Dopo il Novecento

Verso le istituzioni del comune

AngelsWithDirtyFaces
Igor Grubić, Angels with Dirty Faces - dettaglio (2004-2006). Courtesy La Veronica Gallery.

 A chent’annos!

È impossibile in poche righe riuscire a sintetizzare l’importanza di un lavoro teorico-politco che ha attraversato tutta la seconda metà del XX secolo e i primi due decenni del nuovo millennio, facendo di Antonio Negri – oltre che un protagonista della storia italiana contemporanea ‒, uno dei pensatori più influenti nel mondo e uno dei nomi della filosofia italiana che rimarranno nel tempo. Negri è un dispositivo, una macchina del pensiero che ha attraversato le rivolte della classe operaia italiana e internazionale, senza mai arrendersi e senza acquietarsi nelle comodità delle cattedre accademiche pur avendole occupate fin dalla più giovane età. Un «cattivo» maestro, senz’altro – come solo possono essere i maestri (Socrate docet) – che ha insistito sempre su una idea del sapere come arma e pratica collettiva di liberazione, lontanissimo da qualsiasi idea di conoscenza come esercizio del potere e forma di oppressione, o come sterile esercizio accademico (c’è grande differenza?), e che proprio per questo ha conosciuto la galera e l’esilio (titolo del secondo volume della trilogia «Storia di un comunista» che racconta la sua biografia intellettuale e politica). Maestro che dalla teoria del diritto e dello Stato alla filosofia politica, dalla storia del pensiero politico all’ontologia, dall’estetica all’arte contemporanea, dalla letteratura al giornalismo culturale (Negri è anche, forse pochi lo sanno, uno straordinario critico letterario, basterebbe qui ricordare i suoi interventi su Bachtin, Dostoevskij, Barthes e Balestrini, per non citarne che alcuni), dalle fabbriche alla società globale, ha sovvertito le logiche del potere insegnando a tutti noi a leggere Machiavelli, Spinoza, Marx (ma anche Cartesio e Leopardi, passando per la nascita e la fine della modernità e le sue alternative) e a pensare e lottare collettivamente per un mondo concretamente più ricco e più libero. Oggi che compie novant’anni vogliamo festeggiarlo proponendo questa conversazione tra Allegri e il «maestro», realizzata tra Venezia e Roma a cavallo tra il 2009 e il 2010 e pubblicata nel volume, a cura dello stesso Allegri, «Dentro/contro il diritto sovrano. Dallo Stato dei partiti ai movimento della governance» (ombre corte, 2010). Si tratta di una riflessione sull’evoluzione che dalla crisi dello Stato dei partiti ha portato alle forme di governance locale e globale. Auguri compagno professore! E auguri a tutti noi. [NM]

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Allegri: Nel tuo percorso di confronto con le scuole giuridiche, ma soprattutto con i giuspubblicisti più sensibili alle trasformazioni sociali degli anni Sessanta del Novecento, si inserisce la tua formazione teorica di filosofo del diritto e novello costituzionalista. Ma pur sempre un costituzionalista sui generis, per così dire!

Negri: Sono stato un «istituzionalista» di formazione, rispetto a tutte le altre «scuole» del diritto costituzionale e pubblico. Mi ha sempre convinto poco ridurre il diritto al solo momento normativo e mi ha sempre interessato riflettere sugli elementi dell’organizzazione istituzionale e di creazione e di sviluppo delle istituzioni. Resta il fatto che anche l’istituzionalismo classico è una teoria borghese dello Stato. Nel fondamento dell’istituzionalismo non c’è nessuna apertura alla critica dello Stato. L’istituzionalismo che noi frequentiamo è poi quello che, mano a mano, si incarna nel Welfare, nell’État Providence: ancora più organico e pesante dell’istituzionalismo tra Otto e Novecento! In fondo l’unica interpretazione dell’istituzionalismo che va oltre lo Stato è quella cattolica: à la Renard, che insiste sui corpi intermedi, tra la persona e lo Stato (ma quanto ipocritamente!); mentre Léon Duguit e Maurice Hauriou sono istituzionalisti al servizio dello Stato, nell’epoca della prima integrazione delle masse alla politica istituzionale. Questa è la figura dell’istituzionalismo giuridico nella prima parte del Novecento. Per quanto riguarda il costituzionalismo del secondo dopoguerra, quello welfarista (come dicevamo), che ci troviamo dinanzi negli anni Cinquanta/Sessanta, il rapporto è con Ernst Forsthoff, Costantino Mortati, Aldo M. Sandulli, ovvero la costruzione dello Stato amministrativo sociale che abbiamo ereditato; in cui le modificazioni più rilevanti riguardano il terreno biopolitico. L’articolazione globale e totalizzante della funzione statuale sovrana che regola con rigidi meccanismi burocratico-amministrativi le relazioni tra i corpi, la messa a valore delle relazioni sociali di produzione e riproduzione, in definitiva la normazione della vita e della morte.

In questo quadro io avevo comunque la tendenza a considerare come elemento teorico rilevante dell’istituzionalismo una concezione del diritto non formalistica, e nemmeno normativista. Insomma, un’interpretazione del diritto che non aveva nulla a che fare con l’assunzione dello Stato come soggetto esclusivo, che assorbe l’intera struttura sociale. Si badi bene: allora e oggi sono sempre stato convinto che non si possa neppure parlare di comunismo al di fuori delle istituzioni; che anche il comunismo sia un qualcosa di profondamente istituzionale; che la moltitudine sia il contrario della solitudine e il comunismo consista perciò in un insieme di relazioni che si auto-organizzano; in definitiva che il comune è un insieme di relazioni che si danno forme di organizzazione. È evidente che questa convinzione della «necessità» dell’istituzione era ancor più forte nell’analisi del presente. È così che, allora, quando parlavo di istituzionalismo, mi sembrava che, se solo si faceva un piccolo passo in avanti (un passo comunque politicamente enorme) ci si poteva cominciare a chiedere: dove possono risiedere il motore e le garanzie di nuove forme, più o meno sociali, più o meno istituzionali di auto-organizzazione? Questa garanzia può essere il governo sovrano? O invece la garanzia di queste nuove istituzioni sempre in formazione risiede in figure, procedure e meccanismi che si costruiscono nelle relazioni fra gli esseri umani, cioè nello sviluppo continuo di processi aperti e inclusivi di auto-organizzazione, di self-government, oltre e spesso contro la sovranità? E in questo senso il termine Costituzione può andare bene, sempre che si abbia la consapevole capacità di intenderla in modo inedito. C’è una bella differenza tra la Costituzione assorbita nella sovranità e invece processi costituenti continui. Con il sorriso del caso, si potrebbero citare Condorcet o Jefferson, i quali sostenevano che giuridicamente era possibile vivere solo con Costituzioni che distendessero la loro efficacia e la loro validità su un massimo di dieci anni. Costituzioni che possano essere mutate da ogni generazione, per dirla anche con l’inattuata Costituzione del 1793: ogni generazione ha diritto alla sua Costituzione; tanto più oggi. E poi: cos’è più la sovranità, al giorno d’oggi? Questo astratto concetto che risale ai fondamenti della modernità: bisognerebbe davvero riformularlo.

