Arte o decadenza

Virtù e miserie della creatività generica

WomenofAlgiers
Eugène Delacroix, «Femmes d'Alger dans leur appartement» (1834).

Arriva in questi giorni in libreria il nuovo libro di Gabriele Guercio «Arte o decadenza. Dilettanti professionisti maestri» (Quodlibet, 2025), dedicato a un’analisi critica dell’arte contemporanea e del suo sistema: A cominciare dagli anni Ottanta, il mondo dell’arte sembra vivere all’insegna del business e ammettere tra le proprie fila prevalentemente gli artisti favoriti dal mercato, definiti come «professionisti». L’arte come creazione umana capace di dare forma e vita a quel che prima non c’era ha perso di credibilità. Eppure, una tale perdita è addirittura propizia al tipo di prestazione richiesta all’artista in un contesto dominato dall’affarismo. Si potrebbe ipotizzare, quindi, una vera e propria decadenza? Ripercorrendo le traiettorie dell’arte dal Romanticismo ai nostri giorni, l’autore suggerisce modelli per tentare di riparare il danno. Qui proponiamo un estratto del libro ringraziando l’autore e l’editore per la disponibilità.

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Riconsiderate a distanza, sia l’avanguardia che l’idea moderna di opera d’arte andrebbero forse inscritte in una storia d’insieme fatta di aspirazioni, utopie, fallimenti e cause perse. Nell’acquisire una libertà che le classi borghesi e operaie perdono con l’inserimento nell’ordine sociale, gli artisti otto-novecenteschi si trovano a ricoprire una posizione transitoria. Da una parte, si percepiscono e si lasciano percepire come i simboli non solo dell’emancipazione dai vincoli socioeconomici, ma anche di un’esistenza di spiccato soggettivismo e dedizione all’espressione di sé; dall’altra, però, avvertono nondimeno la necessità di realizzare prodotti abbastanza vendibili per potersi sostenere.

Ma c’è di più. Poiché qui preme comprendere da quali altezze sarebbe iniziata la caduta verso l’attuale condizione dell’arte come business dell’arte, mette anzitutto conto evitare un possibile fraintendimento riguardo all’elemento di criticità nelle vicende otto-novecentesche. Esso non attiene esclusivamente alla graduale normalizzazione degli aspetti eccentrici della vita e dell’opera di un artista, un processo grazie al quale la dismissione di ogni ortodossia professionale è curiosamente sfociata in un altro tipo di professionalismo che, non più necessariamente corrispondente a un atto di fede, ben presto scadrà a mero stereotipo sfruttabile ai fini della spettacolarizzazione delle identità dei praticanti delle arti visive. Un tale progressivo disgregarsi è, semmai, la spia di travisamenti e dinamiche più profonde.

Ad accomunare l’arte moderna e d’avanguardia vi è la peculiare adozione dell’anelito a un lavoro «vivo». In epoca antica e rinascimentale, quell’aspirazione aveva già guidato gli artisti visivi a impegnarsi in una straordinaria messa a punto di posture, affezioni e attitudini dei corpi pensate affinché le immagini apparissero vivificate e producessero effetti vivificanti in chi le osservava. Nell’Ottocento, però, le verità di un lavoro artistico vivo prendono a riguardare tanto le forme apparenti di un dipinto o di una scultura quanto la vita delle forme intese in sé e quali realtà psichiche inestricabili dalle concrete agentività di un artista. Si è voluto artisticizzare l’umano e umanizzare l’arte. È in questa chiave che possono leggersi gli appelli a una «art vivant» di Courbet, una rivendicazione che si estenderà fino al Dadaismo e che risuonerà nuovamente in una singolare affermazione di Duchamp, quando, nel 1966, confessa a Pierre Cabanne: «Preferisco vivere, respirare anziché lavorare […] se vuole, la mia arte sarebbe quella di vivere ogni istante, ogni respiro; è un’opera che non si può ascrivere a nessun ambito specifico, non è né visiva né cerebrale. È una specie di euforia costante». D’altro canto, il lavoro vivo è stato prioritario anche nei casi in cui l’arte resta arte – senza sconfinare nell’esistenza né confondersi con l’esserci biologico di un artista – e viene invece perseguita all’insegna di un’estrema autonomizzazione dei mezzi specificamente pittorici. Per esempio, già nel 1834, l’intima inclinazione di Delacroix verso un impiego soggettivo del colore spinge il critico Gustave Planche a elogiare Femmes d’Alger dans leur appartement, riconoscendovi una pittura ridotta alle sue risorse essenziali e spogliata di elementi che possano distrarre gli spettatori più superficiali. In sintesi, il quadro tratta «di pittura e null’altro».

