Anarcafemminismo
Il femminismo come critica dell’ordine sociale
Il nuovo libro di Chiara Bottici «Nessuna sottomissione. Il femminismo come critica dell’ordine sociale», traduzione di Federico Zappino, è stato appena pubblicato da Laterza. Qui ne proponiamo in lettura un estratto, ringraziando l’autrice, il traduttore e l’editore per la disponibilità.
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Una qualunque analisi critica dell’oppressione delle donne necessita di prendere in considerazione una molteplicità di fattori, ciascuno con i propri vettori, senza tentare di ridurli a una fonte onnicomprensiva, o a un archē – che si tratti dell’estrazione di surplus di valore nel luogo di lavoro o del lavoro gratuito all’interno della casa. Nell’oppressione delle donne vi è infatti qualcosa di intrinsecamente multiforme e questo spiega perché il connubio fra anarchismo e femminismo non possa che rivelarsi prolifico. Se l’anarchismo non costituisce un manifesto programmatico per il futuro, quanto piuttosto un metodo volto a mettere in discussione ogni archē prestabilito, allora si tratta di uno strumento che può essere combinato felicemente con una forma di femminismo che è attenta alla specifica configurazione dell’oppressione nei diversi contesti e che, al contempo, non perde di vista il fine più ampio di minare alle fondamenta la politica del dominio.
Per quanto non tutte le correnti del femminismo possano essere definite anarchiche, dal momento che non tutte sono antiautoritarie, l’anarchismo, invece, è per definizione femminista. Se l’anarchismo è una filosofia che si oppone a ogni forma di oppressione, ciò significa che deve opporsi anche all’assoggettamento delle donne, a meno di non derogare ai suoi stessi principi. La maggior parte delle correnti dell’anarchismo, come abbiamo visto, esalta la concezione dell’indivisibilità della libertà; questo significa che la libertà non può essere esperita individualmente, ma deve essere ripartita collettivamente in egual misura. Se dunque non posso godere della libertà fino a che chiunque attorno a me non potrà farlo allo stesso modo – fino a che quindi non vivrò in una società libera –, ciò significa che l’assoggettamento delle donne non può essere ridotto a qualcosa che riguarda solo una parte della società: proprio perché la libertà non è una condizione che si vive per conto proprio, una società patriarcale è oppressiva per chiunque, per quanto ciò venga esperito in modi molto diversi. Si tende spesso a dimenticare che il patriarcato non è un problema che riguarda solo le donne. Come scrisse l’anarcafemminista cinese He-Yin Zhen, più di un secolo fa, la liberazione delle donne presuppone una condizione in cui non vi siano più donne sottomesse, né uomini sottomessi – una condizione, cioè, in cui non vi sia più alcuna forma di sottomissione.
Detto in altri termini, l’anarcafemminismo non presuppone che le donne debbano occupare le posizioni di potere di cui godono gli uomini bianchi privilegiati, ma che debbano lottare al fine di sovvertire alla radice la logica dell’oppressione patriarcale, in cui sessismo, razzismo, classismo, statalismo, eterosessismo e altri sistemi di oppressione si rafforzano reciprocamente al fine di perpetuare una politica di dominio. Questo non è mai stato tanto visibile quanto lo è oggigiorno, in un mondo globalizzato in cui forme diverse di oppressione e di sfruttamento esibiscono legami molto stretti con il capitalismo globale.
Dunque, anche se il femminismo non è sempre stato anarchico farebbe comunque bene a diventarlo, dal momento che deve lottare contro ogni forma di dominio. E a questo punto inizia a essere più chiaro anche da una prospettiva metodologica cosa significa sviluppare una filosofia anarcafemminista: significa articolare una concezione del femminismo senza patronimie. In contrasto con altre forme di femminismo, come quelle marxiste o foucaultiane, l’anarcafemminismo costituisce, fin dal termine stesso, un tentativo di sbarazzarsi di ogni patronimia, dal momento che si pone come una critica di ogni gerarchia e di ogni oppressione, a prescindere dalle forme che queste possano assumere, inclusa quella della teorizzazione.