Allegri: Ti fermo un momento Toni: sul qui e ora ci torneremo tra breve! Adesso mi piacerebbe insistere sugli elementi di formazione che ti portano ad affrontare il campo di studio giuspubblicistico con una capacità di innovazione rispetto alla dogmatica giuridica abbastanza inedita per quel periodo. Oltre gli elementi di critica negativa che citavi all’inizio e una rilettura altrettanto critica dell’istituzionalismo, mi sembra ci siano altri fattori che contribuiscono alla ricchezza di analisi che proponi sullo Stato dei partiti.

Negri: Sì, in questo processo di analisi delle contraddizioni e delle innovazioni la teoria critica francofortese era indubbiamente molto utile, ma finiva sempre con l’adattarsi alla struttura delle discipline così come erano già date; noi invece provavamo a indagare il rapporto tra economia e politica nel diritto, azzardando una metodologia interdisciplinare. Quindi il problema diveniva quello del rapporto tra princìpi costituzionali e sviluppo capitalistico, soprattutto nelle tendenze che stavano dispiegandosi con la nuova centralità del capitale collettivo, del capitale sociale, rispetto alle istituzioni codificate dell’individualismo capitalistico. E in quegli anni per me è centrale lo studio e il confronto con Crawford B. Macpherson, e il suo fondamentale lavoro sull’Individualismo possessivo (1962), di cui introdurrò la successiva traduzione italiana1. D’altra parte, un’altra fonte centrale nella mia formazione e di confronto culturale di quegli anni è quel diritto del lavoro, che era stato mio terreno di studio nel saggio su Il lavoro nella Costituzione2. C’è anche da dire che questa è per me una vera e propria fase di sperimentazione di nuove metodologie di analisi critica e ricostruzione sistematica. È un momento anche altamente formativo in cui «accosto» diverse letture e vari elementi di inchiesta: non c’è una chiave metodologica unica. È fuor di dubbio che io tenga insieme un’analisi materialistica dell’attualità, con una particolare attenzione all’evoluzione storica, alla storicità degli istituti e degli ordinamenti: una più o meno consapevole capacità di comparazione diacronica, nella densità dei tempi storici, e di analisi sincronica sulla materialità dei contesti socio-economici; sicuramente un metodo complesso e interdisciplinare che si oppone al formalismo, ovvero al normativismo, delle scuole dominanti la dogmatica giuridica. Sicuramente qui si confrontano gli influssi decisivi dei tre orientamenti metodologici che mi avevano formato: la giuspubblicistica tedesca e italiana (per molti versi tanto simili), la sociologia e la politologia anglosassoni e infine l’esperienza costituente francese, nel passaggio tra IV e V Repubblica. Tutto ciò risulta evidente dall’apparato delle note del mio saggio, dove c’è una evidente attenzione alla suddivisione dei riferimenti nelle diverse aree disciplinari e linguistiche; e quelle note contengono molti più argomenti e problematiche di quante siano poi effettivamente trattate nel corpo del saggio!

Allegri: Ecco siamo a un altro dei passaggi per me personalmente assai interessanti. L’avevi accennato già all’inizio: l’esperienza gaullista tra il 1958 e il 1962 assume un valore particolare per i democratici del tempo, tanto più se si è studiosi di diritto costituzionale. Anche a me è capitato di ragionare su quella transizione costituzionale verso la V Repubblica e la sua capacità di coniugare plebiscitarismo costituente, insieme con funzionalismo tecnocratico3. Nelle pagine del tuo saggio, scritto quasi in presa diretta con gli eventi (de Gaulle utilizza l’ultimo referendum costituente proprio nell’ottobre del 1962) c’è un’immediata percezione del cambiamento profondo dell’esperienza gaullista in Europa, che va oltre la sola lettura del «bonapartiso autoritario»; ma insiste molto sulla crisi dei tradizionali partiti politici di massa, sui limiti del parlamentarismo e l’inevitabile tendenza delle democrazie mature verso una legittimazione populistica. Sull’incorporazione, ovvero «assorbimento dei partiti nell’ordinamento costituzionale», secondo la cd. quarta fase della ricostruzione di Heinrich Triepel nel rapporto tra partiti politici e Stato; ma anche sul necessario decisionismo funzionalista e tecnocratico delle istituzioni del «fordismo maturo», come dicevi prima.

Negri: C’è una situazione molto strana in Europa in quegli anni. Nel mio lavoro si percepisce la consapevolezza che già negli anni Trenta il parlamentarismo classico e quel tipo di rappresentanza partitica erano finiti. Nella mia formazione, passando attraverso l’Historismus il mio lavoro aveva fatto una lunga sosta su Max Weber e la sua critica ai partiti politici; ma poi soprattutto era passato attraverso lo studio di Vilfredo Pareto, Robert Michels, Gaetano Mosca e la nascente scienza politica che assume come centrale la critica ai partiti politici. Mi chiedevo in particolare: perché in Italia e in Germania negli anni Cinquanta e Sessanta, a differenza della Francia, i partiti funzionano ancora? Probabilmente perché avevano una funzione anti-sovietica: bisogna pur sottolineare questi paradossi. Yalta ha avuto un ruolo costituente e costituzionale! La Legge Fondamentale tedesca e la Costituzione italiana (le due Costituzioni sono «nuove», non formalmente. Esse rompono radicalmente con il passato, sono «antifasciste» in senso pieno – il paragone va forse fatto con la Costituzione giapponese piuttosto che con le Costituzioni liberali di un tempo… ma i costituzionalisti italiani sembrano – a differenza dei tedeschi e dei giapponesi – non essersene accorti) – queste Costituzioni funzionano su una base materiale che è data dal contesto internazionale; e poi c’è una materialità interna che è quella del conflitto di classe, come elemento fondamentale del rapporto sociale.

