Il 24 maggio esce in libreria per ombre corte «L’insorto del corpo. Il tono l’azione, la poesia. Saggi su Antonin Artaud», a cura di Alfonso Amendola, Francesco Demitry, Viviana Vacca. Anticipiamo qui un estratto dalla Prefazione di Ubaldo Fadini.
Prima di tutto viene la materia, ciò che si esprime anche nella combinazione della gestualità con la mobilità insonne del pensiero: espressione, creazione, divenire sono concetti-chiave di una esperienza complessa, consapevole del fatto che «soltanto un gesto ci divide dal caos», come si può leggere ancora in Il teatro e il suo doppio. È così che il linguaggio artaudiano è da cogliersi come quel getto che collega appunto il gesto e il pensiero: un linguaggio irrispettoso nei confronti di qualsiasi «battuta» da palcoscenico, di ciò che ripresenta le presuntuose e arroganti, di fatto pre/potenti, prese di posizione uni-lineari (le parole d’ordine e un ordine predeterminato delle parole). La ricerca centrata sul gesto, sul suo carattere irriguardoso e imprevedibile, sulla capacità di andare oltre le funzioni di dipendenza, di accompagnamento della «recita», non può che rivoltarsi contro le infamie del linguaggio che si vuole logico-discorsivo nel tentativo di riafferrare, sia pure parzialmente (e non può che essere così…) la potenza appunto germinale del gesto stesso, il suo effetto/affetto «di» vita, di esistenza.
Questo gesto, che ci divide provvisoriamente dal caos, è proprio ciò che dà corpo (e «teatro» paradossalmente «filosofico») allo stesso percorso di un suo interprete particolarmente attento: si pensi al rapporto cervello/caos nell’ultima grande opera di Deleuze scritta con Félix Guattari, Che cos’è la filosofia? (1991), nella quale è certamente la filosofia a costituire una pratica di confronto proficuo con il caos, ma a questa è da affiancare il motivo del gesto, dell’interruzione, che fa filare ancora più via il pensiero, materialmente disperdendolo. Si potrebbe anche dire così sul rapporto Deleuze/Artaud (straordinario, come quello, articolato diversamente, Derrida/ Artaud o Foucault/Artaud): la materialità del gesto riapre la scena del/al mondo, restituendola non come spazio di un gioco triste/melanconico, come nel caso del Trauerspiel barocco analizzato da Walter Benjamin, e per la filosofia ciò ha un valore decisivo perché la invita a individuare nelle movenze, nei gesti, nei «corpi» la ragione concreta di una possibilità ancora di «fede», di «credenza», nei confronti del multiverso, del «mondo» stesso. Artaud e Deleuze muovono e pensano «per» la vita, nel teatro «e» nella filosofia, nella critica radicale di tutto ciò che vale come scontata «rappresentazione». Soprattutto interessante è in questo senso il saggio Per farla finita con il giudizio, laddove il filosofo di Differenza e ripetizione indica Artaud come uno dei grandi discepoli di Spinoza, assieme a Nietzsche, Lawrence, Kafka: è appunto Spinoza che inventa la critica del giudizio, di ciò che investe l’essere umano con un debito infinito a cui non può che corrispondere una immortalità dell’esistenza nella forma però mortificante di una sopravvivenza negativa.