In altre parole, il femminismo non deve mirare alla sola liberazione di poche donne, bensì a quello di tutti i secondi sessi1. Ogni persona «emarginata», infatti, continuerebbe a costituire una minaccia per la libertà. Questo significa che, per le anarcafemministe, la libertà può essere esperita solo in una condizione di eguaglianza: dal momento che la libertà è indivisibile, o esiste per chiunque o non esiste del tutto. Proprio in ragione di ciò, tuttavia, può mai esservi femminismo là dove non si mettano radicalmente in discussione i presupposti eteronormativi e cisnormativi implicitamente sottesi alla concezione della categoria delle donne come corpi eterosessuali e cisgenere? Una filosofia anarcafemminista non deve solo affrontare la questione della liberazione delle donne, ma anche quella della liberazione dalle «donne», cioè da una concezione cis-eteronormativa di questa categoria, la quale finisce spesso per liberare solo alcune di loro, rafforzando al contempo gerarchie che si rivelano oppressive per altri corpi.
La teoria queer è stata fondamentale nell’analizzare quanto l’eteronormatività, col suo binarismo di genere, modelli non soltanto i generi, ma anche «il genere» in sé, come campo di potere2. Suddividendo rigidamente le persone in eterosessuali e omosessuali e veicolando una concezione dell’eterosessualità come norma sociale, l’eteronormatività plasma tanto la vita istituzionale quanto le vite individuali. «Eteronormatività» è un termine creato per indicare fino a che punto l’eterosessualità detti più o meno esplicitamente le regole nella nostra vita quotidiana, creando condotte e identità e inquadrando nei termini di «devianze» tutte quelle situazioni che sfuggono alla sua logica basilare3. Fin dalla sua creazione, nel 1990, il concetto di eteronormatività è stato utilizzato ampiamente per revocare in dubbio l’idea che esistano solo due generi (uomo/donna) che riflettono l’opposizione biologica binaria (maschio/femmina), e che solo l’attrazione sessuale fra i sessi opposti sia naturale e, dunque, socialmente accettabile4. Secondo la teoria queer, l’insieme di questi presupposti non struttura solo gli atti e i comportamenti individuali, ma anche il senso comune, l’organizzazione sociale, le politiche pubbliche e le pratiche istituzionali, riproducendo sistematicamente l’«eterosessismo», ossia l’ideologia per la quale l’«eterosessualità» costituisce l’unica e legittima modalità di espressione dell’eros, della sessualità e dell’affettività.
In ambito filosofico, Judith Butler è fra coloro che hanno maggiormente insistito su quanto l’eteronormatività plasmi persino la nostra concezione del femminismo. La sua opera spartiacque, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, si apre infatti con domande a dir poco scoraggianti: come definire il femminismo senza dare per scontata l’esistenza di un soggetto stabile e prestabilito? Perché mai le donne dovrebbero costituire il «soggetto» del femminismo, ossia la causa e l’effetto dello stesso movimento che dovrebbe liberarle? Fino a che punto il femminismo è saldamente intrecciato con la matrice eterosessuale? «Buona parte della teoria femminista», scrive Butler, «si è basata sul presupposto che esistesse un’identità, concepita attraverso la categoria delle donne, che non solo istituisce gli interessi e gli obiettivi femministi all’interno del discorso, ma anche costituisce il soggetto per il quale si cerca una rappresentanza e una rappresentazione politica»5. Vi è un soggetto del femminismo alla base della sua rappresentazione? E se è così, in quale misura questo soggetto è anche assoggettato allo stesso discorso femminista?
Mettendo in discussione il concetto di un’identità prestabilita e insistendo sull’inesistenza di agenti dietro alle azioni, Judith Butler sviluppa l’analitica del potere di Foucault che, come abbiamo visto, è impiegata anche nell’ambito dell’anarchismo poststrutturalista. Se le teorie tradizionali concettualizzano il potere come una forza esercitata fra due soggetti precostituiti – A esercita potere su B se riesce a far fare a B cose che altrimenti non farebbe –, Butler muove una sfida a questa concezione, focalizzandosi innanzitutto sul modo in cui vengono creati i soggetti stessi. Analogamente a quanto già detto in relazione all’anarchismo poststrutturalista, mentre le concezioni tradizionali del potere lo ricollegano primariamente all’operato di determinate istituzioni, come lo stato o l’esercito, Foucault insiste sul fatto che «il potere non è situato solo negli apparati statali e che niente cambierà, nella società, se non si mettono in discussione i meccanismi di potere che funzionano al di fuori, al di sotto e accanto agli apparati di stato, a un livello molto più basso e quotidiano». Si potrebbe dunque dire che mentre le tipologie tradizionali aiutano a comprendere in che modo funzioni l’oppressione intesa come esito di un’influenza che proviene dall’«esterno», la prospettiva foucaultiana insiste invece su meccanismi «interni» ai soggetti stessi ben più profondi, contribuendo così a una teoria della dominazione, più che dell’oppressione. Se il concetto di oppressione ha infatti una connotazione fisica e presuppone l’esistenza di coloro che ne subiscono stabilmente gli effetti, il concetto di dominazione si focalizza invece su quanto siano i soggetti stessi a porlo in essere attraverso le pratiche e le forme interiorizzate di disciplina all’obbedienza.
