Drywall in the underground garages

Per un'ipotesi installativa

Tagariello_Drywall in the underground garages - sketches & still (2017)
Alessandro Tagariello, Drywall in the underground garages - sketches & still (2017).

Nel saggio Inside the Whale and Other Essays del 1940 lo scrittore George Orwell riprende un’espressione del collega Henry Miller – nel ventre della balena – per descriverne la sua condizione esistenziale. Si fa cenno a Giona e al capolavoro di Melville etc. Ad un certo punto, Orwell dice che questo «sentirsi» dentro il cetaceo – che per Miller è fatale attrazione – non solo «è pensiero d’intima, accogliente, ospitale domesticità», ma rappresenta «il finale, insuperabile stadio dell’irresponsabilità».

Domesticità e irresponsabilità, dunque. Ma cos’è questa costruzione immaginifica di un«dentro» che taglia fuori il resto se non dispositivo proprietario sotto altra veste, molto prima che incontri un suo sito reale? Quando ciò che conta e rassicura è il prolungamento definitivo del nostro corpo, cosa resta delle relazioni sociali? Impieghiamo l’espressione milleriana per accompagnarci nell’ipotesi installativa alla quale abbiamo pensato: si tratterebbe di decontestualizzare in qualche modo l’idea di proprietà. Ci è venuto pertanto in mente un edificio condominiale; più precisamente, il ventre della balena di unità abitative sostenute da grossi pilastri che custodiscono, nelle viscere dello stabile, la mobilità in potenza – l’area dei garage condominiali -, e al contempo lo spazio nel quale pubblico e privato si confondono. Naturalmente siamo molto lontani dal progetto marsigliese di Le Courbusier con le sue machine à habiter, in pieno clima fordista. Dell’utopia industriale restano solo «macerie». Più che mai oggi l’abitare coincide con il tentativo costante di chiusura. Con l’aggravante che l’habitus è habitat costruito sul debito; puro differimento messo al lavoro. Beffa immonda, perciò: proprietari senza proprietà!

Il debito, oggi, incide sull’immaginario, orienta desideri e progetti, producendo una soggettività continuamente attanagliata dai sensi di colpa, sempre intenta ad auto-disciplinarsi per far quadrare i conti. Ma ciò che c’importa è ragionare su una contro-valutazione del ventre, l’area dei box-auto. Qui la proprietà è totalmente simbolica, incide su uno spazio aperto, senza divisioni strutturali, determinando condotte, aspettative, forme di vita. Lo spazio in oggetto ci mostra chiaramente il totale superamento, da parte della proprietà, del piano materiale che aveva caratterizzato le recinzioni moderne. Siamo ben lontani dalla violenza che ha accompagnato le enclosures moderne, come atto fondamentale del processo di accumulazione capitalistica nella modernità. Qui le recinzioni non servono, la proprietà è nella testa, e l’accumulazione poggia sulle forme di soggettivazione.

Le cose si fanno più confuse: più che non-luogo – secondo la definizione che ne dà il sociologo Marc Augè, ci sembra che quest’area di transito sotterranea – con la «bocca» spalancata verso l’esterno (pedana d’accesso) – risponda soprattutto al quinto principio enunciato da Foucault durante una conferenza tenuta a Tunisi nel 1967 per definire gli «espaces autres». Il quinto principio che fonda l’«eterotopia» (termine coniato per definire questi «spazi altri») si basa su un «sistema d’apertura e di chiusura che al contempo la isola e la rende penetrabile» (cancello elettrico, nel nostro caso). Sicché, questo spazio condominiale ibrido, trasversale, di passaggio e di rapido scambio informale ci è parso interessante per un intervento che ne sposti il senso.

La ambivalenza deriva proprio dalla sua apertura, dall’assenza di ostacoli e divisioni materiali. Tale apertura può innescare il suo ripensamento in quanto «spazio comune», al di là dell’immaginario proprietario in cui è inserito. Come contro-valutare allora questo spazio? Si tratta prima di tutto di«sezionare» e poi «sventrare» la balena (con tutto il suo portato biblico, letterario, semiotico, politico etc.) per sabotarne l’utilità, e dunque la funzione. Per ottenere cosa? Un nuovo spazio, quello del(la messa in) comune. Tutto ciò apre ad almeno tre possibili, a tre produzioni di reale:

1. intervento virtuale (pre-condizione perché dispositivo totalmente virtuale, oltre il fisico e materiale);

2. intervento temporaneo nell’area = problema politico-giuridico con i condomini (vivere il comune come possibilità, come modo reale dell’abitare);

3. intervento definitivo nell’area/occupazione, conflitto, arresto ecc. (tale momento, dal carattere istituente, implica l’immaginazione politica del comune, la sua organizzazione che apre a nuove istituzioni).