I partiti politici in Italia sono gli strumenti della «guerra fredda»: l’accordo di Yalta diviene un’interferenza esterna che è assolutamente centrale; i partiti politici come sorveglianti dell’ordine sociale e istituzionale, rispetto alla suddivisione del mondo in due blocchi. Per certi versi è l’ultimo sviluppo della lettura sovranista dei partiti di Heinrich Triepel, che parla di incorporazione-integrazione-inquadramento dei partiti nello Stato sovrano. Dopo il riconoscimento c’è il progressivo assoggettamento dei partiti, fino all’assorbimento totale nella funzione sovrana dello Stato. Che differenza fa a questo punto se interviene un’altra (unilaterale o duplice) garanzia internazionalista dell’ordinamento dei partiti?

Allegri: E infatti in quelle pagine del tuo saggio fai esplicito riferimento all’art. 21 della Legge fondamentale tedesca (GG), come esempio del controllo costituzionale sui partiti politici.

Negri: Che di fatto è il simbolo della democrazia sovrana, protetta, «che si difende»; pensato in antagonismo e rifiuto del regime nazista, ma successivamente applicato per mantenere il patto di Yalta e la divisione della Germania, dichiarando fuori dall’ordinamento costituzionale il Partito Comunista della Germania federale, oltre che quello neo-nazista4. C’è ben poco da aggiungere (se non l’indignazione!). Ci sono rapporti di forza che impongono determinate scelte, fondate su valutazioni giuridiche a partire da valori politici – in particolare il contesto internazionale della «guerra fredda». Se ci pensi è quanto sta succedendo rispetto al modo nel quale viene a esempio valutato oggi il sistema istituzionale iraniano tra l’epoca Bush e quella Obama. Ti rendi conto di come da una parte ci fosse la decisione di ritenerlo solo ed esclusivamente come un ordinamento teocratico; mentre l’attuale amministrazione USA si batte perché Mousavi Khameneh possa avere voce dentro il parlamentarismo iraniano! È un esempio di come gli assetti costituzionali vengano spesso definiti attraverso valutazioni di opportunità politica.

La Francia è un’altra cosa: c’è l’indipendenza della République in gioco. Ci si confronta sulla fine del ruolo coloniale francese, che viene vissuta in modo assai pesante, senza il rapporto privilegiato con gli americani che hanno gli inglesi. Nel 1956 Suez rappresenta la fine dell’avventura coloniale, insieme con la perdita dell’Indocina. Poi c’è l’Algeria, che non è solo una questione coloniale: essa porta la guerra in casa. L’Inghilterra reagisce alla decolonizzazione integrandosi definitivamente con l’altro lato dell’Atlantico, sotto il comando statunitense. E questa «postura atlantica» della Gran Bretagna la paghiamo tuttora: basti vedere il suo ruolo negativo, spesso di sabotaggio, rispetto all’integrazione comunitaria europea.

Di contro la Francia vive l’epoca della decolonizzazione come un’avventura interamente sospesa sul vuoto, trovandosi contemporaneamente dinanzi all’incompatibilità delle vecchie formule parlamentari, già in crisi negli anni Trenta, e alle trasformazioni economico-sociali degli anni Sessanta, che comportano il passaggio dalla centralità della mediazione parlamentare a una accresciuta autonomia della società civile rispetto alle istituzioni. Contemporaneamente la Repubblica, fuori ormai da un ambito mercantile-coloniale, deve confrontarsi a un contesto di necessaria centralizzazione e pianificazione economica, potendo fare affidamento solo sull’economia nazionale. Il gaullismo arriva tardi, quando la debolezza etica e politica della borghesia francese si è già affermata. Tardi, perché il nuovo modello gaullista deve essere analogo ai nuovi sistemi economici formati dal keynesismo. Ma l’analogia non toglie la diversità. Nel gaullismo c’è anche un lato reazionario, una certa nostalgia dell’antico. Per esempio, una grande nostalgia dell’oro come unità di misura, contro Bretton-Woods. Rueff, l’economista gaullista di riferimento, formula il ritorno al «tallone d’oro». Quindi il modello gaullista, in termini di politica economica, è: keynesismo più nostalgia del «tallone d’oro». Si badi bene: non si tratta semplicemente di folklore, ma piuttosto di un punto importante di resistenza ai modelli di mercato per lo sviluppo e, probabilmente, anche di una attenzione agli effetti riformatori del «modello renano», che sta montando in auge nell’Europa centrale. Comunque, di fatto, anche nel modello gaullista il consenso passerà non tanto attraverso tematiche populiste, quanto si sosterrà sulla capacità espansiva del fordismo – e cioè sulla capacità di redistribuzione della ricchezza legata a quel modello che si rifiutava. Nei Trenta gloriosi il ritmo della crescita permetteva la redistribuzione della ricchezza; il «referendum di ogni giorno» era quella contrattazione di classe che determinava aumenti salariali e benessere! Elementi che contribuiscono alla trasformazione dei consumi, agli investimenti sul modo di vivere ed alla modernizzazione; il «regime salariale dorato» passa attraverso la pianificazione economica e tecnocratica del capitale collettivo e attraverso la quotidiana lotta di classe.

Per concludere, un’altra osservazione. La modernizzazione pianificata della società francese risale culturalmente agli anni Trenta, nella formazione del giovane de Gaulle, particolarmente influenzata dall’ideologia industrialista e dirigista maturata all’interno dell’esercito. Se ci pensiamo bene, anche negli Stati Uniti, le esperienze di programmazione nascono dalle prassi utilizzate dai generali dell’esercito. Ad esempio il New Deal, le grandi esperienze di pianificazione roosveltiana sono dirette da generali5; anche l’esperienza industriale militare durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale esprime una capacità di gestione razionalizzata tipica dell’organizzazione militare. Questa capacità militarizzata di pianificazione diviene del tutto insufficiente ed inefficiente dinanzi al dispiegarsi del post-fordismo. Questa è la grande crisi che si apre con il 1968/69: una rottura sulla possibilità di regolare in maniera tradizionale, disciplinare, il rapporto tra capitale e lavoro (fondato sul compromesso fordista) quando capitale e lavoro si frammentano e diffondono il conflitto oltre la fabbrica, nell’intera società e, se diventano irrappresentabili per le forme della mediazione sindacale e partitica, tanto più lo saranno per ogni progetto autoritario (industrialista e dirigista).