Anziché focalizzarsi sulla questione dell’identità sessuale, l’analisi di Michel Foucault della «storia della sessualità» tenta di comprendere in che modo la sessualità sia stata creata come campo di potere da parte delle diverse tecnologie delle società contemporanee, quali la medicina, la scienza e le pratiche biopolitiche. Nonostante l’analisi di Foucault sia circoscritta alla storia della sessualità occidentale, e sia quindi profondamente interna ai sistemi di sapere occidentali, ad essa è comunque sotteso un cambio di paradigma cruciale nella concettualizzazione del potere, in quanto offre strumenti molto importanti per analizzare le pratiche disciplinari che si originano nell’ambito dell’epistemologia occidentale, ma che diventano poi egemoniche in tutto il mondo. In particolare, con l’espansione dell’istituzione dello stato moderno dalla sua sede originaria – l’Europa – al resto del mondo, il ricorso degli stati a pratiche biopolitiche volte a impiegare la scienza e la statistica per mappare e disciplinare i soggetti attraverso la loro sessualità diventa un fenomeno mondiale. Non vi è infatti alcuno stato al mondo che non suddivida la sua popolazione in base all’identità di genere (o almeno, quella intesa nei termini binari uomo/donna) e che non tenti di accertarsi che questa identità di genere resti ben attaccata a chiunque per mezzo dei documenti di identità. Accanto agli apparati statali, vi è dunque un intero apparato di saperi secolari volto alla produzione del genere, e un tale apparato include discipline come la medicina, la psicologia e la demografia6.
Spesso si tende a dimenticare che gli stati non avrebbero alcun bisogno specifico di mappare e disciplinare i generi della loro popolazione, e che la vita biologica non abbia sempre rivestito un interesse primario per il potere politico. Prima che emergesse ciò che Foucault ha definito «biopotere», l’obiettivo principale dello stato era quello di disciplinare i corpi per mezzo del potere della spada, cioè la minaccia della coercizione, non certo attraverso apparati governamentali volti a «far vivere» la popolazione7. Sviluppando dunque temi distintamente foucaultiani, Judith Butler insiste su quanto la costruzione della categoria della sessualità come campo di potere sia stata funzionale alla produzione di identità quali quelle omosessuali ed eterosessuali, che infatti non esistevano prima che i sessuologi e gli psichiatri europei iniziassero a studiare la sessualità come campo di ricerca distinto. Attraverso la trasformazione di determinati atti e comportamenti erotici in effetti di una presunta «identità omosessuale», percepita come un’inversione rispetto all’impulso sessuale naturale, si stabilisce dunque l’esistenza di una «matrice eterosessuale» che, attraverso l’operato degli apparati biopolitici, si impone progressivamente come la norma implicita della nostra vita sociale8.
La caratteristica della matrice eterosessuale non è solo di essere imposta dall’esterno, ma anche di essere riprodotta persino da coloro che tentano di liberarsene. Per fare un esempio, il lessico apparentemente liberatorio del coming out, largamente usato nell’ambito delle comunità LGBTQI+, può rafforzare implicitamente la matrice eterosessuale proprio nel confermare l’idea che sia accettabile che i desideri sessuali non conformi al paradigma eterosessuale debbano essere «dichiarati» o, viceversa, possano anche restare chiusi nell’armadio9 («coming out of the closet»). Al contrario, insistere come fa Butler sul fatto che non vi siano agenti dietro alle azioni, o che non vi siano performer prima della performance, significa insistere sul fatto che non vi sia alcun soggetto prima del processo di soggettivazione che trasforma i corpi in soggetti10. Stando così le cose, dunque, la questione non è solo come liberare «la sessualità» o «le donne» da autorità esterne oppressive, ma anche come liberarci della sessualità e della femminilità come ambiti operativi del potere che sono costitutivi della nostra stessa identità: a essere in gioco è un cambio di paradigma importante, dalla politica intesa come insieme di istituzioni esterne a una «politica del noi»11. Il problema, in altre parole, non si riduce alla liberazione del sesso e del genere, ma riguarda la nostra liberazione dal sesso e dal genere come campi operativi del sapere e del potere.
