Cartografie politiche
I luoghi farinelliani di Luca Vitone
Non evidenziamo nulla di nuovo quando parliamo della relazione che lega l’arte alla geografia. Ancora oggi territori sospesi, geopolitica, nomadismo e transitorietà non smettono di essere le fonti di narrazioni intime e personali, oltre che, con il sostegno di documenti e oggetti storici, l’occasione per la presentazione di trasformazioni epocali e complesse. Quando parliamo di questo legame risulta necessario però evidenziare un cambiamento dello sguardo che non si limita più alla superficie, bensì si immerge nel mantello della terra e nei fatti storici che lo investono. Il territorio non è uno spazio atopico, necessita al contrario di analisi e interazione. A tal proposito, un esempio come quello di Luca Vitone (1964), e dell’antologica che il PAC di Milano gli dedica dal 12 ottobre al 3 dicembre, si presta perfettamente a evidenziare un ripensamento nell’approccio geografico e il relativo slittamento che, come direbbe David Harvey, si inserisce nell’ottica di un militant particularism che mantiene vive le specificità dei luoghi. Il seguente approccio cartografico mira a conferire una sfumatura in più alla mostra che ha deciso di lasciare tracce in molteplici sedi milanesi quali il Museo Diocesano e il Museo del Novecento.
Pensiamo alle carte geografiche. Una prima immagine che viene alla mente è un’aula di scuola, una di quelle che il primo giorno vi ha sicuramente accolto con i banchi tutti ordinati in file, pareti tappezzate da disegni di studenti degli anni precedenti insieme a mappe del planisfero, fisiche e politiche. Natura vs cultura. Un confronto, e insieme una scissione micidiale, per un bambino che, per la prima volta, si deve approcciare al mondo che gli sta attorno. Una seconda immagine, invece, si sposta un po’ più in là, a quel momento in cui il maestro di geografia vi assegna, come compito per casa, di ricalcare e copiare la rappresentazione di uno di quegli Stati che si trovano sul vostro libro. Nell’ingenuità di quel gesto, nell’adempiere quel compito, viene da chiedersi cosa molti di voi abbiano provato nell’atto di tracciare quei confini, nel colorare con diversi colori le regioni e nel rendere più intense le sfumature di quel marrone e di quel blu che segnalavano l’altezza o la profondità di acque e monti. Il termine baral, che in ebraico rappresenta il corrispettivo italiano di creazione, ha significato duplice: sezionare e intagliare, coinvolgere mente e mani. Una linea di separazione divide i due gesti che poggiano però su una superficie piana, una tavola, che li ospita, li allontana e insieme li connette. Forse a quell’età non eravamo consci e in grado di riflettere sul valore del nostro gesto, ma oggi possiamo affrontare la questione diversamente:
Rivoluzione è un termine che, significando in origine il moto astronomico di un corpo celeste intorno al suo centro di gravitazione, presuppone prima d’altro, proprio l’esistenza di un orizzonte. E il fatto che esso sia passato in tempi moderni ad indicare il violento cambiamento della struttura politica esistente, della trama sociale della realtà, significa soltanto che con la modernità l’orizzonte si carica anche di un altro valore, che prima non era certo assente ma che adesso diventa preminente: serve a definire la linea d’incontro tra quel che c’è e quel che ancora non c’è, acquista un simbolico valore di prognosi, se non addirittura profetico.
Franco Farinelli, L’invenzione della Terra, Sellerio (2016), pp. 31-32
È così che su questo tavolo, dopo aver ricalcato su un foglio di carta lucida la forma della penisola italiana, la prognosi non rimane più riservata e diviene necessario accingersi a ridisegnarne una cartografia che utilizza come traccia i lavori di Luca Vitone (1964). Abolendo le convenzioni culturali che ogni mappa implica e avvicinandosi in maniera genuina e diretta alla storia, proprio come l’artista genovese nella sua praxis è solito fare, si cancellano i toponimi rendendo la mappa illeggibile, recuperando ciò egli aveva già messo in atto nella serie delle Carte Atopiche realizzate tra l’88 e il ’92. Aristotele diceva che «non esiste cambiamento senza che esista il luogo» e, infatti, i punti che sulla mappa d’Italia Vitone ci invita a tracciare e rileggere con coscienza critica, non sono altro che luoghi in cui un movimento ha determinato piccole storie e, insieme ad esse e con esse, la complessa storia del Bel Paese.
Ma partiamo dal primo pallino che, con evidenza, richiama il suo posto sulla carta: Genova. Partiamo dal luogo che per primo ha contribuito a scolpire l’identità dell’artista. Prima di seguire l’itinerario dell’Ultimo Viaggio (2005) permettiamoci di scendere fino al mare, lungo una di quelle strade strette tra due mura, la Creuza, che nell’installazione realizzata per il Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 2000 rappresenta una miscela di memorie e odori, di un attaccamento alla propria città che persiste nel profondo animo dell’artista. Partendo dal quel porto storico ci ritroviamo nell’immediata adolescenza, l’adolescenza delle vacanze di famiglia dove l’itinerario che da Genova raggiunge il Golfo Persico tratteggia una speranzosa unione tra oriente ed occidente alla quale verrà in seguito chiusa qualsiasi possibilità. Nel paradosso del villaggio globale di McLuhan, la demarcazione di barriere si rende al contrario ogni giorno più netta e, unita all’immobilità dell’aria genovese, genera la necessità di respirare un’aria nuova altrove.
