Eterotopie dell’arte pubblica
Uwe Jaentsch, dall'Austria a Palermo
Il fenomeno dell’arte pubblica – nelle sue molteplici declinazioni di murales e installazioni site-specific o land art – costituisce uno dei temi più caldi all’interno del dibattito contemporaneo, non solo in ambito artistico ma anche sociale e politico. Da un lato, esso rappresenta una sorta di koiné artistica globale, uno strumento espressivo in grado di produrre esperienze artistiche di rilievo da New York a Roma, da Johannesburg a Parigi, sintomo di un connubio proficuo tra globale e locale, escursioni cosmopolite e sperimentazioni vernacolari. Dall’altro, la public art si definisce come perfetto rovesciamento del luogo deputato alla fruizione artistica per eccellenza: il museo, sia nella sua variante storicista originatasi nel XIX secolo, sia in quella devota alle strategie di branding e marketing contemporanea.
Rifiutando l’ideologia white cube, l’arte pubblica si installa in spazi e ambienti, che lungi dall’essere votati alla neutralità, sono già in sé marcati da significati che, seppure a volta obliati, consentono l’emergere di una caratteristica che gli storici dell’arte contemporanea hanno spesso considerato fra le più rappresentative delle espressioni artistiche del XX e XXI secolo: l’incontro tra la vita e l’arte. La fuga dell’arte dai corridoi di musei e gallerie – già perseguita da artisti come Joseph Beuys o Allan Kaprow – pone davanti a una serie di interrogativi non necessariamente di carattere squisitamente artistico. Il cambiamento della modalità di fruizione – che da contemplativa vira verso una prassi di immersione sensoriale, più fedele all’etimo stessa della parola estetica, dal greco aisthesis, esperienza, percezione sensibile – che essa sottende, infatti, pone in rilievo tanto la questione intorno l’identità del singolo oggetto artistico e la sua definizione in quanto bene culturale e comune, quanto la rinegoziazione della nozione di città e l’organizzazione concettuale dei suoi spazi oggi più che mai volti all’ibridazione e alla polisemia.
In realtà, ciò che oggi appare il frutto degli sforzi di artisti provenienti dalle fila delle Avanguardie dello scorso secolo, non è altro che il ritorno dell’arte medesima ai luoghi a essa più congeniali precedentemente alla svolta aristocratica rinascimentale, prima, e borghese poi. Se si resta fedeli all’insegnamento warburghiano, volto a individuare nell’analisi della sopravvivenza e rimozione delle forme il senso stesso di una teoria critica dell’arte, è possibile rintracciare – o ricordare, termine forse più calzante – le vestigia degli innumerevoli incontri consumatisi nel corso dei secoli fra arte, società e collettività. Tali vestigia sono tuttora sotto gli occhi di tutti: dai teatri greci e dagli anfiteatri romani, passando per le cattedrali medievali per arrivare alle stazioni ferroviarie del XIX secolo. Spazi ed edifici che oltre ad avere espletato – e spesso aver continuato a espletare – le funzioni per cui a loro tempo sono stati progettati, sono stati portatori e garanti di immagini simboliche, specchio di ideologie, sogni e delle aspirazioni collettive.
Oggi, sono popolati dagli spettri di quelle stesse società che ne hanno eretto le fondamenta. Non è un caso se è nei passages della Parigi del XIX secolo che Walter Benjamin ricercava l’immagine «in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’adesso», lo jetztzeit a partire dal quale il passato si rende conoscibile e aperto all’instaurazione di significati nuovi. Ogni città dispone di luoghi in cui si consuma l’incontro tra un presente inattuale e un passato che, per quanto spesso rimosso, si impone quale forza sotterranea di formazione di significati mobili e plurali. Questo è anche il caso di Palermo, avamposto meridionale dell’Italia, terreno secolare di dialogo e scontro tra culture e mondi altri, coacervo di stridenti contraddizioni che nel mercato della Vucciria trovano uno dei loro veicoli di espressioni privilegiata. Essa è simile alla città di Palermo: o la si odia o la si ama, o vi si è irretiti o non si spera altro che di poterne fuggire il più presto possibile. Più spesso, in realtà, è un miscuglio eterogeneo di sensazioni e sentimenti a prendere il sopravvento, come si conviene a un luogo in cui all’odore pungente dei cibi, al vociare folcloristico dei mercanti, al rosso scarlatto delle carni esposte senza pudore si sussegue – senza alcuna soluzione di continuità – il frastuono della vita notturna, le chiacchere di bohémien giovani e non, l’eco di una bottiglia di vetro che si fraccassa sul pavimento perennemente bagnato.
