Che cos’è uno sciopero nell’epoca della vita al lavoro? Quando il lavoro di riproduzione, di cura, di linguaggio, d’affetto esce dalla scena domestica e si piazza al centro dei dispositivi della subordinazione >…
Gli strumenti del padrone
e la casa del padrone
La storia del femminismo ci insegna che non è necessario svolgere un lavoro retribuito, e dunque innanzitutto «riconosciuto» come lavoro, per lavorare lo stesso e, quindi, anche per sentire l’urgenza di scioperare
Se si lega il concetto di «sciopero» a quello di «lavoro retribuito», solo in parte si coglie la vera portata di uno sciopero femminista. In primo luogo, perché di questi tempi è facile che molte di noi non svolgano alcun lavoro retribuito, e altrettanto facile è che il lavoro che si svolge non garantisce alcuna tutela, e dunque nemmeno alcuna tutela in caso di sciopero; di conseguenza, che la Costituzione riconosca il diritto di sciopero a ciascuna di noi rischia di peccare di astrazione se poi la nostra vita dipende dall’arbitrio del padrone, o dalla concreta materialità dei rapporti di forza sul luogo di lavoro. In secondo luogo, perché la storia del femminismo ci insegna che non è necessario svolgere un lavoro retribuito, e dunque innanzitutto «riconosciuto» come lavoro, per lavorare lo stesso e, quindi, anche per sentire l’urgenza di scioperare.
La relazione eterosessuale prevede un corpo a corpo che non ha equivalenti nella relazione tra il padrone e il lavoratore. L’amore crea l’apparenza dello scambio uguale tra liberi contraenti in modi che occultino il rapporto disparitario di sfruttamento
Le rivendicazioni femministe a un reddito per il lavoro domestico, per il lavoro di cura e sessuale, a oggi lettera morta, ben esemplificano ciò che intendo dire. Genealogicamente, può essere importante ricordare che quelle rivendicazioni non erano finalizzate alla mera denuncia della «discriminazione», o della «disparità» tra uomo e donna. Al contrario, usavano la rivendicazione di reddito per un fine assai specifico: l’inscrizione del rapporto tra uomo e donna all’interno di una cornice ideologica strutturalmente simile a quella in cui si dà il rapporto tra padrone e lavoratore. Se per quest’ultima la cornice di riferimento è quella della classe, e del più ampio sistema di rapporti di forza capitalistici, per la prima è l’istituzione eterosessuale del genere. Con due aggravanti, tuttavia: la prima è che quest’ultima assurge a condizione di possibilità, ben occultata, tanto della riproduzione costante dei rapporti di forza sessisti ed eteronormativi, quanto di quelli capitalistici; la seconda è che l’istituzione eterosessuale del genere consta di una pratica – la relazione di coppia eterosessuale – che prevede l’intimità, l’amore, ossia tutto ciò che rende complesso distinguere il dovere dal piacere e, di conseguenza, l’assoggettamento dalla soggettivazione. La relazione eterosessuale prevede un corpo a corpo che non ha equivalenti nella relazione tra il padrone e il lavoratore. Nella prima relazione, tuttavia, l’amore svolge la stessa funzione ideologica che il salario svolge nella seconda: ossia, creare l’apparenza dello scambio uguale tra liberi contraenti in modi che occultino il rapporto disparitario di sfruttamento. Così come nessun lavoratore «sceglie» di vendere la propria forza-lavoro, ma vi è obbligato se «vuole» sopravvivere, così anche nessuna donna – nell’ottica delle rivendicazioni femministe di salario domestico – può dire di aver mai «scelto», in senso proprio, di svolgere il proprio ruolo di genere, ossia il lavoro che consiste nella riproduzione delle condizioni di possibilità della produzione, e dello sfruttamento. Rivendicare un reddito, pertanto, significava dire che ciò che in seno a quella cornice veniva fatto passare per «spontaneo», per «naturale» – dal rapporto sessuale al lavoro di cura più in generale –, come anche, più sottilmente, per «autorealizzazione», di fatto costituisse un lavoro non retribuito, svolto in ossequio a un regime regolatore che alloca differenzialmente ruoli, aspettative, oneri e valore, il disassoggettamento dal quale comporta la possibilità di sparire dal campo del leggibile, e del riconoscibile. Si tratta di un lavoro assegnato, e svolto, in termini precontrattuali, nonché lontano anni luce da ogni possibilità di contrattualizzazione che sia in grado di sovvertire la distribuzione diseguale della vulnerabilità tra i contraenti.