Allontanandoci dalla linea biografica segniamo salendo un po’ più a nord, un nuovo punto sulla nostra appena abbozzata carta lucida: Casale di Monferrato e la tossicità di un materiale che doveva durare per sempre, l’Eternit. Per l’eternità (2013), due capitoli: uno incorporeo, l’altro più intimo. Da un lato una scultura acromatica fatta di un odore, quello del rabarbaro, che implicando il gesto del respirare trasforma, come poi è accaduto, ciò che ci permette di essere in vita in qualcosa che porta ciò che è nocivo dentro di noi. Dall’altro un video, una raccolta tragica di immagini e testimonianze in cui la polvere bianca con le spine dentro attacca i polmoni. Tuttavia, la metafora del declino del Novecento non si conclude qui. La stessa storia del «chi voleva sapere sapeva e sapeva anche che faceva male» ci conduce verso una nuova tappa, un nuovo punto da segnare sulla carta: Bologna. La visione omogenea che fa dell’Italia uno statico souvenir e un’immagine da cartolina come quelle offerte dai Fratelli Alinari, crolla.
Nel trattare temi sensibili, senza accuse e denunce che puntino il dito contro, Vitone cerca di rompere una solidità che deriva da uno sguardo incapace di percepire le sfumature, cerca di sgretolare la saldezza di generazioni che nell’esercizio della visione appaiono troppo distratti da un mondo so fast per curarsi di ciò che è stato. Il prendersi cura è allora un dono che l’artista offre dialogando con lo spazio urbano della città. Souvenir d’Italie (Lumière) (2010-2014), luminarie che con il periodo natalizio hanno davvero poco a che fare, sovrastano il passante con i simboli della loggia massonica P2. L’opera pubblica desta i cittadini dallo stato di convalescenza che quasi da tempo indeterminato li investe, e cerca di essere un monito contro lo sgretolamento ulteriore dello stato sociale, una voce pronta a conferire legittimazione storica agli eventi accaduti. Così, depistando le indagini che avrebbero dovuto rivelare i colpevoli di diversi degli attentati, le gesta della P2 non passano solo per Bologna e la strage del 1980, ma tratteggiano molteplici strade che ci conducono a Roma con il caso Moro e a Milano con Tangentopoli.
Ecco allora due nuovi punti sulla mappa, una mappa che si ricopre di un cielo grigio e tetro nel quale, trasportato dal vento, il mistero riecheggia in un urlo pasoliniano di consapevolezza. Di nuovo vento e polvere, incubatori di un potere che proponendosi come risolutivo, equilibrato e prospero ha fatto si che molti bramassero di appartenergli. Il grigiume dell’atmosfera genera un rimando immediato a quei quattro monocromi che hanno visto per la loro realizzazione l’utilizzo di un materiale solitamente estraneo alla tela, la polvere. Come minaccia rivolta al quadro e al pigmento, in Imperium (2014), essa personifica un desiderio di potere che dall’alto non smette mai di intimidirci e recarci danno. Ma Vitone Vitone sembra aver appreso anche qualcos’altro dalla Germania nella quale vive, un meccanismo che gravitando attorno al concetto di paesaggio permette di staccarsi da una contemplazione carica di vuoti che fanno appello solo alle apparenze: «Diciamo che con gli anni mi sono accorto di essermi dedicato a raccontare il paesaggio italiano mettendo a fuoco alcuni oggetti a margine».
È cosi che sulle ombre di Alexander von Humboldt propone una nuova veduta del paesaggio italiano. Nel residuo che esso offre, esente da punti definiti e logiche cartografiche, Vitone ripristina la forza della marca dell’italianità per eccellenza. E non parlo dell’ordine governativo fondato sulla confusione, ma della prospettiva lineare o fiorentina: il modello, di natura sbagliato, che ci ha fatto credere per secoli che la dimensione degli oggetti dipendesse dalla nostra distanza in confronto ad essi. Se matematicamente parlando non è così, Vitone ci invita comunque ad avvicinarci per vedere meglio, ricordandoci che, come disse André Gide, l’importanza sta nello sguardo rivolto alla cosa guardata. Così, camminando sulla planimetria 1 a 1 della Galleria Pinta a Genova l’artista aveva già creato il punto di vista di vantaggio che il paesaggio ci regala. Camminando sulla duplicazione reale dello spazio ci accorgiamo dell’interferenza ideologica che ci separa dalla Terra, del bisogno di reinventarla e di orientarsi su di essa, della necessità di partire dall’idea di insieme se si vuole avanzare un sistema portante e solido.
Non ci resta quindi che prenderci per mano, danzare vorticosamente nel girotondo farinelliano supportato, al momento della caduta, dalla cartografia di Vitone intonando canzoni popolari. Un Trallalero e un Bella ciao, mentre le bandiere di Nulla da dire solo da essere (2004), nere con bordo rosso come da tradizione anarchica, sventolano e camminano fuori dai confini italiani portando messaggi di diversi pensatori dell’ultimo secolo. «Ognuno per sé / la terra per tutti».
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