni, forse anche meno. E loro mi diedero le chiavi di un appartamento che si trovava in via Giolitti ed era completamente vuoto. C’era solo un letto, e basta, neppure la carta igienica, neppure una macchinetta da caffè. Ma non avevo bisogno di niente più che un letto, perché durante il giorno avevo molte cose da fare. Cosa avevo da fare? Le solite cose: stampavamo volantini alla sede di Potere operaio, andavamo a porta due di Mirafiori un paio di volte al giorno e passavamo un paio d’ore ogni volta per diffondere i volantini freschi di stampa, e per parlare con gli operai, soprattutto con quelli più giovani, e soprattutto quelli meridionali, che in quella città si sentivano un po’ sperduti, e facilmente accettavano le nostre proposte di venire a una riunione nel caffè vicino alla fabbrica, oppure alla sede di Potere operaio. Poi ritornavo in via Giolitti la sera tardi, e dormivo in quello stanzone imbiancato alla meno peggio. Un giorno chiesi a Cicci e Salvatore che se ne facevano di quella stamberga.

Mi dissero che venivano qui con delle ragazze di tanto in tanto a fumare marijuana. La notizia mi confuse un po’. Avevo sentito parlare di quelle droghe, di quella marijuana che in America pare che se la fumavano tutti. Ma io non la avevo mai vista. Ero un militante abbastanza libertario, ma questa cosa delle droghe mi sembrava sospetta. Negli ambienti comunistoidi che frequentavo le droghe si consideravano come un pericolo strumento della reazione per corrompere l’anima pura dei giovani. Beh adesso esagero, non ero proprio così coglione, ma insomma non pensavo che i militanti potessero addirittura fumare marjuana. Figuriamoci poi se erano operai. Però Salvatore e Cicci si spinsero anche oltre, e, lasciandomi sbigottito, mi dissero che anche all’interno delle officine si fumava marijuana, così poi il lavoro diventava più rilassato e tutti ridevano dei caporeparto e degli ordini che arrivavano giù dalla direzione. Non avevo mai immaginato che gli operai della gloriosa avanguardia fumassero droga durante il lavoro. Questo cambiò la mia visione in modo radicale. Questi ragazzetti che arrivava o nella metropoli industriale da Sorrento e da Gallipoli, da Amantea e da Crotone, avevano ancora negli occhi e nell’anima il sole delle loro spiagge, e l’ozio delle loro serate paesane.

Erano la prima generazione operaia migrante che si era formata culturalmente negli anni successivi al 1968, avevano ricevuto notizia dell’Autunno caldo, erano venuti a Nord per guadagnare un po’ di soldi, non perché li allettasse l’idea di una carriera da metalmeccanici. Nella città della FIAT erano trattati come terroni, i padroni di casa li ammassavano in quattro cinque o sei in una stanza, nei locali li guardavano male, e in fabbrica erano costretti a subire ritmi di sfruttamento sempre più intensi. Ma l’inventiva del proletariato giovanile non si fermava davanti a questi dettagli. Cicci, Salvatore e i loro amici, lavorando il meno possibile, mettevano insieme quelle poche lire che gli permettevano di avere un appartamentino per scopare e farsi le canne. Fu così che cominciai a capire delle cose importanti sulla classe operaia, che non avevo letto sui libri del marxismo ufficiale.

Alla fine del mese le trattative tra il padrone e il sindacato giunsero alla conclusione, e alla fine il sindacato firmò una specie di accordo che agli operai non andava affatto bene. Ci furono assemblee autonome di reparto e alla fine gli operai decisero di respingere l’accordo. Noi di Potere operaio, e i nostri cugini di Lotta continua, stazionavamo tutto il giorno dalle parti della fabbrica per incitare, sobillare, argomentare, cavilllare…

Il 30 marzo mi trovai lì davanti a Mirafiori proprio mentre un enorme corteo di operai stava uscendo dalla porta due, e c’era fra loro il mio amico e ospite Salvatore, che vedendomi disse: dai vieni dentro con noi, e allora entrai con lui nelle officine Mirafiori in quel luogo che in quegli anni per tutti noi era il centro del mondo, e gli operai attaccavano dei pezzi di carta gommata sui clacson e cinquemila macchine suonavano tutte insieme in un immenso cacofonico concerto. Si mettevano dei cordini rossi intorno alle tempie e battevano con una mazza sui bidoni dell’olio, trasformati in tamburi ribelli. Fu così che cominciai a pensare che la classe operaia non sarebbe mai andata in paradiso e la sola cosa da fare era prendersi il paradiso finché siamo qui.

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Questo testo è un estratto dall’Introduzione alla nuova edizione di «Scrittura e movimento» (ombre corte, 2021)

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