Dare corpo alla parola

Intervista ad Anna Oberto di Raffaella Perna

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Anna Oberto, Anautopia per la città ideale, 1973, serigrafia a un colore (blu), scrittura a grafite su cartoncino, cm 70x100

Anna Oberto – La parola «diario» riprende quella che era la scrittura più amata e praticata dalle donne, come la lettera d’amore e il diario intimo nascosto nel cassetto. Nelle mie tavole la scrittura è a mano, la calligrafia per «ridare corpo alla parola».  

Anna Oberto è tra le principali esponenti della ricerca verbo-visiva italiana; nel 1958 fonda con il marito Martino Oberto e con Gabriele Stocchi la rivista sperimentale «Ana Eccetera», di cui cura anche l’aspetto organizzativo e redazionale. La rivista nasce con l’intento di proporre la ricerca di nuovi linguaggi, tra cui l’allora emergente poesia verbo-visiva, attraverso testi critici e teorici e il coinvolgimento di poeti, filosofi e artisti (tra gli altri Ugo Carrega, Luciano Caruso, Felice Accame, Silvio Ceccato, Ezra Pound – al quale è dedicata la prima uscita, il numero 0). Nonostante la diffusione sia inizialmente ristretta, la rivista diventa ben presto nota negli ambienti d’avanguardia in Italia e all’estero.

Cosa ha significato per te questa esperienza e come è stata accolta dall’ambiente culturale e artistico genovese?

L’esperienza di «Ana Eccetera, una rivista di filosofia astratta e linguaggio» è stata fondamentale per la mia formazione artistica e culturale. «Ana Eccetera», prima che rivista, significa Martino Oberto. Martino Oberto/OM è stato il mio maestro, mi ha iniziato all’interesse per la commistione dei linguaggi, artistico, poetico, filmico e video, anche tipo/grafico, inteso come un linguaggio manifestativo totale. È stato un maestro anche per il restauro delle opere d’arte, professione che abbiamo svolto nei più importanti musei d’Italia, che ci ha permesso la totale indipendenza nel lavoro creativo e nella pubblicazione della rivista. Abbiamo subito condiviso l’atteggiamento di libertà, autogestione, controcultura, un «nuovo circolatorio» al di fuori della cultura ufficiale e del mercato dell’arte.

Tramite la rivista siamo entrati in contatto con varie esperienze e personaggi, a livello internazionale, in campo artistico, poetico e filosofico. Con Ezra Pound: per la sua liberazione, unendoci agli intellettuali di tutto il mondo, avevamo girato il film con Gabriele Stocchi A proposito di Ezra Pound (1955), e al suo arrivo a Genova nel 1958 lo avevamo accolto con il n. 0 di «AE», Brani dei Cantos 91-96 tradotti da Enzo Siciliano. Con Isidore Isou, fondatore del Lettrismo, i cui libri OM aveva in originale negli anni Cinquanta. Lo abbiamo incontrato la prima volta a Parigi nell’agosto 1960, pubblicato su «AE» e ne «Il Caffè di Roma». Con Jean Baudrillard, che ha pubblicato testo e immagini della mia performance Ecritures d’amour. Cérémonie pour Adèle H. del 1980 nella rivista «Traverses» del Centre Pompidou di Parigi.

Umberto Eco ci aveva invitato a partecipare con opere a un Almanacco Bompiani e Paolo Fabbri all’Istituto di Semiologia di Urbino, dove incontravamo i filosofi nei seminari estivi. Hubert Damish, docente alla Sorbona, ci aveva coinvolto per una lezione sul restauro della Città Ideale di Urbino. Théodore Koenig, poeta e cofondatore della rivista patafisica «Phantomas» di Bruxelles, dove abbiamo pubblicato l’antologia Poésie Italienne de la nouvelle avant-garde, 1960-’62, da me redatta e tradotta come il volumetto OM Projet d’OM. Omtologie d’un projet nel 1973. Poi Silvio Ceccato, filosofo cibernetico, che abbiamo coinvolto nelle mostre, i pittori Aldo Mondino, Renato Mambor e Valerio Adami, i poeti Luigi Ballerini – della New York University, che presentò la prima mostra storica Italian visual poetry a New York 1973 –, Dick Higgins, Mario Trejo, Julien Blaine. I critici newyorkesi Collins & Milazzo, che mi avevano invitata alla mostra Spiritual America (Buffalo 1986).