Più di cinquant’anni dopo, nella nota dichiarazione di Maurice Denis secondo cui «un quadro è prima di tutto una superficie piana coperta di colori assemblati in base a un determinato criterio», l’enfasi è posta sì sull’arbitrarietà dei segni rispetto all’oggetto rappresentato, ma il criterio a cui si accenna comporta ammissibilmente un farsi carico delle proprie agentività che conduce il pittore a stimare una materia e dei pigmenti in grado di impregnarsi di significati vivi e di valenze emotive, cognitive e spirituali, al di là di qualsivoglia somiglianza con alcunché di preesistente. E ancora. Il paradigmatico pamphlet L’arte (1913) di Clive Bell propone una teoria incentrata sull’idea che le finalità dell’arte riguardino non la bellezza né un processo imitativo-rappresentativo, ma al contrario la possibilità di riuscire a suscitare un’emozione speciale nonché assente negli altri campi esperienziali. Tale emozione estetica può essere attivata solo a patto che l’opera possegga una «forma significante», ovvero una sua propria combinazione di linee, forme, colori e valori figurativi. Con Bell, privandosi di rimandi naturalistici e trascendendo sé stessa, la forma artistica può generare effetti vivificanti non tanto dissimili da quelli che si provano nel contatto con un altro essere vivente.

Ciascuna a suo modo, le concorrenti istanze di autonomia, sfrenata eteronomia e pervasività dell’arte implicano una dinamica di sottrazione. Le verità portate da suddette polarità appaiono sottratte e indicibili non tanto perché insondabili, come inizialmente predicava o lasciava supporre il credo dei romantici, ma perché difficilmente adattabili a un’interpretazione basata sul gusto e sui discorsi dominanti al momento della loro comparsa. È come se, contro la minaccia di una sua compromissione con lo status quo, si ambisca a riscattare l’attività artistica vuoi attraverso il raggiungimento di una piena coscienza e padronanza dei suoi intrinseci mezzi di produzione, vuoi per via di una trasmigrazione delle energie inventive verso la realtà, dove queste potrebbero concretizzarsi in assenza di mediazioni o modalità espressive precostituite.

Non solo, ma se considerate in simultanea, le due angolazioni rivelano altrettante proprietà contrastanti eppure irriducibili di una medesima cosa: il conseguimento, cioè, da parte degli artisti, di una nuova integrale consapevolezza della facoltà creativa quale risorsa superiore degli esseri umani, poiché dispensatrice di una forza ubiqua capace non solo di reificarsi in entità tangibili – ossia, le opere –, ma anche di disseminarsi e attuarsi superando qualsivoglia limite materiale o linguistico. In entrambi i casi, è portante l’intuizione del carattere non specialistico della natura umana, che potrà tanto articolarsi mediante un lavoro in precedenza intentato – innovativamente specifico, critico e formalizzante –, quanto manifestarsi attraverso comportamenti dedisciplinanti e attestazioni di vita che ribadiscono una pura potenzialità creativa sussistente al di là di una peculiare modalità produttiva.