Si consideri, ad esempio, il ruolo svolto dalla medicina e dalle varie forme di expertise, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, nella trasformazione di determinati comportamenti e atti sessuali in specifiche identità. Nel 1930, l’omosessualità era considerata una perversione, ossia una deviazione rispetto all’ordine ritenuto normale della libido e della pulsione sessuale e al suo obiettivo naturale, consistente nell’unione di due corpi di sesso opposto12. Negli anni Sessanta, nonostante si fosse al culmine del movimento di «liberazione sessuale», l’omosessualità era ancora classificata come un «disordine psicosociale» dalla seconda edizione del Manuale statistico-diagnostico dei disturbi mentali (DSM), manuale ufficiale compilato dall’American Psychiatric Association e usato normalmente nell’ambito della ricerca scientifica, nonché da industrie farmaceutiche, compagnie assicurative, studi legali, istituzioni governative oltre che, chiaramente, nell’ambito della psichiatria clinica, in cui veniva consultato quotidianamente nel trattamento dei casi13. Grazie al lavoro svolto dall’attivismo in generale, e in particolare da alcun psicologi e psichiatri gay, la revisione del 1974 del DSM depennò l’omosessualità dalla lista dei «disordini psicosessuali», aggiungendovi, in cambio, la «transessualità» (che fino a quel momento era stata considerata come una delle manifestazioni dell’omosessualità). Pertanto, se l’omosessualità cessò di essere competenza della psichiatria, restando di competenza della psicologia, la transessualità continuò invece a essere trattata come un disordine mentale almeno fino alla quarta edizione del DSM del 1994, quando venne finalmente espunta dall’elenco dei disturbi (forse proprio grazie alla proliferazione di opere prodotte nell’ambito della teoria e dell’attivismo queer nei primi anni Novanta). Eppure, anche la categoria di «transessualismo» sembrerebbe essere stata sostituita da un’altra categoria tuttora in uso, quella di «disforia di genere», che somiglia molto a quella precedente, dal momento che la parola «disforia» allude a un divario patologico fra il genere assegnato alla nascita e il modo in cui lo si percepisce. Così, anziché concepire questo divario come l’effetto di un sistema di genere oppressivo, la scienza preferisce continuare a classificarlo come un «disordine mentale». In quanto «disordine» nell’ambito di un ordine stabilito dalla medicina e dai sistemi statali di genere, la «disforia di genere» – che etimologicamente significa «portare un corpo sbagliato»14– ha finito per svolgere esattamente lo stesso ruolo disciplinare svolto in precedenza dalle categorie di «omosessualità» e «transessualismo»15. Sembra dunque non esservi un modo facile di sfuggire al biopotere del sistema moderno del genere.
Tanto più importanti, alla luce di quanto scritto, diventano allora le esperienze e le performance drag: come sottolinea Judith Butler, nell’imitare una mascolinità e una femminilità per le quali non esiste un originale, queste esperienze e queste performance rivelano la struttura fondamentalmente imitativa del genere16. La performance drag non mira infatti a «vestire i panni» del genere che appartiene a un altro gruppo: questo costituirebbe un atto di appropriazione, al quale sarebbe sottesa l’idea del genere come proprietà legittima di un sesso o dell’altro, sulla base del presupposto binario per cui la mascolinità appartiene agli uomini e la femminilità alle donne. La performance drag, al contrario, rivela che il sesso è costruito tanto quanto il genere o, per usare la felice espressione di Butler, «che il genere è un tipo di imitazione per il quale non c’è alcun originale»17. Attraverso le performance rivelatrici delle drag queen apprendiamo che a essere performativa è la natura di ogni genere. Non si tratta solo del fatto che a essere imitative sono le performance drag, quanto piuttosto che lo sono innanzitutto quelle eteronormate: se le performance delle drag queen messe in scena da film come Paris is Burning sono indicative del fatto che non ci sono performer stabili se non nell’ambito della performance stessa, le forme di imitazione del genere come quella di Beyoncé nel video musicale del brano Crazy in Love, e che costituiscono anch’esse una performance della femminilità, conferiscono invece a quest’ultima l’illusione di corrispondere a un’identità «vera», più profonda, che la precede. Ma il punto è che l’effetto naturalistico dei generi eterosessualizzati è prodotto anch’esso per mezzo di strategie imitative, proprio come tutti gli altri generi: «Ciò che imitano», dice Butler, «è l’ideale fantasmatico di un’identità eterosessuale, il quale è prodotto anch’esso, però, dall’imitazione stessa»18.