Era il tempo della nascita e dello scambio di riviste e mostre autogestite di scrittura visuale, dalla Francia all’Argentina, Spagna, Stati Uniti, Jugoslavia, Giappone. In Italia c’era la continua collaborazione del nostro gruppo di Ana Eccetera, Ugo Carrega, Corrado d’Ottavi, Paolo Barosso, Felice Accame, Nanni Cagnone, Luciano Caruso, con Patrizia Vicinelli, Claudio Parmiggiani, Franco Vaccari, Adriano Spatola, Giulia Niccolai e la rivista Geiger, Stelio M. Martini, Emilio Villa, Mario Diacono e la rivista EX, Arrigo Lora-Totino, Carlo Belloli, Emilio Isgrò, Nanni Balestrini, Ketty La Rocca e la rivista «Tèchne».

L’ambiente culturale e artistico genovese aveva accolto con interesse «Ana Eccetera». Il gruppo della Carabaga ci aveva invitato alla prima mostra organizzata di «poesia visiva» nel 1965, pubblicando due nostri testi teorici nella loro rivista «3 Rosso». L’assessore alla cultura Attilio Sartori mi aveva affidato la cura della mostra dei vent’anni di poesia visuale a Genova, nel gennaio del 1980. Il critico Germano Celant, curatore della rassegna dei vent’anni dell’arte italiana al Museo Beaubourg di Parigi, aveva anticipato la data pubblicando alcune pagine di «Ana Eccetera» (n. 1, 1959) nel catalogo dal titolo Identité italienne. L’Art en Italie depuis 1959. Celant ci disse anche che Joseph Kosuth di Art&Language girava a New York con «Ana Eccetera» in tasca!

Nel 1972 Mirella Bentivoglio cura al Centro Tool di Milano l’Esposizione internazionale operatrici visuali, una tra le prime rassegne di arte al femminile tenutasi in Italia, promossa da Ugo Carrega. In quell’occasione hai pubblicato uno scritto dedicato alla relazione tra arte e femminismo. Qual era la tua posizione? Fu condivisa dalle altre artiste presenti in mostra?

Con Mirella Bentivoglio è stata una lunga avventura, che dal gennaio 1972 al 1978 ha portato la mostra Esposizione internazionale operatrici visuali in molte gallerie d’Italia, fino a Materializzazione del linguaggio alla Biennale di Venezia,  Magazzini del Sale 1978. In seguito alla Columbia University a New York e al Museo di San Paolo in Brasile.

Ugo Carrega del Centro Tool di Milano da tempo pensava di ospitare una mostra di sole donne. Quando nel 1971 Bentivoglio gli propose questa straordinaria raccolta di opere di artiste internazionali, Carrega, che era stato nostro redattore, mi chiese di scrivere il testo di presentazione. Era l’occasione, con il titolo Perché una mostra di sole donne?, per dichiarare il mio atteggiamento, non solo ideologico, contro l’arte come merce di scambio, contro l’emarginazione della donna in cultura, ma anche le mie elaborazioni sul linguaggio al femminile, mettendo in parallelo il movimento politico di liberazione delle donne che iniziava a manifestarsi in quegli anni con la liberazione dal linguaggio codificato al maschile della nuova scrittura visuale, per segnificare la propria identità.

Il testo-cartolina lo inserii, in «Ana Eccetera» n. 10, nel Manifesto femminista anaculturale, insieme al collage Situazione. Giornale dei giornali, realizzato per la mostra. Nel 1975 pubblicai il testo Poesia al femminile, e un’antologia con le immagini delle opere delle artiste e una dichiarazione di poetica di ciascuna, inserendo anche uno scritto di Mirella Bentivoglio, nella rivista «Le Arti» di Milano.

Trasformatosi il centro Tool in galleria Il Mercato del Sale (nome ispirato da Duchamp), ospitò seminari di scrittura al femminile, una mostra del gruppo della Nuova Scrittura con il mio manifesto Nuova scrittura al femminile. Altre due mostre di artiste donne furono organizzate da Marisa Vescovo a Ravenna (1978), con un convegno al quale presentai un mio testo Dai Poteri della parola alla parola al Potere, e a Milano nel 1979. L’interesse suscitato da queste iniziative smentì le paure di ghettizzazione di quelle artiste che si erano rifiutate di partecipare alla prima mostra al Centro Tool gennaio 1972. Infatti non rifiutarono la loro presenza nelle ultime mostre realizzate! Infine, per l’Enciclopedìa Lessico politico delle donne1, su invito di Anne-Marie Sauzeau Boetti, redassi la voce «Poesia Visiva», scrivendo un nuovo testo Segnificare la scrittura. Dalla Parola al Potere ai Poteri della Parola, un percorso all’indietro verso il recupero del linguaggio delle donne.