Infatti, aumenta negli artisti una speciale presa di coscienza che non è individuale e individualistica, né tantomeno impersonale e astratta, ma che attiene a una nuova figura dell’umano: alla scoperta di un «chi» adimensionale, di una soggettività irriducibile alle maglie categoriali di professionista, dilettante o maestro, poiché riguardante un grande agente rivoluzionario intrinseco all’arte e alla creatività. Quest’ultimo anima simultaneamente la sostanza delle forme e il sé sviluppatosi nell’attività senziente di un autore. Si assiste a una reciprocità tra le cosiddette polarità di soggetto e oggetto, in quanto il processo dell’arte procede interpretando e trasformando simultaneamente sia chi lo compie sia la cosa creata: avviene, cioè, mediante l’attiva cooriginazione dell’uno con l’altra. Potendo tanto ispirare e guidare l’esistenza quanto rendere significante la materia, l’intuizione di tale ubiquità del creativo può a sua volta spingere ad autonomizzare l’opera o a cambiare la vita. La succitata insistenza degli autori otto-novecenteschi sui concetti di convinzione, intenzione, decisione ecc. allude quindi a una finalità precisa, quella di scindere l’arte e la creatività dalla datità del dato, conferire loro una dignità formale ed evenemenziale capace di spezzare ogni nesso con un sistema di credenze che minaccia di renderle espropriabili, vuoi come proprietà e merce vuoi come riflessi di un’ortodossia estetica o presunta evoluzione storico-artistica.

Una volta toccato un tale apice di consapevolezza, però, le cose tendono a vacillare. L’ascesa si arresta e ha inizio la caduta. Nel corso del Novecento, le prospettive dischiuse dai due paradigmatici orientamenti di vita come arte e di arte come vita perdono di attendibilità e si opacizzano, grazie anche al contributo di una latente simmetria tra formalismo e antiformalismo, tra modernismo e antimodernismo. L’uno è il Doppelgänger o gemello spettrale dell’altro, anelando entrambi al raggiungimento di una meta ultima – che il primo identifica nell’autotrascendenza della forma e il secondo nell’immanenza della vita –, eppure ciascuno a suo modo produce l’effetto opposto di far precipitare l’arte verso una condizione in cui tutto e il suo contrario sono ugualmente ammissibili. Benché in ambo i casi il traguardo agognato sia l’unità degli opposti, una biunivoca corrispondenza tra creazioni e creature, l’esito è invece una totale de-differenziazione in cui le due polarità vengono deprivate dei propri limiti e qualità specifiche.

E l’impasse è duplice. Infatti, pur ammettendo che una forma realizzata da esseri mortali possa rinnovare il mistero della fede nell’incarnazione della deità immortale, in un certo senso perpetuandolo, e che un’esistenza vissuta creativamente possa rivelarsi di per sé un evento nell’emulare e possedere le stesse proprietà di un’opera d’arte, quali saranno i criteri di giudizio, le metodologie e i cerimoniali idonei al fine di comprendere la natura dell’arte e le sue manifestazioni? È possibile «vedere» i significati attenendosi unicamente alla realtà stanziale di un’opera? E si può vivere la propria vita qualificando e modellando l’esperienza nella medesima guisa dei fenomeni artistici?

Resta indeciso se le domande dissimulino di volta in volta una chimera. Di sicuro, l’assenza di risposte soddisfacenti deprime ogni slancio verso una superiore coscienza delle attività creative e artistiche, producendo uno scenario ormai da tempo consolidato ove un dipinto astratto, un’installazione multimediale, un collage o la performance di un artista possono apparire indeterminati alla stessa stregua. Nonostante le differenti fenomenologie, essi condividono il fatto che né il rapporto di significazione tra sensibile e sovrasensibile, né l’intreccio tra le forme, i contenuti e le cose, siano spiegabili attraverso la disamina del linguaggio utilizzato. Quest’ultimo può infatti risultare sovradeterminato da contenuti estremamente personali e sollecitare a sua volta esegesi soggettive e incontrollate, rischiando che l’eccessiva relativizzazione degli idiomi artistici frustri l’insorgenza e il riconoscimento di verità, significati o valori che siano inestricabili da un’opera o evento definito.

A poco è servito il fatto che, per circa due secoli, la pratica e la teoria dell’arte abbiano ostinatamente messo in risalto l’indissolubilità delle forme dalle agentività individuali e collettive, così da affrancare entrambe da coercizioni sociali, storiche e storico-artistiche e nel contempo valorizzare la creatività quale facoltà genericamente umana. Non si sono ottenuti i risultati desiderati, o in ogni caso la vittoria, se c’è stata, ha retto poco. I motivanti ideali e le verità annunciate dai moderni hanno a mano a mano perso di pregnanza, finendo per alimentare una nebulosa mescolanza di arte e non arte.

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