Quindi: centralità presidenziale e «tallone d’oro». De Gaulle non ha preso parte a Bretton Woods e vuole l’oro! De Gaulle ha imparato dalla crisi degli anni Trenta e dalla consapevolezza che la decolonizzazione impone alla Francia la necessità di produrre ricchezza senza prenderla più dalle colonie. La sua Costituzione afferma quindi un capitalismo tecnocratico, altamente specializzato; essa investe per la prima volta anche sull’energia atomica, come fonte di autonomia energetica e tutela della sovranità territoriale, rifiutando legami militari con l’altra sponda dell’Atlantico. La retorica gaullista sulla sovranità francese, rivendica l’autonomia politica, militare, economica e culturale dagli Stati Uniti, fino a uscire dal comando integrato della NATO (1966). Sovranismo economico e nazionalismo! È il contraltare del processo di industrializzazione di un Paese che sogna la diversità – quanto utopicamente, tuttavia!

Ritorniamo a de Gaulle e alla sua riforma. A me de Gaulle ha sempre dato l’impressione di essere un nipotino di Chateaubriand, che riesce a coinvolgere la società francese con aspettative piuttosto tradizionali, di ordine e nazionalismo, che fanno presa sulla piccola borghesia e trovano consenso anche grazie all’uso dei nuovi strumenti di comunicazione; ma il suo è, e resta, un progetto politico piuttosto antiquato e conservatore. Tant’è che il 1968 francese funzionerà come evento di modernizzazione della società, che l’anno successivo liquiderà de Gaulle votando no all’ennesimo referendum gaullista. Quindi subentrerà la struttura finanziaria del capitale – il successivo Presidente della Repubblica francese, il gaullista Georges Pompidou, è un manager del gruppo Rothschild – in cui la mediazione/pianificazione verrà portata avanti d’accordo con il capitale finanziario ma in una forma diversa dal neo-liberalismo che negli anni Settanta vincerà negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Del resto se nel 1981 Mitterrand prova ad aprire un ciclo classico di modernizzazione socialista con le nazionalizzazioni dei primissimi anni di governo, sarà subito sconfitto. Successivamente quella classe dirigente socialista francese tenterà la scommessa di uno spazio continentale franco-tedesco, quanto più autonomo possibile rispetto all’asse atlantico anglosassone; al punto che la classe dirigente europea degli anni Ottanta e Novanta è prevalentemente francese. Forse bisognerà sviluppare ancora ricerca e chiedersi se il «modello renano» maturi, piuttosto che durante il trentennio fordista, con la crisi di questo, prendendo sostegno dal nuovo elan comunitario.

Allegri: Tornando al periodo in cui scrivi, quelli sono anche gli anni della Milano effervescente, culturalmente e nelle relazioni, del primo boom economico, della bohème di via Brera, di quella Vita agra del Lavoro culturale e della successiva Integrazione che ci ha superbamente narrato un solitario, anarchico, melanconico e vitellone Luciano Bianciardi, cantore delle miserie e delle ricchezze del lavoratore intellettuale nel capitalismo maturo di quella capitale della società culturale che era Milano tra i Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, già «società-fabbrica dello spettacolo diffuso», per detorunare Debord con le nostre analisi?

Negri: Milano in quegli anni è una città molto vitale e anche, al contempo, già cuore di grandi contraddizioni sociali e politiche. Le lotte milanesi diventeranno protagoniste dello sviluppo della lotta di classe in Italia, tanto o forse più di quelle torinesi e venete. Dal 1960 a Milano c’è la Comune di Giairo Daghini, in via Sirtori, che durerà fino agli anni Settanta. Di lì passano tutto il tardo esistenzialismo italiano, la fenomenologia di Enzo Paci e l’ambiente dei giovani filosofi che gli ruotava intorno; si formano i primi gruppi femministi, come quelli intorno a Lia Cigarini; quindi la prima psicanalisi di Elvio Fachinelli; quello è inoltre il milieu in cui si affermano i primi gruppi terzo-mondisti, a fianco delle lotte anticoloniali, a cominciare dalla guerra d’Algeria, intorno a Giovanni Pirelli, e quindi il futuro «circolo Fanon» di Spazzali… Lì una notte ho trovato Neto, leader del Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola (Mpla), che dormiva in una vasca da bagno! Era un clima politico-culturale entusiasmante: di una ricchezza impensabile; ma una ricchezza culturale che non permetteva tuttavia uno spazio di autonomia economica per l’intellettualità in formazione. La Vita agra narra perfettamente l’effervescenza culturale, relazionale, esistenziale che si sperimentava a Milano; ma anche e soprattutto l’aspetto faticoso della prima proletarizzazione dell’intellettuale, nella fabbrica culturale milanese. Erano anni formidabili e tremendi: era la vita agra! Fu un’educazione feroce! Era difficile trovare un soldo: e i soldi te li davano solo se inventavi cose funzionali al mercato. Era ed è il capitalismo, ragazzo!

Quelli sono anche gli anni di avvio dell’azione politica autonoma. Per molti di noi è decisivo il luglio del 1960, quando i camalli genovesi, insieme con i «ragazzi dalle magliette a righe», si oppongono al Congresso dell’MSI a Genova. È il nostro battesimo del fuoco, anche teorico e per quello che riguarda le questioni del diritto.

Allegri: E quelli sono gli anni di accumulo politico, di contatti e relazioni, per quello che avverrà in Italia nel 1968/69. Dal punto di vista istituzionale la Costituzione italiana comincia a essere applicata tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta, sulla spinta delle lotte: dallo Statuto dei lavoratori all’entrata in vigore delle regioni a Statuto ordinario, alla riforma del diritto di famiglia (1975). Nel frattempo le aperture del primo centro-sinistra vanno restringendosi e il nostro sembra un Paese che sottoscrive un patto sociale fordista, con lo sguardo rivolto ai Trenta gloriosi che stanno terminando e assai «fuori fase» rispetto ai nuovi processi economici, culturali, sociali.