È proprio con Nietzsche, con la sua Genealogia della morale (in particolare la seconda Dissertazione) e la sua alternativa netta: la giustizia, la scrittura del debito sul corpo, contro il giudizio, l’asservimento senza fine, che appare più comprensibile il «sistema della crudeltà», la scrittura di sangue e vita che «enuncia i rapporti finiti del corpo esistente con le forze che lo investono», la dinamica dell’affettività che mette appunto in risalto il carattere «finito» di tutto ciò che non può che modificarsi, cambiare. La prospettiva delineata dal «sistema della crudeltà» comprende in definitiva una raffigurazione del corpo senza organi come corpo «affettivo», costitutivamente differente dal corpo organizzato del sistema del giudizio. Scrive Deleuze: «Il corpo senza organi è un corpo affettivo, intensivo, anarchico, che comporta solo poli, soglie e gradienti. Una potente vitalità non organica lo attraversa. Lawrence traccia il quadro di un simile corpo, con i suoi poli di sole e di luna, i suoi piani, le sue sezioni e i suoi plessi. […] La vitalità non organica è il rapporto tra il corpo e delle forze o potenze impercettibili che se ne impadroniscono o di cui esso s’impadronisce, come la luna s’impadronisce del corpo di una donna: Eliogabalo l’anarchico continuerà a essere, nell’opera di Artaud, la dimostrazione di questo scontro delle forze e delle potenze, come altrettanti divenire minerali, vegetali, animali. Farsi un corpo senza organi, trovare un corpo senza organi è la maniera di sfuggire al giudizio. Era già il progetto di Nietzsche: definire il corpo in divenire, in intensità come potere d’investire e di essere investiti, ossia Volontà di potenza».
Sulle opposizioni critiche decisive che si concretizzano negli sviluppi del materialismo artaudiano, vale a dire essere/corpo, pensiero/ azione, spirito/materia ecc., mi pare opportuna l’insistenza analitica di molti contributi presenti in questo volume, in quanto è in particolare negli ultimi anni della sua vita che Artaud approfondisce e radicalizza ulteriormente il rifiuto del protagonismo spacciato come indiscutibile dello «spirito» e il primato della «coscienza». È proprio quest’ultimo a mettere a dis/valore tutto quello che conta, agli occhi di Artaud, e quindi soprattutto il rifiuto pieno, senza appunto sconti, della figura dello «spirito-prete», individuata nella sua chiusura irrimediabilmente negativa, di mortificazione spinta delle ragioni dell’esistere, del paradossale – agli occhi di coloro che svolgono funzioni di controllo sociale e di disposizione rigidamente istituzionale – del carattere virtuoso dell’incognito corporeo. In particolare spicca lo scagliarsi di Artaud contro la «follia istituzionalizzata», contro il potere medico, contro tutto ciò che si propone/impone come una «sana» introduzione/espressione del ben fissato, organizzato una volta che si vuole per sempre, nel corporeo. Va combattuta in definitiva la sottrazione attiva, da parte dei poteri dello «spirito prete», dell’esperire metamorfico, della sua paradossale conquista di nuove virtù, «negli alti e nei bassi delle lotte». Ammalare l’esistere, odiare senza il minimo ritegno e però nelle modalità anche più sofisticate le sue intensità, tempestare di colpi mortali la stessa vita che si fa vivere e viene ritenuta vissuta: ciò sta per uno spirito che provoca senza sosta, con tutte le sue «logiche e parole di fazione», la realtà corporea, armato di quel disprezzo «metafisico» che è specifico dell’agire dei potenti, dei loro poteri.
Sono gli «istituti» dello «spirito-prete» i luoghi da cui fuori-uscire, da cui evacuare, in ogni senso, per beneficiare infine del parossismo delle forze (c’è bisogno sempre di forze perché altrimenti gli «amici» non riescono a venire e se non arrivano non si riesce «a stroncare tutti gli ostacoli» o a «sostenere una rivolta generale»). Artaud è una «macchina da guerra», un «corpo-materia» di combattimento, sempre in prossimità di una soglia liberatrice di potenza individuale e però insieme pluriversa. La materialità corporea disegna infatti, nelle pratiche della lotta, delle figure costitutivamente elastiche, relazionate in modo plastico, sensibilmente/nervosamente attraversate da intensità rispetto alle quali si può certamente tentare di inchiodarne la «carne», sapendo comunque che mai si potrà truffare la furia di vita che tutto pervade, che fa sgorgare/scolare tutto quello che si raccoglie sui piani di una corporeità irriducibile e virtuosamente franca nelle sue inaggirabili