Celebrata da Renato Guttuso, immortalata in anni più recenti dal pittore Croce Taravella, la Vucciria è emblema di una sicilianità a un tempo gelosa del proprio passato e aperta a un meticciato plurale e dinamico. Essa è uno squarcio all’interno del regolare tessuto urbano, un’ eterotopia, luogo in cui le identità si formano per entrare spesso in conflitto o risolversi in un eccesso esperienziale. È nell’eterotopia che è possibile esperire una soggettività non-gerarchica e non indotta dai rapporti di potere dell’altro, ma che, al contrario, trova la sua origine in uno spazio orizzontale, che può e deve essere vissuto collettivamente. Un luogo da attraversare, in cui a spazialità multiple si intrecciano temporalità multiple. «L’eterotopia si mette a funzionare a pieno quando gli uomini si trovano in una sorta di rottura assoluta con il loro tempo tradizionale» scrive, infatti, Michel Foucault quando descrive il funzionamento congiunto di eterotopia ed eterocronia. Una frattura nella canonica immagine lineare occidentale del tempo che trova realizzazione nell’infrangimento di soglie, spaziali e temporali, che comporta l’attraversamento dei labirintici vicoli del mercato – dove al tempo della vendita si sovrappone quello della festa e l’incessante mormorio del ricordo – è pronto, a seconda dei casi o dei punti di vista, a ingerirvi o ad accogliervi, senza curarsi di steccati etnici o nazionali.
Non stupisce, allora, se l’artista a cui negli ultimi anni il nome del mercato palermitano risulta legato è l’austriaco Uwe Jaentsch che, fedele a una logica da bricoleur – egli stesso si definisce «un idraulico che cerca di capire cosa possa essere utile momento per momento» – ha avviato una costante opera di risemantizzazione di uno spazio attraverso le sue installazioni permanenti e non. Giustapponendo elementi tra loro diversi, l’artista riesce a tracciare una costellazione di identità e una varietà di percorsi esistenziali che trovano il proprio fondamento nell’aver cura, nel vivere insieme stigmatizzato dal celebre murales recante la scritta Uwe ti ama che campeggia dalla facciata di Palazzo Mazzarino nella storica Piazza Garraffello. Tra le macerie non ancora risanate della Seconda Guerra Mondiale, tra le cadenti costruzioni prodotte dall’incuria e dall’abusivismo tristemente promossi dal susseguirsi decennale di amministrazioni cieche prende forma, dunque, un discorso artistico che è insieme ideale esistenziale alternativo, fondato sullo scambio e sulla cooperazione piuttosto che sulla prevaricazione dell’individuo sul suo simile.
Un crogiuolo umano che emerge chiaramente dall’ultima opera di Jaentsch, la Stanza di Compensazione (2016), situata ancora una volta nello studio di Palazzo Mazzarino, in cui l’artista è stato in grado di rappresentare, convogliando una variegata moltitudine di linguaggi artistici, le differenti anime che popolano il mercato siciliano. Ai ritratti dei commercianti in vetrocromia – le Icone di Palermo – si affiancano, infatti, le raffigurazioni delle donne palermitane di Apocaliptic Rider, smalto su legno dagli evidenti richiami apocalittici. A memoria dei crolli che negli ultimi anni hanno interessato piazza Garraffello sta, invece, l’affresco sul soffitto, le Rose di Uwe, già presenti nel suo primo intervento nel capoluogo siciliano e nel murales eseguito sui ruderi della facciata della Loggia dei Catalani, altro edificio storico crollato nel 2014.
Significativamente, una delle installazioni più riuscite dell’artista è intitolata Banca Nazion (2007, sgomberata nel 2014 e re-installata lo stesso anno). Ancora un’eterotopia, la banca, stavolta, fondamento, assieme al mercato, dell’attuale sistema socio-economico e suo specchio simbolico. Alla Banca si accompagna la Nazione, contraltare politico della prima e nozione spesso all’origine di equivoci sovranistici volti a neutralizzare coattivamente le differenze, mediante la delineazione di confini o l’erezione di mura, lato oscuro dell’eterotopia contemporanea. L’installazione nella sua semplicità è, invece, un invito rivolto all’intera comunità del mercato palermitano, più volta eletta dall’artista austriaco quale principario destinatario dei suoi interventi, alla sperimentazione di forme economiche locali, consapevoli delle proprie origini e in quanto tali opposte all’odierna standardizzazione connaturata ai processi di globalizzazione mondiale. L’opera acquista, dunque, un valore di ri-categorizzazione – tanto estetica quanto sociale – del quartiere, in linea con la necessità di superare il museo quale luogo privilegiato per la conservazione e l’esposizione delle opere d’arte in favore di una creatività e di una fruizione diffusa, di un museo a cielo aperto inserito pienamente nel contesto urbano.
Un’ esigenza che percorre l’intero percorso artistico di Jaentsch, corroborandolo di un’autentica vocazione urbana che, mediante la democratizzazione creativa di quegli spazi cittadini, troppo spesso assoggettati a logiche di mercato spersonalizzanti, il recupero e la riconversione di un’identità, storica e collettiva, capace finalmente di irrompere nel quotidiano agendo come motore di trasformazione individuale e sociale. Una pratica artistica fondata sulla vita e sull’essere insieme, volta all’ invenzione e alla ri-costruzione di mondi nuovi mediante, prendendo in prestito le parole di Toni Negri «un’immaginazione che diventa azione» capace di farsi, finalmente, comunità.
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