Negri: Dicevamo prima che durante la lunga «guerra fredda» i partiti politici italiani sono stati le sentinelle delle istituzioni; abbiamo parlato del «valore costituzionale» dell’accordo di spartizione dell’Europa sottoscritto a Yalta. Al PCI e ai sindacati resterà la funzione di produrre cambiamenti compatibili con l’assetto istituzionale, economico e sociale dello Stato-piano capitalista. Non si può dimenticare che in Italia è sulla spinta dei nuovi movimenti sociali e, in particolare, del 1968 che la Costituzione comincia a essere applicata, con la regionalizzazione, il nuovo diritto del lavoro e il nuovo diritto di famiglia; innovazioni culturali, ancor prima che politiche. E il 1968/69 italiano ha una dimensione operaia e di grande modernizzazione dei costumi. Ma il ceto politico che amministra questa transizione ha un retroterra culturale finalizzato alla sicurezza, alla conservazione delle istituzioni, al mantenimento dello status quo, anche concedendo qualcosa a chi rivendica. Questo, italiano, è un ceto politico già molto diverso – burocratico – rispetto a quello che si era formato con la Resistenza; diverso sia dagli slanci del primo centro-sinistra, così come dalla tecnocrazia europea, rispetto alla quale si rivela decisamente inferiore, sia in termini di specializzazione che di professionalità (non è così per le dirigenze industriali e burocratiche). È una classe politica che manca di progettualità e spera di difendere l’ordine costituito con le vecchie ricette di mediazione sindacale e partitocratica, non capendo che sta cambiando tutto, sotto i loro occhi. Il compromesso storico, la strategia della tensione, l’immobilismo costituzionale saranno il loro viatico fino alla crisi della Prima Repubblica.

Allegri: A questo proposito: è un azzardo ipotizzare che l’infinita transizione di fuoriuscita dalla Prima Repubblica italica è tenuta a battesimo dal 1968/69? Lo scollamento tra le spinte della società-fabbrica e la rappresentanza istituzionale – partitica e sindacale – si realizza tra il 1968/69 e il 1977/78. E gli anni Ottanta saranno una paradigmatica incubazione – culturale, sociale e istituzionale – della seconda metà dei Novanta. Quel che rimane della sinistra ancora non riesce a fare i conti con questi fantasmi, probabilmente?

Negri: Senz’altro la crisi finale della Prima Repubblica si dispiega tra il 1969 e il 1979: tra Corso Traiano e Piazza Fontana da una parte; e dall’altra la morte di Moro e il 7 aprile, come inizio della grande repressione. È quello il decennio che chiude la Prima Repubblica, assai prima di quando i politologi vorrebbero farci credere, posticipandola al 1989-1991/94. In particolare nel luglio 1969 i moti di Corso Traiano rappresentano un definitivo attacco alla capacità di controllo del sindacato. Da Mirafiori a Nichelino, in quella giornata, è tutta Torino che si ribella contro il sindacato. E poi viene la «perdita dell’innocenza» con le bombe di Stato del dicembre successivo. Così si inaugura il lungo ’68 italiano che dura un decennio. E fa saltare il patto costituzionale della Prima Repubblica, che verrà definitivamente ammazzata con l’omicidio di Aldo Moro e la lunga repressione che si origina dal 7 aprile 1979. E allora Aldo Moro ne fu perfettamente cosciente! Direi addirittura che Aldo Moro paga con la vita l’essere consapevole e cosciente della fine di un’epoca politico-costituzionale, quella della conventio ad excludendum del PCI dal Governo e quindi del necessario ripensamento del patto sociale che fondava la «Costituzione materiale» della Prima Repubblica.

È un cortocircuito, perché l’interlocuzione governativa con il PCI, per forzare il patto di Yalta, diviene uno strumento di rottura dell’intero assetto costituzionale italiano – con l’aggravante della chiusura rispetto ai movimenti e alle innovazioni sociali che si dispiegavano a sinistra del PCI. Quel meccanismo di inclusione dei comunisti nel governo generò una crisi ancor più forte delle istituzioni, piuttosto che determinare elementi progressivi. Perciò l’assetto istituzionale diviene ancora più vecchio, non si rinnova nulla: anzi si pretende di rafforzare una struttura istituzionale e categoriale ottocentesca che già funzionava a fatica dentro il «patto di Yalta». Diciamo che in Italia succede l’opposto rispetto al pragmatismo costituente di de Gaulle: lì nuove istituzioni per un keynesismo dorato; qui il solito stiracchiato arrangiamento italiano, che non aggiusta nulla. Si apre il baratro verso il peggio! E approfitta di questa voragine sospesa sul «non più» della Prima Repubblica e il «non ancora» della Seconda la cosiddetta «terza forza» di Bettino Craxi, che opera sulla base di una struttura corrotta sia populista che decisionista. In questo senso gli anni Ottanta rappresentano un’anticipazione dell’oramai ventennio berlusconiano; sia dal punto di vista politico-istituzionale, che dal punto di vista della produzione culturale di massa e di un nuovo immaginario edonista e di corruzione. Allora, con Craxi, questo immaginario sconfisse la retorica dei sacrifici imposta dai democristiani e dai comunisti al governo. E il PCI, che non riesce minimamente a comprendere quello che gli succede intorno, uscirà dall’immobilismo in modo meschino: agitando la «questione morale» come strumento politico. Una inaspettata rivincita della politica di Berlinguer, che in realtà fu anche e soprattutto la sua sconfitta: l’uso strumentale della magistratura come strategia di eliminazione del nemico politico è opera sua.

Trent’anni dopo si potrebbe dire che la parentesi craxiana ha funzionato come spazio di sedimentazione dell’ordinamento socio-culturale, ancor prima che istituzionale, post-1994. Del resto lo stesso Sacconi ha ammesso che il momento in cui i riformisti de ‘noantri hanno preso consapevolezza che l’opposizione sociale e operaia era stata sconfitta e che loro avevano vinto, è stato nel 1984: quando il comitato autonomo operaio al Petrolchimico di Porto Marghera è costretto alla resa. Come a voler sottolineare che il vero antagonista del nuovo ordine che verrà, erano i movimenti autonomi alla sinistra del PCI, che si erano confrontati in modo innovativo con le trasformazioni produttive ed economiche. Noi potremmo dire: quei movimenti sociali che avevano compreso la fine del fordismo e ragionavano sul ruolo dell’operaio sociale, del lavoro diffuso nella società-fabbrica, della messa a valore del capitale collettivo, di un rapporto inedito tra autonomia della forza lavoro e nuove forme di auto-organizzazione ancora da immaginare.