Lo specifico contributo della teoria queer consiste nell’aver messo in discussione i limiti delle identità sessuali e di genere, esortandoci anche a resistere al processo di soggettivazione che esse richiedono. Inoltre, ciò che nella teoria queer appare particolarmente «queer» è che sia essa stessa un processo aperto, in divenire, volto a criticare tutte le strutture sociali egemoniche per mezzo delle quali alcuni soggetti sono resi «normali» e «naturali» proprio dalla produzione di altri soggetti come «perversi» o «patologici»19. In quanto tale, la critica queer mira a mettere in discussione tutti i confini e tutti i processi di normalizzazione per mezzo di una naturalizzazione, e non può che restare un processo aperto, che non si limita alle identità sessuali e di genere, ma che guarda anche alle intersezioni con altri processi normativizzanti, come ad esempio i regimi di sapere razziali, di classe e imperialisti. Questo Butler lo sottolinea fin dall’inizio, come dimostrato da quanto scrive in Corpi che contano:
[…] sarà dunque necessario affermare la contingenza del termine [queer]: lasciarlo distruggere da coloro che ne sono esclusi, ma che a buon diritto si aspetterebbero di essere da esso rappresentati; lasciargli assumere dei significati, che non possono essere anticipati ora, da parte di una giovane generazione il cui vocabolario politico potrà proporre tutto un diverso apparato di significati20.
Eppure, a dispetto di questo monito a non trasformare la queerness in un’ennesima identità, la cultura queer ha subito un processo di commercializzazione e di mercificazione che ha reso la queerness stessa niente più che un sinonimo di «identità gay»21. Così, la queerness si è trasformata in una politica del riconoscimento, volta appunto a rivendicare il legittimo riconoscimento di determinate identità (presuntamente queer), nonostante la teoria queer emerse proprio come critica dell’identità. Inoltre, se intesa come identità suscettibile di tutela da parte degli stati occidentali, la presunta identità queer presta spesso il fianco a politiche «omonazionaliste», cioè a forme di patriottismo e di attaccamento a determinati regimi nazionali che possono così celare le proprie politiche imperialiste dietro a forme di pinkwashing, tutelando forme inedite di liberalismo queer. Secondo alcune voci critiche, come ad esempio quella di Jasbir Puar, tutto ciò costituirebbe l’esito di un problema intrinseco nell’assunto di base della teoria queer, secondo il quale si dovrebbe sempre mettere in discussione la propria identità: se tutte le nostre identità devono essere sottoposte costantemente a verifica, ciò significa che alla teoria queer è sottesa l’esistenza «di un impossibile soggetto trascendente, già da sempre cosciente delle forze normativizzanti del potere, già da sempre in grado di sovvertirle, di resistervi, o almeno di trasgredirle»22. In questo senso, sarebbe la teoria queer in sé, e non solo la sua appropriazione da parte di governi imperialisti, a essere intrisa di un immaginario liberale e imperialista, alla base del quale vi sarebbe l’idea di un soggetto trascendente e disincarnato23.
Sebbene l’analisi critica di Puar miri a denunciare l’unione infelice fra una versione queer del liberalismo e l’omonazionalismo – unione che avrebbe costituito un problema ricorrente nella geopolitica degli ultimi trent’anni –, al contempo non rende giustizia alle sfaccettate «cacofonie» della teoria queer, cioè alla molteplicità delle sue voci, le quali dicono spesso cose discordanti fra loro, a riprova della libera proliferazione del pensiero queer. È innegabile che vi siano stati tentativi di trasformare la queerness in un’altra identità suscettibile di riconoscimento statale o in una merce da vendere nei giorni del Pride, ed è anche innegabile che questi tentativi abbiano spesso lavorato al servizio di politiche omonazionaliste. Ma vi sono state anche voci queer che hanno denunciato apertamente queste tendenze, ad esempio rivendicando la queerness in termini di «futurità». Per José Esteban Muñoz, la queerness non è un’identità disponibile, da scegliere fra le altre, nel presente: piuttosto, è qualcosa che ci fa sentire che il presente non è abbastanza, e che in esso ci manca qualcosa. «La queerness», di conseguenza, «non è ancora di questo mondo. La queerness è un’idealità. Detto in altri termini, non siamo mai stat* queer. La queerness non è qualcosa che possiamo toccare; possiamo solo percepirla come la calda illuminazione di un orizzonte intriso di potenzialità»24.
