Andamento lento

Salvaguardare la memoria nell'epoca della spensieratezza

Marta Roberti, Paradise Lust 2018 - Foto di Giorgio Benni ok
Marta Roberti, Paradise Lust 2018 - Foto di Giorgio Benni.

«L’assenza di pensiero è un ospite inquietante che si insinua dappertutto nel mondo d’oggi. Infatti al giorno d’oggi, se si vuole conoscere qualcosa, si prende sempre la via più rapida e più economica e, una volta raggiunto lo scopo, nello stesso istante, altrettanto rapidamente, lo si è già dimenticato. […] Anche quando regna l’assenza di pensiero, però, non possiamo affatto abdicare alla capacità di pensare che costituisce il nostro essere».

Questo passo, risalente al 1959, si trova nelle prime pagine dell’opuscolo Gelassenheit (L’abbandono) scritto da Martin Heidegger. Con l’intuito e la lungimiranza propri del grande filosofo, egli aveva già sessanta anni fa colto un aspetto centrale del riassestamento della società occidentale al termine della Seconda guerra mondiale. Le parole di Heidegger mi paiono tanto più vere oggi se penso a come il mondo del capitalismo sia gradualmente divenuto condizione di possibilità di tale, si potrebbe dire, «spensieratezza». Qui opero una scelta terminologica non casuale, dato che l’espressione di cui il pensatore tedesco fa uso nel suo scritto è Gedankenlosigkeit. Questo termine, che in italiano indica una forma di sbadataggine, di sconsideratezza, ha un aggettivo associato: gedankenlos. Il gedankenlos è chi fa le cose senza pensare. Trovo che, precisamente in tal senso, l’occidente capitalista oggi persegua con costanza l’obiettivo di plasmare una società di spensierati. Nel nostro mondo, infatti, lo sviluppo autonomo di pensiero e di (contro)pratiche è costantemente frenato, disincentivato, messo all’angolo.

Il capitalismo cerca di reprimere la sfida, portata avanti da molteplici realtà sociali e politiche (in primis quelle di movimento, ne ho parlato qualche mese fa, su il manifesto, in un articolo di cui sono coautore assieme a Margherita Nocci), a quell’inerzia culturale che di esso è fonte di nutrizione. È necessario pensare un momento a quali siano i fattori di disincentivazione di questa sfida. Anche qui opero una scelta terminologica non casuale: occorre pensare un momento, rallentare l’andatura, prendere del tempo, concentrarsi, limitare la sfera dell’azione. Occorre fermarsi a riflettere. In quest’ottica, ciò che principalmente viene escluso è la velocità. L’orizzonte del pensiero non contempla velocità. L’universo del capitalismo globalizzato, del capitalismo della spensieratezza è a colori invertiti rispetto a questa prospettiva: la velocità è quell’oggettiva forma di comodità che è télos della rivoluzione digitale. Velocità di accesso ai dati, velocità di connessione, velocità di esecuzione delle procedure.

Le nuove declinazioni del capitalismo che oggi emergono – il capitalismo delle piattaforme, il capitalismo della sorveglianza – sono tutte articolazioni del capitalismo della spensieratezza. Si stanno foggiando nuove forme di controllo, il controllo su quella «via più rapida e più economica» che siamo portati a scegliere per raggiungere gli scopi che ci prefiggiamo nei molteplici ambiti della nostra quotidianità, considerata anche nei suoi aspetti più banali. Tuttavia, paghiamo un prezzo altissimo. Heidegger appunto scrive che «una volta raggiunto lo scopo, nello stesso istante, altrettanto rapidamente, lo si è già dimenticato». Stiamo rinunciando alla salvaguardia di quella parte della nostra memoria (individuale prima, collettiva poi) che ci aiuta a comprendere noi stessi nel cartogramma politico in cui, nostro malgrado, siamo collocati. Deleghiamo, affidiamo la nostra memoria sminuendone l’importanza sociale e il valore cognitivo.

Mi viene in mente la notissima distinzione fra memoria-immagine e memoria-abitudine operata da Henri Bergson nel suo capolavoro Materia e memoria (1896). In un certo senso, sarei portato a dire che l’epoca in cui viviamo sia consacrata alla seconda. Nella conduzione ordinaria delle nostre vite, sembriamo prestare molta più attenzione alla conservazione del passato in meccanismi motori che a quella in quadri di pensiero. In teoria, per Bergson, la memoria-abitudine tende idealmente alla ripetizione dell’identico. Infatti, fra i numerosi esempi che possono essere proposti, specie in ambito didattico, vi sono solitamente l’allacciarsi le scarpe, il ritrovare e percorrere la strada di casa, il canticchiare una canzone. Queste sono tutte semplici forme di memoria-abitudine. Ecco emergere, in questo universo di procedure effettive, una grande staticità a cui la realtà si oppone. Nessun ricorso alla memoria-abitudine avviene esattamente nelle medesime condizioni, nessun automatismo che incorporiamo è perfettamente replicabile.

Abbiamo bisogno di una forma di memoria che consenta di ripescare nel passato il materiale utile a correggere l’assetto dell’applicazione degli schemi azionali dell’abitudine. Occorre adattare l’azione alla realtà e alla sua intrinseca molteplicità. Dunque si parla di una memoria che, inibendo per un momento l’azione, favorisca una dimensione di attenzione al ventaglio di possibilità delle nostre azioni. Una memoria che ci faccia fermare a riflettere. Se si riflette non si agisce. Se si agisce non si riflette. Questa è chiamata da Bergson «memoria-immagine».

Ritorniamo a noi. Nei mesi scorsi siamo stati costretti a rimanere a casa. Nella mia prospettiva, e lo dico perché prima del lockdown ero abituato a camminare molto durante il giorno e a frequentare una gran varietà di ambienti diversi, ho cominciato a vedere le giornate non distinguersi più le une dalle altre. Anche la scansione interna ad esse è venuta meno. Ho vissuto molteplici momenti «vuoti» in cui mi sono ritrovato a lavorare molto di più con la memoria rievocativa dato che, come tutti, ero assolutamente impreparato a riconfigurare radicalmente le mie abitudini. Penso che ricordare mi aiuti a vivere. Ricordo e penso situazioni alternative a quella presente. Forse uno dei pochi aspetti positivi di una quarantena è che essa rappresenta il terreno meno favorevole allo sviluppo di Gedankenlosigkeit. La macchina capitalista continua imperterrita nel tentativo di impedire il pensare alternative ad essa. Il gedankenlos non è in grado di pensare alternative.

Il capitalismo si svela continuamente nei suoi meccanismi più subdoli che non vediamo proprio perché sotto ai nostri occhi. Oggi più che mai è necessario esercitare contropotere e occorre farlo su più livelli. Il primo è quello della memoria. Solo così, ricordando, ricordandoci, saremo in grado di pensare l’alternativa. E di agire, finalmente, rifiutando di farci governare dagli algoritmi.

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