Allegri: Sembra insomma di assistere a una lunga transizione che in qualche modo avevate auspicato, accompagnato e per certi versi favorito già nel corso del decennio Sessanta tra grande immaginazione culturale, immersione nel vivo della società, azione politica autonoma, contro le incrostazioni sindacali e partitiche, in un assetto istituzionale autoreferenziale e condizionato dall’esterno. Quella capacità di indagare criticamente gli assetti di potere e le categorie ideologiche che li sorreggevano diviene anche lo spazio intellettuale e politico di una nuova rivista non a caso chiamata «Critica del diritto». Penso poi soprattutto al «Feltrinelli-Fischer Lexicon» di cui tu curasti il primo volume in evidente polemica con l’edizione tedesca e al «Dizionario critico del Diritto» curato da Cesare Donati, che coinvolse anche studiosi di lingua francese come Michel Miaille, Michel van de Kerchove e François Ost (questi ultimi due belgi, allievi della scuola di Perelman).

Negri: Sì, nella mia esperienza, almeno fino a prima del carcere, il lavoro intellettuale ha significato un continuo scambio con singoli e gruppi di ricercatori, intellettuali, militanti dei movimenti, rappresentanti delle istituzioni, ecc. E poi c’era nell’atmosfera europea, attorno alle trasformazioni sociali sessantottine, un qualcosa di comune. Un fatto che mi ha molto impressionato, ad esempio, è stato quello di scoprire, successivamente, nel corso degli anni Ottanta e Novanta, molti punti in comune con il lavoro svolto da Johannes Agnoli6. Ebbene, lui a Berlino e io a Padova, sembrava che lavorassimo insieme e non ci conoscevamo neppure. Poi, ritrovandoci, comprendemmo come entrambi, dall’interno dei movimenti, avessimo proceduto su una strada somigliante, rompendo in maniera rivoluzionaria con le metodologie francofortesi.

In quegli anni, poi, si andavano formando, nel mio seminario, altri giovani studiosi come Paolo Petta e Luciano Ferrari Bravo, entrambi nell’ambito del diritto costituzionale, che proprio nel decennio turbolento italiano provano a innovare l’analisi tra la sinistra «non ortodossa», come si diceva a quei tempi, e le istituzioni. E sono tuttora formidabili le riflessioni di Luciano sul New Deal roosveltiano, pensate già prima del 19687; così come il lavoro di Paolo Petta sulle Ideologie costituzionali della sinistra italiana (1892-1974).

Quelli sono anche gli anni in cui fondammo la rivista «Critica del diritto», uno spazio di confronto e riflessione assai libero, che metteva assieme studiosi tradizionalmente vicini alle ricostruzioni classiche della sinistra marxista, con altri più inclini a visioni eterodosse, di ripensamento delle categorie politiche e giuridiche; e coinvolgeva professori e ricercatori universitari, insieme con magistrati, pretori, giuslavoristi, ecc. La maggior parte dei quali militavano alla sinistra del PCI e del sindacato, spesso in rottura con quelle rappresentanze.

«Critica del diritto» rappresenta il modo in cui, nel clima sociale dei primi anni Settanta, si producevano effetti (effetti rivoluzionari) anche in chi frequentava l’università o le aule di giustizia. «Critica del diritto» è un laboratorio formatosi fuori dall’accademia, e sviluppatosi sulla spinta delle lotte operaie, sociali, culturali prodotte dal ’68/’69 in poi. Erano gli anni in cui si sperimentava un diritto pretorile, di ricorso alle Corti perché il diritto giurisprudenziale potesse essere più aperto a riconoscere nuovi diritti, rispetto alle norme prodotte dalle leggi dello Stato parlamentare; ma anche per creare uno spazio di garanzia per le lotte autonome dei movimenti, rispetto a partiti e sindacati. C’è quasi la tendenza, per dirla con una battuta, a utilizzare il marxismo per applicarlo alla fabbrica e al diritto che regolava i rapporti di lavoro: rivendicare sentenze che riconoscessero gli spazi dei nuovi diritti contro la vecchia fabbrica. Era un uso creativo, che oggi chiameremmo «costituente», del diritto; non una tecnica e/o dogmatica del diritto, ma una stagione in cui giovani lavoratori e altrettanto giovani pretori e intellettuali si esercitavano in un diritto pretorio, che creava spazi di maggiore autonomia per le lotte nelle fabbriche e nella società. È stata un’esperienza formidabile! Anche se sapevamo che il nostro era un uso del diritto «dall’esterno del sistema». Avevamo cioè la consapevolezza che si potevano assestare dei colpi creativi dentro/contro la strumentazione giurisprudenziale, ma che non avremmo potuto vincere definitivamente su quel piano, perché, giustamente, percepivamo il diritto come una macchina utilizzabile, certo, ma con molta prudenza. Insomma, era un uso spregiudicato dello strumento giuridico, con il disincanto di sapere che non era quello lo spazio dove vincere. La domanda che si celava dietro le nostre azioni era: «fin dove si può spingere la pretesa giuridica?»

Allegri: Eppure quella stagione ha prodotto le culture progressive del giuslavorismo e del garantismo; purtroppo lasciti minoritari e tutto sommato ampiamente ignorati dalla sinistra istituzionale dell’epoca, per tacere di quella che verrà. Al contempo sembrava evidente alle vostre ricostruzioni che la possibilità del cambiamento si dava non difendendo e potenziando il parlamentarismo, la democrazia rappresentativa e i partiti politici; quanto piuttosto comprendendo come le forme di regolazione scartassero la centralità del Parlamento legislatore, per divenire norma quotidiana nei rapporti di forza economico-sociali. Sembravate un bel passo oltre la contraddizione! E già nel tuo saggio del 1964 metti in evidenza che la rappresentanza dei partiti è «troppo statica per la società e troppo dinamica per lo Stato»; dinanzi alla necessità di pianificazione economica i partiti politici sono inadeguati, arretrati, limitati: un «diaframma dannoso». Si avvia un’analisi della crisi dei meccanismi della mediazione rappresentativa, di deperimento della centralità parlamentare e della legge, mentre si configura una mediazione quasi tecnocratica e professionale degli interessi, che se da una parte rinvia all’analisi che ci hai proposto dell’esperienza gaullista, dall’altra sembra anticipare quello che accadrà nel quarantennio successivo della transizione alla governance multilivello.