La prospettiva di Muñoz della queerness come futurità, anziché come un’identità reificata e da rivendicare, appare decisamente prossima allo spirito della prospettiva aperta da Butler con la performatività del genere. La queerness è infatti performativa perché non costituisce un’essenza, quanto piuttosto un fare volto all’apertura di un futuro. E nonostante la teoria di Butler abbia dato luogo a una serie di incomprensioni, Butler ha insistito fin dall’inizio sul fatto che alla sua teoria non sia sottesa l’idea che il genere sia un mero ruolo che si può scegliere a proprio piacimento, come se gli esseri umani fossero soggetti trascendenti che scelgono da un menù al ristorante. Come si legge in Imitation and Gender Insubordination, infatti,
non vi è alcun soggetto volitivo che, come un mimo, sceglie a quale genere appartenere oggi. Al contrario, è la stessa possibilità di diventare un soggetto vivibile a richiedere l’esecuzione, già in corso, di un’imitazione del genere […]. Pertanto, il genere non è una performance che un soggetto preesistente sceglie di compiere, ma è esso stesso performativo nella misura in cui costituisce proprio quel soggetto che, apparentemente, sembra performare autonomamente il genere. Lungi dall’essere scelta, la performance è infatti obbligatoria, dal momento che quando viene eseguita al di fuori dei confini delle norme eterosessuali espone a forme di ostracismo, di punizione e di violenza – oltre a dar luogo a un piacere per la trasgressione prodotto proprio da quelle stesse proibizioni25.
A questo punto, dovrebbe essere evidente la potenziale convergenza fra l’anarchismo e la teoria queer: entrambi mirano a una comprensione articolata delle varie forme di dominio, animata da un impegno critico nei suoi riguardi. In questo senso, anche la teoria queer, come l’anarcafemminismo, sembra tenere fermo il monito di Mikhail Bakunin, secondo cui «l’emarginato costituisce la mia minaccia quotidiana»: là dove c’è l’etichettamento di determinate soggettività come «devianti» o «anormali» è in corso un processo di normalizzazione, ed è proprio in seno a quel processo che prospera la politica del dominio, dal momento che essa richiede un’implicita suddivisione gerarchica fra le persone.
Nel mettere in discussione confini e identità, la teoria queer propugna la critica di ogni forma di gerarchia, perché non vi sarebbero gerarchie se non vi fossero innanzitutto confini; in questo senso, lo spirito della teoria queer – se non la sua lettera – è anarcafemminista. Come vedremo più avanti, questo appare particolarmente evidente nel caso dell’ecologia queer. Se è vero che la teoria queer mira a mettere in discussione ogni confine, come non includere, fra questi confini, anche quelli che determinano una categorizzazione del vivente, come i confini fra umano e animale, sociale e naturale, animale e vegetale, e persino fra animato e inanimato? Se spingiamo la teoria queer alle sue logiche estensioni, non possiamo fare a meno di incontrare l’ecologia26. Ma anche se spingiamo alle sue logiche estensioni la prospettiva di Emma Goldman dell’anarchismo, inteso come ciò che insegna l’unità della vita, incontriamo un’ecologia queer, in grado di revocare in dubbio tutti quei confini che, per secoli, hanno separato e disciplinato le forme di vita, partendo proprio dalla gerarchia uomini > donne > schiavi > animali > piante > pietre. Non è forse un caso che anarchici come Kropotkin ed Élisée Reclus fossero geografi: ciò significa che costoro svilupparono ideali anarchici osservando e studiando l’unità della vita in tutte le sue forme. Come sottolineò Emma Goldman – che intitolò la sua rivista «Mother Earth» – l’anarchismo non è «una teoria del futuro da realizzarsi per ispirazione divina», quanto piuttosto «una forza vitale nelle attività della nostra vita»27. È dunque in forza di questa unità nella pluralità che la libertà è indivisibile e che, di conseguenza, non possiamo pensare di contrastare una forma di dominio senza mettere in discussione anche tutte le altre, incluse quelle che ancora non sono state create, ma che costantemente si profilano all’orizzonte, mascherate dall’opposizione fra ciò che è ritenuto normale e ciò che è ritenuto deviante.