Come è stato scritto da più parti, varie possono essere le pratiche alternative di sciopero per chi non svolge un lavoro retribuito, o riconosciuto come tale: vestirsi di nero e fuxia; non usare gli elettrodomestici; informare altre persone dello sciopero globale; astenersi dal lavoro domestico e di cura. A queste, vorrei aggiungere la possibilità di scioperare da Facebook, inteso come luogo di lavoro non retribuito, né riconosciuto – possibilità che vorrei declinare, tuttavia, maggiormente in chiave femminista, trans e queer.
La stessa cosa potrebbe dirsi ovviamente a proposito di altri social network, e di qualunque altra infrastruttura digitale che presiede al governo delle nostre relazioni, comunicazioni, condivisioni. Se mi riferisco in particolar modo a Facebook, tuttavia, è perché innegabile è stato il contributo di questa piattaforma all’organizzazione dello sciopero: è principalmente grazie alle connessioni agevolate e prodotte da questo strumento di interconnessione globale che si è riuscite a organizzare uno sciopero di questa portata, attraverso le differenze, i confini, e le latitudini. D’altronde, là dove il carattere «pubblico» del politico e del mediatico si trova in realtà a essere strutturato attorno a una serie di esclusioni costitutive che stabiliscono quali rivendicazioni siano degne di essere avanzate, quali vite o relazioni contino, o siano degne di riconoscimento, e dunque non riconosce la portata delle tue rivendicazioni, né riconosce la tua vita come una vita che conta, interviene con facilità il capitalismo e, in questo caso, il cosiddetto capitalismo delle piattaforme digitali, a emendare, o almeno apparentemente, le aporie di un «pubblico» escludente. In questo non dovrebbe esserci nulla di sorprendente. Si pensi, ad esempio, all’assordante silenzio da parte dei media ufficiali, finanche di quelli del «servizio pubblico», in occasione della manifestazione del 26 novembre scorso e dei tavoli programmatici del giorno successivo. Non si trattava di certo di una manifestazione di poche decine di persone.
Ma lasciate che dica anche qualcosa a partire da me, in proposito, per provare ad anticipare l’accusa di purismo che potrebbe facilmente ammantare la proposta di uno sciopero da Facebook. Non è certo da parte delle istituzioni «pubbliche», se non di rado, che provengono il supporto e il riconoscimento – non solo simbolico ma finanziario, reddituale – alla mia scrittura, alla mia attività di traduzione, e a tutto ciò che costituisce il mio lavoro, da diversi anni, benché le istituzioni pubbliche spesso ne traggano beneficio. Se così fosse, d’altronde, se le istituzioni di questo «pubblico» così escludente – eteronormativo, sessista, razzista e classista – fossero interessate a finanziare ricerche a proposito della sovversione dell’eterosessualità, dell’ordine sociale dei generi, o fossero interessate a finanziare la pubblicazione di libri scritti dalle (e non sulle) soggettività transfemministe e queer, ci sarebbe da essere quanto meno sospettose. E la stessa cosa potrebbero dirla molte altre persone, a proposito di altre ricerche, ad esempio, o di altre esperienze di attivismo non riconosciute pubblicamente come tali, ma anzi più spesso ostacolate dal potere pubblico. La condizione di possibilità di questo supporto, di questo riconoscimento, come anche di questo lavoro, sono proprio gli strumenti messi a disposizione dalle istituzioni del capitalismo delle piattaforme digitali, tra cui primariamente Facebook, nonché le possibilità organizzative e relazionali – tra varie soggettività, individuali e collettive – da esso agevolate e, necessariamente, prodotte.