Negri: Per me oggi è più facile ricostruire una serie di passaggi che mi portano dalla governance dei territori metropolitani alle trasformazioni dell’Impero: per dirlo con una battuta! Allora il quadro era invece più frammentato e si intuiva l’esistenza di un tessuto nuovo che andava componendosi, nella crisi e oltre le categorie e prassi giuridiche della prima modernità. Era insomma una critica che evidenziava contraddizioni ed evocava un richiamo alla lotta di classe come momento dinamico, innovativo ma senza cogliere fino in fondo la specificità costituente che la lotta di classe avrebbe potuto avere sui singoli passaggi, dall’insistenza sul frammento fino alla trasformazione del sistema. In questa storia che stiamo raccontando – soprattutto sul lato giuridico – non c’è certo solo un profilo ottimistico di sperimentazione, nell’attesa del «sol dell’avvenire»; c’è molto più un aspetto tragico, fondato sulla consapevolezza che quelle contraddizioni sarebbero rimaste lì, malgrado tutto: agire solo su di esse non avrebbe permesso né un salto di paradigma, né un cambiamento di regime.

Oggi la questione è forse diversa: non perché sia avvenuta una rivoluzione; piuttosto, perché gli spazi delle contraddizioni sono divenuti talmente numerosi e diffusi che la soglia di rottura si è ulteriormente allargata e concede maggiori spazi di azione; perché il governo sovrano sul terreno nazionale non funziona più da decenni. Quella forma di governo sovrano è minata nel suo fondamento territoriale: per ristabilire un’effettività si affida allora a procedure di governance. Ma anche questo è insufficiente – lo stesso governo locale, esige ormai infatti qualcosa che vada al di là di uno Stato territoriale, qualcosa che sostituisca l’esclusività sovrana che lo Stato-nazione possedeva altrimenti. E quindi le forme di sovranità e di normatività che si producono non rispondono più a criteri di esclusività e di gerarchia; piuttosto troviamo delle procedure di governance che si determinano di volta in volta. Con capacità di innovazione costituente? Può essere immaginata la governance come capacità di creare potenze costituenti? È questa la questione su cui ragionare. Di contro, l’istituzionalismo pensato dentro la sovranità non ha più senso; come del resto non hanno più senso tutte le alternative normativiste e gerarchico-piramidali, tanto nella produzione del diritto, quanto nell’organizzazione dei poteri e nella difesa delle istituzioni. Ciò detto, siamo tuttavia consapevoli che la governance diffusa rappresenta un orizzonte tanto più oscuro quanto meno la sovranità è capace di agire; e essa è assai frammentata: permetterà questo di trovarsi di fronte (quando ci si apra a ipotesi innovative del diritto) a una maggiore capacità di rivendicare autonomia, giustizia, libertà, o a una più limitata espressione di queste? Pur mantenendo un approccio prudente nell’indagare questi meccanismi – perché mai come oggi la prudenza è una virtù epistemologica – si deve studiare la governance come pratica di trasformazione, tra comando tecnocratico, parziale inclusione nei procedimenti giuridici e spazi che si possono attraversare efficacemente da parte dell’autonomia sociale. La governance è divenuta probabilmente il terreno sul quale dobbiamo confrontarci e lottare: è il dispositivo di un nuovo paradigma, che incide positivamente sulla disgregazione del sistema sovrano di produzione del diritto. A ogni modo è una situazione assai difficile, che fa venire in mente l’ordinamento giuridico del Sacro Romano Impero! Certo, ci sono autori (per esempio i post-luhmanniani, come Karl-Heinz Ladeur e Gunther Teubner) che descrivono questo quadro come terreno di intersezioni sulle quali aprire possibilità costituenti. Ma pensare a grandi movimenti rivoluzionari che partano dal diritto è un’impresa faticosa. I movimenti reali non possono imporre nuovi paradigmi e ampie trasformazioni giuridiche se non esprimono una grande e originale potenza autonoma di trasformazione sul livello sociale, dentro le maglie del lavoro sfruttato – piuttosto che dentro la gabbia delle norme giuridiche.

Allegri: A questo proposito chiuderei aprendo una discussione che dovremmo trovare il modo di approfondire ulteriormente. Da una parte mi verrebbe da riprendere provocatoriamente quel tuo superbo volume sul Potere Costituente (1992) e chiederti se è il caso di riproporre l’opposizione tra democrazia assoluta del potere costituente e democrazia limitata del costituzionalismo? O piuttosto, evocando la parabola che ci porta da Empire a Commonwealth, passando per Multitude, se non sia il tempo di pensare e praticare nuovi modi di vivere in comune fuori dal dominio del diritto sovrano e dentro gli spazi della condivisione, dell’autonomia, di una immaginazione costituente quotidiana.

Negri: Alla prima domanda potrei risponderti con una battuta, dicendoti che dobbiamo lasciare sempre aperta la partita: sempre e senza golden gol! Fermo restando quanto detto prima a proposito della necessità di «una Costituzione per decennio». Sulla seconda questione è proprio il percorso che da Empire porta a Commonwealth a parlare in merito. In particolare mi pare che ora si possa tranquillamente affermare una condivisa consapevolezza politica del «comune» – da un lato, uno spazio di appropriazione del «comune» da parte del capitale finanziario e dall’altro uno spazio di crisi, di rottura della capacità capitalistica di misura, di sfruttamento, di ordine, e dunque uno spazio di lotta, di esodo e di libertà per le moltitudini. È lì il conflitto, che da parte della moltitudine verte sulla gestione autonoma del «comune», sulla sua nuova configurazione fisica, corporea, storica; sul come poter immaginare e praticare una strategia di intersezione dei movimenti dentro il «comune», dunque oltre ogni ipotesi di governance funzionalista. Come pensare, sperimentare e praticare nuove istituzioni del comune, fuori dallo Stato e dalla sovranità. Dentro la gioia del vivere in comune, contro la morte e le passioni tristi.

