Anarcocrazia e democrazia

Un libro di Donatella Di Cesare

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Claire Fontaine, Untitled (2018). Courtesy T293 e l'artista.

Ridotta a una mera somma di procedure, la democrazia è sempre più svuotata della sua carica trasformativa. Oggi essa è poco più che il perimetro istituzionale all’interno del quale il capitale amministra e comprime le soggettività: è proprio questo a spiegare la sensazione di stare in una zona opaca nella quale le «democrazie evolute» tendono a confondersi con il loro opposto, con forme striscianti di controllo delle vite. Da qui emerge tutto un lessico, ormai acquisito anche nel dibattito pubblico, dove insistono termini come «democratura»,«post-democrazia». Naturalmente non mancano, a livello globale, movimenti, pratiche, sperimentazioni che restituiscono alla democrazia slancio e nerbatura. Il problema è forse nella teoria.

Il libro di Donatella Di Cesare, in effetti, è (anche) una critica a quei teorici della «democrazia radicale» che hanno tentato di ripensare l’esplosività di quest’ultima. Democrazia e anarchia. Il potere nella polis, uscito poche settimane fa per Einaudi, dimostra che persino autori come Nancy e Rancière che hanno messo a tema il nesso democrazia-anarchia, non hanno tuttavia chiarito se il rapporto tra i due termini costituisca «una tensione ineluttabile o una convergenza proficua» (p. 15), se, in altri termini, l’infondatezza anarchica della democrazia sia la sciagura che la condanna alla perenne ineffettualità, oppure se questa assenza di principio sia esattamente il punto di forza della democrazia, la sua capacità di rendere impossibile ogni forma di dominio.

Si tratta di un libro importante, punto di arrivo di un lungo percorso di critica all’ordine statocentrico che Di Cesare esplora da molti anni e del quale una tappa importante era stato il volume pubblicato nel 2017 da Bollati Boringhieri Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, ma anche il libro, dal tono più pamphlettistico, Il complotto al potere (Einaudi, 2021). Se in questi casi si trattava di mettere in discussione, rispettivamente, politiche fondate sull’esclusione e l’idea paranoica di una soggettività sovrana dietro la coltre degli eventi, Democrazia e anarchia fa qualcosa in più. Infatti, questa ricerca, davvero notevole, smonta molti luoghi comuni che sorreggono discorsi storici e filosofici anche raffinati.

La tesi di fondo è che «l’anarchia è il profondo rimosso nella storia monumentale della democrazia» (p. 63). La tradizione storica e filosofica ha eretto un monumento al modello ateniese, stabilendo un «inizio» e un paradigma che si sviluppa linearmente lungo la storia. Questa prospettiva, mostra Di Cesare, ha l’effetto di «archiviare» la democrazia (p. 46) in un duplice senso: la vincola a un arché, a un principio, così inserendola in una storia docile, nella quale ogni fenomeno trova il suo posto nei concatenamenti di cause e effetti; e la accantona, la neutralizza.

Decostruire questo monumento e fare riemergere il cuore anarchico – privo di fondamento, e indomabile – della democrazia vuol dire prima di tutto mettere a punto un metodo che consenta questo andare a ritroso verso un momento sorgivo che, però, non è un inizio. L’autrice chiama «anarcheologia» questo rapporto con delle fonti che indicano non un atto di nascita, un atto fondativo, un soggetto costituente, bensì danno forma a delle soglie, delle fratture che, di volta in volta, mostrano la contingenza dell’ordine dato. Così, attraverso uno straordinario lavoro ermeneutico, scopriamo che non è affatto Pericle, come spesso si ripete, l’iniziatore della democrazia: con lui, al contrario, essa si sclerotizza, si fissa in un arché, si fa costituzione che fa del demos il ricettore passivo di politiche somministrate dall’aristocrazia.

Alla ricerca della prima formulazione del lemma «democrazia», Di Cesare la rinviene, in forma di perifrasi, nelle Supplici di Eschilo (463 a.C.): dal mare, dalla soglia della polis, donne che fuggono da violenze familiari chiedono rifugio al re di Atene. Ma si sbagliano: sarà il popolo, il demos, non un basileus, ad accordare loro l’accoglienza. A partire da questo (non)inizio, e attraverso uno straordinario lavoro filologico sulle fonti, filtrato da una forte consapevolezza teorica, l’autrice rinviene qua e là la forza eruttiva con la quale la democrazia non si dispiega e si sviluppa lungo la storia, ma compare, «negli spazi bianchi della storia», con forza eruttiva, radicalmente imprevedibile, infondata. Senza luogo e senza principio, atopica e anarchica, la democrazia non si lascia domare.