Nel 1973 la nascita di tuo figlio Eanan segna per te un momento importante, anche sul piano artistico. In questo momento dai avvio alla serie Diario v’ideo-senti/mentale, che in anni recenti è stata più volte posta in relazione con l’opera Post-Partum Document di Mary Kelly. Pensi che ci sia un’affinità?

Nel 2004, una delle bravissime laureande che si sono occupate del mio lavoro, Annalisa Portesi dell’Università Cattolica di Brescia, nella sua tesi dal titolo I temi dell’infanzia nelle opere delle artiste contemporanee, aveva incluso, oltre a Louise Bourgois, Marisa Merz, Giosetta Fioroni e altre, Mary Kelly, della quale avevo notizia per la prima volta. Le possibili affinità? Analizzerei piuttosto le differenze. Il mio lavoro sul bambino, esposto nella mia personale Diario v’ideo-senti/mentale. L’Utopico o la nuova scrittura al femminile. Poesia al futuro al Mercato del Sale di Milano gennaio 1975, lo definivo nel catalogo: «Il diario traccia l’itinerario scrittorio di un rapporto manifestativo madre-figlio nella partecipazione di Eanan a 18 mesi di età, alla scoperta del linguaggio risuonante il suo tape comporta/mentale».

Nelle tavole assemblavo le sue azioni riprese con la polaroid, i suoi disegni, la registrazione su nastro delle sue prime parole, scrivevo a mano le mie analisi concettuali sulla scoperta-conquista da parte del bambino della scrittura, della parola, dei colori dell’ambiente che lo circondava. Il mio interesse era osservare e seguire il processo di apprendimento dei linguaggi da parte del bambino, all’inizio di un unico irripetibile momento della sua esperienza.

Il lavoro di Mary Kelly, Post-Partum Document, protratto per sei anni, leggendo le analisi della Portesi, risulta dal vivere la nascita e il suo rapporto con il figlio come autoanalisi sulla base di teorie freudiane e lacaniane, sulla perdita del bambino e del corpo materno, vissuta come processo di castrazione. Viene lasciato pochissimo respiro allo sguardo emotivo della mamma verso il proprio bambino. Nell’ultima delle sei sezioni, che riguarda la fase più propriamente linguistica, è palese l’influenza delle teorie di Jakobson. Ne deduco che il lavoro della Kelly sia sostanzialmente autoriferito, realizzato, anche visivamente, con un linguaggio della cultura maschile, la macchina da scrivere e la stampa, condotto sulla base di teorie sulla psicologìa femminile elaborate da intellettuali uomini (neppure da Anna Freud!), artisticamente «freddo» come è il «concettuale americano». Il mio lavoro, pur appartenendo al movimento concettuale, è poetico, viene definito dai critici Narrative art.

Ancora una differenza nei titoli. «Documento» è tipicamente del codice culturale maschile. «Diario» riprende quella che era la scrittura più amata e praticata dalle donne, come la lettera d’amore e il diario intimo nascosto nel cassetto. Nelle mie tavole la scrittura è a mano, la calligrafia per «ridare corpo alla parola». Queste le differenze. L’unica affinità è nella contemporaneità della data iniziale, e nella presenza del figlio, ma osservata da posizioni opposte: la gioia vitale vissuta insieme a mio figlio e manifestata nei miei lavori, contro il trauma elaborato dalla Kelly nella relazione madre-figlio.

Dagli anni Settanta la presenza delle donne artiste è aumentata in modo esponenziale. Pensi che la subalternità femminile nell’arte sia un problema superato?

Per quanto riguarda la presenza attualmente delle donne artiste, certamente è molto aumentata, numerose anche le critiche, storiche, curatrici e galleriste. Forse tra i collezionisti ci saranno ancora atteggiamenti negativi, essendo in maggioranza uomini, e anche nella gestione della critica e del mercato dell’arte.

Note

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1vol. 6, Gulliver Ed., 1979

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