Ma per concludere, lasciami aggiungere un paio di osservazioni, che mi sembrano complementari agli interrogativi da te proposti e che integrano la nostra conversazione a partire dalle tesi svolte in Commonwealth, il terzo volume della serie imperiale di Michael Hardt e mia. La prima osservazione riprende la tendenza all’unificazione giuridica della società che il capitale collettivo opera, adeguando la norma alle regole del controllo sociale. Questa è stata l’ipotesi fondamentale che ha retto la mia analisi sulle questioni giuridiche dal saggio sullo «Stato dei partiti» fino a Empire e oltre. Ora, a fronte di alcune obiezioni che mi sono state rivolte, vorrei precisare che in nessun caso queste tendenze (su nessun terreno e a fortiori nel campo giuridico) portano verso delle identità.

In Commonwealth infatti il tema assolutamente centrale è la polemica contro ogni politica dell’identità e – prima che della politica – di ogni metafisica o ideologia dell’identità, sia essa descritta come un presupposto organico e/o naturale, oppure come un prodotto fusionale e/o storico. Per noi (Michael Hardt e io) – e in Commonwealth insistiamo nella critica – le pulsioni identitarie costituiscono la peste del pensiero e delle pratiche politiche: dal nazionalismo al patriottismo, al razzismo, dall’integralismo al localismo ecologico, dall’individualismo proprietario al corporativismo sindacale – senza dimenticare il sessismo, oppure la religione della famiglia. Sì, proprio quell’istituzione famigliare che religione, liberalismo, Stato… e Hegel, considerano la base della «società civile». E in genere del diritto. Ora a noi sembra che all’«estinzione della società civile» (e del diritto), sulla quale ci siamo tanto fermati in Empire e Multitude, si debba far seguire l’analisi dell’estinzione della famiglia, come base del sessismo naturalista e di ogni istituto giuridico privatista. L’intersezione cooperativa che riconosciamo nella forza lavoro cognitiva e la sua mobilità, contrasta con ogni identità che voglia rappresentarsi come soggetto. Ci abbiamo messo tanto tempo per riconoscere nella moltitudine un insieme di singolarità – ma anche ogni singolarità è una moltitudine.

La seconda osservazione riguarda il tema della povertà. In Commonwealth Michael e io abbiamo insistito sul fatto che il capitale si trova oramai costretto allo sviluppo su un terreno definitivamente rotto, scisso fra soggetti antagonisti che lo costituiscono. In crisi dunque dal punto di vista della progettazione della sua crescita. Il capitale diviene dunque incapace di governare e deve affidarsi alla governance, garantendola con mezzi repressivi di eccezione. Qui risalta il tema della povertà. Se al capitale si impone infatti la necessità della biforcazione, e cioè di riconoscere la rottura del processo dialettico che lo costituiva, allora capitale costante e comando si trovano da un lato, forza lavoro e capitale variabile dall’altro. Di qui la prima conseguenza della biforcazione: uno smisurato aumento della povertà. Come per il dolore, anche la povertà fa ormai parte della coercizione al lavoro. È un passaggio ineluttabile e terribile, questo, per chi analizzi la condizione attuale del proletariato – ma anche per il militante della causa del comunismo. Militare con i poveri, oggi, diventa fondamentale. Proletario, operaio, precario, tutti sono poveri. Ma, inclusi come poveri dal biopotere, i poveri non sono degli esclusi: la povertà è sempre, nel mondo globale, nel mondo della produzione sociale, inclusione, ovvero inerenza a un rapporto di capitale che investe la società e la mette al lavoro. Nella relazione biopolitica, l’inclusione sociale dei poveri si dà intera. Noi pensiamo che in questa condizione la rivolta dei poveri, e vere e proprie jacqueries, siano oggi eventi che stanno venendo, e che si presentano come scadenze inevitabili – al fine di costruire un terreno costituente, un’apertura politica per le forze che lottano contro il dominio capitalistico, cioè per la costruzione di un libero Commonwealth. Come faremo funzionare istituzioni politiche e strumenti giuridici, dentro questa insostenibile e indecente situazione? Come si lotta a favore dei poveri? Talora, per costruire il nuovo diritto, bisogna distruggere quello che ci include e ci comanda.

Note

Note
1C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alla origini del pensiero borghese: la teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke, prefazione di A. Negri, trad. it. di S. Borutti, ISEDI, 1973 [1962].
2Si veda ora A. Negri, Il lavoro nella Costituzione, Ombre Corte, 2009 e l’appendice La costituzione del lavoro. Una conversazione con l’autore (2009), di A. Zanini.
3Si rimana qui a: G. Allegri, Alle origini della V Repubblica. Brevi note sulla lunga transizione tra innovazioni costituenti e tradizioni costituzionali, in F. Lanchester e V. Lippolis (a cura di), La V Repubblica nel dibattito e nella prassi in Italia, Jovene editore, Napoli, 2009, pp. 93-128.
4In base all’art. 21, co. 2 del Grundgesetz (GG), il Tribunale Costituzionale Federale tedesco (BVerfG) nel 1953 dichiarò l’incostituzionalità del partito neo-nazista Sozialistische Reichspartei, erede del partito nazionalsocialista del terzo Reich – NSDAP, e quindi nel 1956, si pronunciò contro il Partito Comunista Tedesco KPD, sciogliendoli ambedue.
5Grande analista del paradigma roosveltiano è Luciano Ferrari Bravo, proprio in quegli anni.
6Johannes Agnoli, Belluno 1925 – Lucca 2003, giurista e intellettuale di origini italiane, poi naturalizzato tedesco; il suo volume su La trasformazione della democrazia, Feltrinelli, Milano, 1969 [1967] fu molto letto dai giovani del movimento del ’68 tedesco.
7L. Ferrari Bravo, Il New Deal e il nuovo assetto delle istituzioni capitalistiche, in AA. VV., Operai e Stato, Feltrinelli, Milano, 1971, pp. 101-134. Negri ha dedicato splendide pagine di narrazione e analisi della vita e del pensiero di Luciano Ferrari Bravo in A. Negri, Luciano Ferrari Bravo. Ritratto di un cattivo maestro. Con alcuni cenni sulla sua epoca, manifestolibri, Roma, 2003.

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