Questi «possibili» sono come i tre stadi del comune; dall’atto all’azione, compongono gradienti di reale, laddove la potenza (di produrre reale comune creativo) si scontra con il potere (della forza fisica, della ragione economica e della legge). È così che andrebbe intesa questa ipotesi installativa: una sorta di cuneo tattico-strategico al servizio delle forme di vita della comunanza. Naturalmente, gli effetti dei tre stadi del comune si intrecciano – entrando in risonanza – con la molteplicità degli elementi compositivi individuati secondo indici di variazione. Questi indici garantiscono al contempo la negazione di qualsivoglia idea di artisticità – che evidentemente ripristinerebbe un «prurito» proprietario (integrità dell’installazione) -, l’apertura ludica alla costituzione di spazi altri, e una costante riflessione operativa sulle risorse materiali impiegate e impiegabili.

Orbene, entriamo nel vivo: siamo in Puglia, ma potremmo estendere questa intervento in tutta l’area del mediterraneo (e non solo), visto che si è partiti dall’individuazione di una millenaria pratica mobile di recinzione: i muretti a secco. Il muretto a secco, in quanto strutturalmente decomponibile, è costitutivamente tendente alla decostruibilità. Il suo impiego come sbarramento posto all’ingresso o lungo il percorso contro-effettua l’enclosures virtuale, biopolitico che informa le scelte d’ogni singolo condomino: farsi condurre dall’ascensore nell’area o giungervi mediante pedana, guadagnare il proprio garage, tirar fuori il mezzo di trasporto etc. Pertanto la presenza di massi gibbosi sapientemente incastrati farebbe innanzitutto esplodere il senso-funzione di questo spazio, investendo tutta una catena di azioni/reazioni che lo hanno determinato. Qui siamo al momento critico (nell’etimo) che accompagna lo shock iniziale (W. Benjamin). Al netto delle modalità d’intervento possibili, ci si potrebbe trovare così in una fase esplorativo-immersiva e/o di decostruzione.

Tra le piccole fessure del muretto si è pensato di inserire delle pistole erogatrici di carburante collocati a mo’ di nere bisce cascanti sul suolo. Anche in questo caso ci troviamo in presenza di un curioso détournement: niente più combustibile, i garage non hanno più niente da proteggere. E dunque, annullate le distanze, ciò che resta di un distributore assume un’altra veste, suggerita dal micro-ambiente naturale che s’annida negli interstizi dei blocchi di pietra. Questione ecologica e critica della ragion pratica con altri mezzi, secondo condizioni di possibilità inedite: una sorta di spinozismo in minore, sperimentale, che prova a comporre indicando potenzialità creative. Dalle pistole erogatrici fuoriuscirebbe del liquido biancastro in piccole pozze. Ancora una volta si potrebbe azzardare qualcosa che dovrebbe far segno al bianco-balena biblico/letterario (e più in generale al Leviathan come autorità legiferante ed univoca). Ma andiamoci piano con le forzature artistoidi!

L’espressione milleriana è un po’ come un’annotazione extra-simbolica su di un pentagramma: la musica che ne seguirebbe è altra cosa. Qui non c’è più spazio e tempo per una pedagogia dei significati-simboli-ecc. Le suggestioni provocate dai concatenamenti dei materiali selezionati sono semmai propedeutici ad una pratica collettiva totalmente aperta, inclusiva, a-significante.

Alle spalle del muretto, sullo sfondo, una proiezione audio-visiva di un albero di fichi d’India dialogherebbe con il set grazie all’impiego di piccoli diffusori (si può partire da suoni disparati della natura per poi modificarli artificialmente in tempo-reale). Anche qui, vorremmo evitare ulteriori spiegazioni circa la scelta di un tale filmato a-soggetto, peraltro troppo chiaro… Basterebbe una banale ricerca; dunque è un invito a sviluppare un qualsiasi procedimento operativo, partendo da segni da decostruire materialmente e gioiosamente (coincidenza tra destituzione e istituzione), e non da indizi da svelare passivamente. È così che forse si può far deragliare la catena creativa dallo specifico proprietario-multidisciplinare-interattivo-postmoderno-ambito artistico, per metterla al servizio di altri modi di stare al mondo.

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