In vista di uno sciopero globale femminista mi sembra dunque necessario – anche ai fini della sua politicità – sottolineare che ciò che deriviamo in termini di «opportunità», dagli strumenti offerti da Mark Zuckerberg, sia comunque minore di ciò che diamo a lui
Se rendo esplicita la cognizione di questo assoggettamento come condizione di possibilità di una forma di soggettivazione che altrimenti sarebbe semplicemente morta prima della nascita, mai pervenuta, è perché penso anche che parte di questa soggettivazione, quella più persistente e resistente, andrebbe perduta del tutto se non questionasse la relazione che intrattiene con il ricchissimo padrone maschio, bianco ed eterosessuale del suo luogo di lavoro non retribuito – e molto, inoltre, potrebbe essere detto a proposito del trattamento giuridico-sindacale e delle condizioni materiali di vita dei dipendenti di Mark Zuckerberg, o del suo aperto sostegno al governo israeliano (e dunque alle sue politiche di apartheid e di occupazione), o del mirabile contributo di Facebook al pieno compimento di una forma, parzialmente inedita a Bentham e Foucault, di controllo globale. Per quanto gli strumenti del padrone costituiscano infatti la condizione di possibilità di un certo tipo di supporto, di riconoscimento e, in un certo senso, di sopravvivenza, cadremmo in errore se pensassimo che il padrone sia un degno alleato di un certo tipo di riflessioni, di una certa idea di trasformazione sociale in chiave femminista, trans e queer, né che sia un degno alleato delle stesse soggettività che avrebbero accesso al «pubblico» solo al prezzo della neutralizzazione, o che da esso sono esplicitamente, e violentemente, tenute ai margini. E la soluzione non consiste nel dibattere su quanto ci piaccia o meno essere riconosciute dal «pubblico», quanto piuttosto nell’assumere come precondizione al dibattito (al di là del fatto che l’accettiamo) che in assenza di questo riconoscimento c’è il misconoscimento, con tutte le sue implicazioni simboliche e materiali, al quale il capitale s’incarica di compensare, ovviamente non in cambio di nulla né in termini che politicamente potremmo, né dovremmo, ritenere accettabili. In vista di uno sciopero globale femminista mi sembra dunque necessario – anche ai fini della sua politicità – sottolineare che ciò che deriviamo in termini di «opportunità», dagli strumenti offerti da Mark Zuckerberg, sia comunque minore di ciò che diamo a lui. Ma, soprattutto, mi sembra necessario sottolineare che questa relazione sia necessitata.
Infatti, se Facebook mira senz’altro a «farsi governo della società», come ha scritto giustamente Tiziana Terranova, è però tutto da vedere se le gerarchie di genere, razza, classe o abilità che quella «società», propriamente, costituiscono, siano state sovvertite in tempo per il governo da parte di Facebook, o forse proprio grazie alla sua azione inclusiva (come alcuni, tra cui lo stesso Zuckerberg, pensano), al punto da indurci a minimizzare i suoi effetti performativi differenziali. Non tutti, d’altronde, «accedono» a Facebook a partire dalle medesime condizioni di possibilità – la terminologia della critica femminista al contrattualismo della filosofia moderna, com’è evidente, torna utile anche nel bel mezzo dell’era digitale. E per quanto la distinzione tra «pubblico» e «digitale» possa apparire arbitraria, quanto quella tra il «reale» e il «virtuale», non lo è a sufficienza per impedirmi di porre questa domanda: quanto può essere più potente la seduzione all’assoggettamento nel mondo virtuale per la vita di chi, nel mondo reale, esperisce una maggiore vulnerabilità dal momento che le norme che lo governano non riconoscono la sua vita, propriamente, in quanto vita? Ci sono alcune persone per le quali le possibilità di soggettivazione e di relazione offerte dai social network o dalle altre infrastrutture digitali, per quanto funzionali alla produzione di plusvalore per il ricco padrone cis-eterosessuale e bianco, costituiscono pressoché le uniche possibilità di soggettivazione e di relazioni, costituiscono l’unica realtà possibile, al di fuori della quale c’è spesso isolamento, incomunicabilità, impossibilità. Questo mi sembra visibilissimo nel caso delle chat gay: ci sarebbe da chiedersi che ne sarebbe di tali infrastrutture se le possibilità di incontro e di relazione fossero simmetriche, rispetto a quelle delle persone eterosessuali, in ogni luogo dello spazio pubblico – se lo spazio «pubblico» non fosse in realtà lo spazio della «segregazione». Pertanto, le analisi universalistiche sulle forme di auto-valorizzazione, di auto-sfruttamento, di alienazione, di lavoro gratuito, di promozione narcisistica del sé che permeano la letteratura sul capitalismo delle piattaforme digitali, dal mio punto di vista mancano tutte di tenere in debita considerazione una domanda la cui risposta è oggi rumorosamente silente: che tipo di mondo è quello che demanda all’arbitrio del padrone di turno dei vari spazi «virtuali» la «realtà» di un certo numero di vite?