Impossibile rendere conto della vastità delle analisi condotte lungo sette capitoli molto densi che interrogano materiali altrettanto eterogenei: dai classici greci alla storiografia, dalla filosofia alla politologia. Sul piano storiografico, fondamentali, in questa inchiesta anarcheologica, sono le tracce lasciate da apripista come Christian Meier, Josiah Ober e, soprattuto, Nicole Loraux. Estremamente accurato il lavoro di ritraduzione dei classici greci. Serrato il confronto con filosofi come Lefort, Abensour, Castoriadis, Rancière. L’impostazione teorica di fondo, infine, deve molto a Benjamin e Arendt (quest’ultima molto presente anche in termini bibliografici). Vorrei dunque limitarmi a proporre una lettura critica di questo importante libro, limitandomi a un solo punto.

Non c’è dubbio che la democrazia vada pensata in termini non consensuali, ma conflittuali. Al cuore di essa, come scrive approfonditamente Di Cesare, è la stasis, la mera prova di forza che non risponde ad alcun arché, a nessun principio. In questo senso si può affermare che la politica tout court coincide con la democrazia: c’è politica quando il potere non è più legittimato, quando è innescata la questione «chi comanda e a che titolo?». La politica, allora, è anarchica perché la sua prestazione fondamentale consiste nel revocare qualsiasi legittimazione del potere. Essa interrompe ciò che è dato per naturale e, come tale, fuori discussione.

Tuttavia questa enfasi posta sul conflitto se ha il merito di scuotere l’immagine consensuale e neutralizzata della democrazia, rischia, proprio nello sforzo di enfatizzarne l’elemento selvaggio e «dionisiaco» (p. 63), di proporne una nozione tuttavia formale. Di Cesare, infatti, descrive la stasis, la frattura inoriginaria che mostra la contingenza di ogni ordine, come un evento che «si produce da sé, senza il nome d’agente, un evento che si dà, che accade» (p. 215). In questa ottica la democrazia consiste, per dirla con un lessico che rubo a Badiou, nella fedeltà a quell’evento: si tratta di non ricoprire la falla, di non instaurare alcun arché, alcun potere che dissimuli quel fondo mancante, bensì di «deporre il potere al centro» (p. 157, 229). Quello di «centro» è un concetto al quale l’autrice dedica molte pagine: non è il punto medio aristotelico, è, invece, un punto di equidistanza. Democrazia è: che tutti sono ugualmente distanti da un potere che è deposto. A nessuno spetta il comando, nessuno deve essere comandato. Ma questo darsi anonimo – e perfettamente simmetrico – della contingenza, non è a sua volta naturale? La democrazia, pensata come pura fedeltà alla contingenza, passività di fronte a un dato ontologico che va preso per quello che è, non torna a essere una naturalizzazione della coesistenza?

So di forzare moltissimo un discorso che fa del taglio dei ceppi naturali, biologici, identitari, etnici, il suo fulcro. Tuttavia, mi chiedo se non sia possibile pensare la democrazia non come destituzione ma come disseminazione del potere. In altri termini, nell’evento democratico non si esprime l’assenza del fondamento, bensì il fatto che, parafrasando Anassagora, «tutto è in tutto». La stasis, allora, non è un evento impersonale e anonimo, è la dimostrazione di questo principio di uguaglianza, fatta da coloro che dal «tutto» sono esclusi.

Non c’è bisogno di reintrodurre le nozioni di soggetto, decisione, intenzionalità: è vero, infatti, che spesso gli eventi conflittuali sono del tutto aleatori e producono i loro soggetti. Ma, a mio avviso, se non si tiene conto di questa asimmetria tra gli esclusi e i dominanti il conflitto torna a essere una vicissitudine metastorica, naturale, un evento che colpisce tutti allo stesso modo. La democrazia, invece, c’è nel momento in cui sono gli esclusi che dimostrano la loro uguale capacità rispetto ai dominanti e, nel fare questo, disseminano il potere; perché in questa dimostrazione c’è tutt’altro che abbandono del potere in un punto di equidistanza: c’è riappropriazione del potere che, almeno per un attimo, almeno nel momento del gesto democratico (e a prescindere dagli assetti istituzionali che verranno), si mostra essere sparso ovunque.

A esprimersi nella politica così intesa non è, dunque, l’assenza di principio che minaccia ogni ordine dato, né una conflittualità generica che su tutto incombe. Si esprime, al contrario, il fatto che il mondo è sempre fortemente vertebrato appunto in virtù di quella disseminazione: è l’accentramento, l’alienazione del potere, la sua incorporazione «monumentale», a produrre un vuoto di fondamento che, ex post, è funzionale alla legittimazione del potere stesso.

La democrazia non è anarcocrazia perché in essa non si esprime il vuoto del fondamento, ma il fatto che ogni assetto, anche il più antidemocratico possibile, si «fonda» su una nerbatura di potere, su una capacità che è ovunque disseminata. La politica è un gioco di forze, non è affare di principi, certo. Ma mentre l’anarcocrazia concepisce quella in gioco nella politica come mera forza tellurica, la forza cinetica di corpi che sono costretti a scivolare nel baratro del fondamento che si sottrae, la democrazia considera la forza di corpi che, almeno per un attimo, si sollevano, cavalcano la trama delle forze che sempre intessono il mondo.

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