Al contempo, com’è possibile continuare a parlare di femminismo in assenza di un riferimento unitario, pur nel quadro di una pluralità in costante trasformazione? Non tutta la teoria queer, d’altronde, è femminista: al suo interno vi sono voci che prendono apertamente le distanze dal femminismo, nella preoccupazione che una concezione naturalizzata della femminilità possa dar luogo a meccanismi escludenti28. D’altro canto, il disimpegno nei riguardi dell’assoggettamento di quei corpi che, qui e ora, subiscono l’oppressione proprio perché sono percepiti come «donne» può facilmente condurre alla triste circostanza che l’allontanamento del queer dal femminismo contribuisca all’intensificazione di dinamiche misogine e patriarcali. Tutto ciò solleva un grande interrogativo per un progetto anarcafemminista: come possiamo parlare dell’oppressione delle «donne» senza trasformarle in un altro strumento di dominio?
D’altronde, se è vero che anche nell’ambito della teoria queer gli studi trans hanno spesso assunto la posizione di fanalino di coda, dal momento che la prima ha privilegiato il tema dell’orientamento sessuale come modo principale per discostarsi dall’eteronormatività, relegando l’esperienza transgender semplicemente a una delle tante forme che può assumere l’identità sessuale, come possiamo formulare una definizione della femminilità che sia al contempo queer e trans-inclusiva? Mettendo l’accento sulla possibilità di incarnazioni atipiche del genere, come sottolinea Susan Stryker, la questione trans è una questione di genere, non di orientamento sessuale, e quindi non semplicemente l’ennesima lettera da aggiungere all’acronimo LGBTQI+29. Dunque, come possiamo tenere in considerazione questa critica per definire una concezione della femminilità che tenga le debite distanze tanto dall’eteronormatività quanto dalla cisnormatività – ossia da quella concezione secondo cui i corpi cisgenere sarebbero normali e i corpi trans, invece, corpi devianti? Come possiamo parlare di individualità senza trasformarle automaticamente in identità o, ancora peggio, in gerarchie? Se è vero, come dice Judith Butler, che il genere è un’imitazione per la quale non c’è un originale, che ne è, al contempo, dell’originale individualità creata da ogni singola performance di genere, e come possiamo parlare di una «femminilità» che tenga conto di ciascuna di esse?
Note
↩1 | Non a caso, Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser hanno chiamato il loro manifesto Femminismo per il 99% (trad. it. di Alberto Prunetti, Laterza 2019), rievocando il popolare slogan del movimento Occupy Wall Street: Siamo il 99%. Le autrici si rifanno a questo slogan per marcare la propria distanza dal femminismo liberale; l’anarcafemmismo, tuttavia, mira alla liberazione del cento per cento. |
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↩2 | Per un’analisi del contributo della teoria queer agli studi di genere, cfr. David Eng, Judith (ora Jack) Halberstam, José E. Muñoz, What’s Queer About Queer Studies Now?, in «Social Text», vol. 23, n. 3-4, 2005, pp. 1-17; Michael Warner, Queer And Then? The End Of Queer Theory, in «The Chronicle for Higher Education», 2012. |
↩3 | Il termine «eteronormatività» è stato coniato da Michael Warner (cfr. Introduction: Fear of a Queer Planet, in «Social Text», n. 29, 1991, pp. 3-17), finendo col sostituire la fortunata espressione di Adrienne Rich, «eterosessualità obbligatoria» (cfr. Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica, 1980, trad. it. di Maria Luisa Moretti, in «Nuova DWF», n. 23-24, 1985, pp. 5-40). |
↩4 | Panteà Farvid, Heterosexuality, in Christina Richards, Meg John Barker (a cura di), The Palgrave Book of the Psychology of Sexuality and Gender, Palgrave Macmillan 2015, p. 98. |
↩5 | Judith Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità (1990), trad. it. di Sergia Adamo, Laterza 2013, p. 2. |