rivendicazioni di autonomia. Quando l’incontro è con Artaud, non possono non tornare in mente le parole di Georges Canguilhem, che riguardano il farsi e il disfarsi dell’esistere, con gli effetti di esaltazione e disperazione che individualmente ne derivano, Canguilhem, studioso che tanto ha contato per lo sviluppo delle ricerche di Deleuze e Foucault, ragiona infatti sul corpo e sulla salute, richiamando a tal proposito anche le note considerazioni nietzscheane, mettendo in risalto il valore della condizione «atletica» assicurata dal rispetto e dalla cura proprio di quell’intensità» (da intendersi sempre al plurale…) che destabilizza e scuote profondamente le pretese «assolutistiche» dei ricorrenti principi di organizzazione della materialità corporea. Scrive l’autore di Il normale e il patologico: «La salute, come espressione del corpo prodotto, è una sicurezza nel doppio senso di un’assicurazione contro i rischi e di un’audacia nel correrli. È il sentimento di una capacità di superamento delle capacità iniziali, di una capacità di far fare al corpo ciò che inizialmente esso non sembrava in grado di fare». Atletismo affettivo: formula sempre da richiamare anche e soprattutto in riferimento ad Artaud. È quest’ultimo è stato sempre estremamente chiaro in tal senso, anche ad esempio nella Lettera alla veggente, quando si sottolinea come l’accettazione della vita comporti un «essere grandi», un riuscire a «sentirsi all’origine dei fenomeni» (o almeno di una parte di essi…). «La vita» è cioè «indifendibile» senza una qualche «potenza di espansione», senza ciò che spinge al combattimento, alla lotta.
È quest’ultima una dominante affettiva rilevata in modalità differenti da molti dei contributi raccolti in questo testo, dalla rilevazione dell’importanza della «discesa nell’informe», dell’anticipo costitutivo del disordine rispetto alle realizzazione dello strano ordine incarnato nell’anarchia, del disorientamento degli esercizi del corpo, del suo danzare, al fare teatrale, al suo carattere eterotopico, alla presa d’atto – appunto atleticamente affettiva – del primato paradossale dell’irrappresentabile. Certo, i riferimenti anche solo filosofici sono molteplici: spicca l’affondo nietzscheano ma anche proiezioni di carattere letterario, musicale e ovviamente teatrale non possono non delinearsi nel momento in cui si insiste sulla metaforicità carnale, sulla particolare esposizione della vita/scrittura di Artaud. Ma se c’è qualcosa da condividere senza avanzare subito delle riserve preconcette è proprio l’effetto-peste di Artaud, il suo tentativo di provocare appunto la peste fisica, mentale, sociale contro tutte le pseudo-razionalizzazioni di quel discorso dell’astratto (della «teoria»…) che pretende di rivestire ineccepibilmente le tensioni dei dispositivi di potere che raccolgono l’idea di «ordine» proprio del sistema del giudizio. In quest’ottica, una esemplificazione minima del singolare valore-valere delle «parole pestifere» può essere data, a mio modo di vedere, attraverso un accostamento al tema benjaminiano dell’interruzione, così come il filosofo berlinese lo coglie nel teatro di Brecht.
Si tratta in definitiva di valorizzare tutto ciò che interrompe il corso abituale degli avvenimenti, consentendo così la ri-scoperta delle situazioni (sulla base di una produttiva estraniazione dalla modalità abituale della loro percezione). Va dunque privilegiata proprio l’interruzione (e nel teatro ci si può proficuamente orientare in tal senso) e in quest’ottica ha valore proprio – nella recitazione – lo strumento della citazione… sono i gesti a essere allora particolarmente richiamati, in virtù del loro effetto di spaziatura, a cui si può ridare opportuna e franca presenza. Del gesto è in breve sottolineata la sua portata di rottura della presunzione di messa in ordine rappresentata dall’idea di una identità rigorosamente determinata e collocata (di un principio identitario indiscutibile). Il gesto scuote le certezze di controllo/padronanza dell’io, il suo presumersi precisamente centrato, evidenziandolo invece nel suo costitutivo essere fuori-luogo. C’è insomma una valenza «didattica» dell’esperienza di Artaud, soprattutto in quella «fatta» di teatro? Questione difficile e apparentemente priva di senso, a una prima lettura. Forse però rivelatrice – nel gesto – di un fuori che si localizza, che si fa fuori-dentro nel dire «a(d)-Dio»: che cosa? L’indirizzo della sua ineludibile irrappresentabilità.
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