Possiamo provare a immaginare di scioperare dal lavoro ri-produttivo che quotidianamente svolgiamo nella casa del padrone, interrompendo le connessioni, le comunicazioni, le condivisioni, disattivando i nostri account individuali – per qualche ora, per l’intero giorno
«Gli strumenti del padrone non demoliranno mai la casa del padrone», ammoniva Audre Lorde. Nell’attesa di sovvertire l’ingiunzione che ci induce talvolta a preferire l’affermazione di queste «noi» che siamo all’abolizione delle condizioni che di questo essere costituiscono l’assoggettamento, possiamo però provare a immaginare di scioperare dal lavoro ri-produttivo che quotidianamente svolgiamo nella casa del padrone, interrompendo le connessioni, le comunicazioni, le condivisioni, disattivando i nostri account individuali – per qualche ora, per l’intero giorno. «Scioperare», d’altronde, significa sottrarsi – in modo più o meno momentaneo o protratto nel tempo – a una relazione asimmetrica, dalla quale tuttavia dipendono le condizioni di possibilità della vita stessa, sullo sfondo di rapporti di forza che rendono quella relazione «obbligatoria» e che, pertanto, devono essere esplicitati.
È solo grazie a questo esercizio di esplicitazione, infatti, per quanto simbolico possa essere, che è possibile organizzare la sovversione, e immaginare altre infrastrutture, nella direzione dell’istituzione in senso trans, femminista e queer delle condizioni di possibilità dell’autodeterminazione. Ricordo che nella primavera del 2015, quando Zuckerberg introdusse circa una cinquantina di opzioni in grado di consentire agli utenti di descrivere il proprio genere, al di là dei generi binari ed eteronormativi uomo/donna, mi capitò di leggere un articolo, apparso su Wired.it dal titolo: Facebook, ecco come cambiare la tua identità di genere. «Da questa settimana», si leggeva, «la spaventatissima famiglia no gender ha un nuovo nemico da temere. E stavolta è un nemico assai più potente, economicamente in forze e influente della scuola italiana. Perché se anche Mark Zuckerberg si schiera apertamente in favore della libera espressione dell’identità di genere, beh: buona fortuna con le petizioni». Poco più avanti, le istruzioni pratiche: «Basterà andare su Informazioni -> Informazioni di contatto e di base -> Genere -> Personalizza, e vedrete: l’autodeterminazione non è mai stata così semplice». A distanza di due anni, in occasione di questo sciopero globale, abbiamo l’opportunità di andare invece su Impostazioni –> Protezione –> Disattiva account, e comprendere che l’autodeterminazione è tutta ancora da fare. Quando torneremo a casa, quando torneremo sui binari rassicuranti della dinamica tra l’assoggettamento e la soggettivazione, quando torneremo a queste «noi» che siamo, riattivando gli account, troveremo sicuramente ad attenderci le tante immagini, e le tante condivisioni a proposito delle manifestazioni che nel mondo renderanno intelligibili le interconnessioni globali di questo importante lavoro politico femminista, trans e queer, che non ha, né può avere, alcun alleato al maschile singolare.
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