↩6 | È questo che induce Michel Foucault a coniare la nozione di «biopolitica» nell’ambito delle sue ricerche sulla storia della sessualità. Cfr., in particolare, Id., Storia della sessualità. Vol. 1: La volontà di sapere, trad. it. di Pasquale Pasquino e Giovanna Procacci, Feltrinelli 1976. |
↩7 | Secondo Foucault, mentre la sovranità classica consiste in un potere finalizzato al controllo della vita per mezzo della possibile minaccia di morte, la nuova forma di potere che emerge nella metà del XIX secolo è quella di un potere volto a sorreggere e preservare la vita. Come scrive Foucault, mentre il potere sovrano – simbolizzato dalla spada – è essenzialmente un potere che consiste nel dare la morte, il nuovo biopotere si manifesta invece come «potere di far vivere e lasciar morire» (Id., Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France 1975-1976, a cura di Maurizio Bertani e Alessandro Fontana, Feltrinelli, Milano 2020, p. 213). |
↩8 | Judith Butler, Questione di genere, cit., pp. 52-114. |
↩9 | Judith Butler, Imitation and Gender Insubordination, in David M. Halperin, Michele Aina Barale (a cura di), The Lesbian and Gay Studies, Routledge, New York 1993, p. 309. Per una discussione critica delle «epistemologie del closet», cfr. Eve Kosofsky Sedgwick, Stanze private. Epistemologia e politica della sessualità (1990), a cura di Federico Zappino, Carocci 2011, in particolare cap. 1. |
↩10 | Judith Butler, Imitation and Gender Insubordination, cit., p. 315. |
↩11 | Amy Allen, The Politics of Our Selves: Power, Autonomy, and Gender in Contemporary Critical Theory, Columbia University Press 2008. |
↩12 | Per una storia dell’eterosessualità come istituzione e delle sue origini nell’ambito della ricerca sessuologica e psichiatrica europea, cfr. Panteà Farvid, Heterosexuality, cit. |
↩13 | Stephen Thomas Whittle, Gender Fucking or Fucking Gender?, in Iain Morland, Dino Willo (a cura di), Queer Theory, Palgrave 2005, p. 116. |
↩14 | La parola «disforia» costituisce la fusione di due parole del greco antico: «dys», che significa «cattivo, sbagliato» (come nel termine «distopia») e «phoria», che deriva dal verbo phero, che significa invece «trasportare, portare». In quanto tale, è stata oggetto di una riappropriazione sovversiva da parte di alcuni settori dell’attivismo trans, alla quale hanno opposto l’espressione «eu-foria di genere», per indicare una condizione futura in cui chiunque possa sentirsi «felice» («eu») del proprio genere. |
↩15 | Stephen Thomas Whittle, Gender Fucking or Fucking Gender?, cit., p. 117. |
↩16 | Judith Butler, Questione di genere, cit., p. 182 e ss. Si veda inoltre Id., Corpi che contano. Sui limiti discorsivi del «sesso» (1993), trad. it. di Simona Capelli, Feltrinelli 1996. |
↩17 | Judith Butler, Imitation and Gender Insubordination, cit., p. 313. |
↩18 | Ibid. |
↩19 | David Eng, Judith (ora Jack) Halberstam, José E. Muñoz, What’s Queer About Queer Studies Now?, cit., p. 3. |
↩20 | Judith Butler, Corpi che contano, cit., p. 172. |
↩21 | Michael Warner, Queer And Then? The End Of Queer Theory, cit. |
↩22 | Jasbir Puar, Terrorist Assemblages: Homonationalism in Queer Times, Duke University Press 2007, p. 24. |
↩23 | Ivi, p. 206. |
↩24 | José E. Muñoz, Cruising Utopia: The Then and There of Queer Futurity, New York University Press 2009, p. 8. |
↩25 | Judith Butler, Imitation and Gender Insubordination, cit. |
↩26 | Timothy Morton, Queer Ecology, in «PMLA», vol. 125, n. 2, 2010, pp. 273-282. |
↩27 | Emma Goldman, Femminismo e anarchia, trad. it di Isabel Farah e Sara Gargiulo, BFS Edizioni 2009, p. 44. |
↩28 | Un tentativo recente di tenere insieme teoria femminista e teoria queer per mezzo di un approccio realmente intersezionale e transnazionale è costituito dall’antologia curata da L. Ayu Saraswati e Barbara L. Shaw, Feminist and Queer Theory: An Intersectional and Transnational Reader, Oxford University Press, Oxford 2020. |
↩29 | Susan Stryker, Transgender Studies: Queer Theory’s Evil Twin, in «Feminist and Queer Theory», vol. 10, n. 2, 2004, p. 71. |
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