Il femminismo non è uno stile di vita
Ricordando bell hooks
Stavo scrivendo un pezzo su Il femminismo è per tutti di bell hooks appena uscito per le edizioni Tamu, dove la i di tutti è la punta buia di un cono di luce in copertina, dove un fascio luminoso sembra illuminare uno schermo nero, dove il titolo è chiaro, quella lettera forse un po’ meno. Stavo pensando a un certo rimando, la I dell’inglese Io, quella straight dark bar, la barra dritta e scura in cui Virginia Woolf vede la verticale fallica di una erezione che getta nell’ombra chi gli sta vicino. L’io dritto, dominante, prevaricante che sta e non si cura di quanto spazio occupi. Stavo cercando di dare a quella i nera del titolo in copertina un’altra possibilità, magari un’idea di x, ⋆, ə, magari alludendo a quella nerezza che è un colore connotato di sofferenza e al contempo di resistenza, parole care a bell hooks.
A giocare un po’ con questa mia voglia di afferrare la sua scrittura ancora una volta, si deve essere messa la sua imprendibilità, o quell’idea gioiosa che alla fine non si finisce mai di essere vivi, perché il 15 dicembre, mentre scrivevo, una cara amica, compagna di molti momenti di riflessione e di un’ironia fulminante tanto simile a quella di hooks, mi ha inviato la notizia della sua morte, sapendo che mi avrebbe fatto piacere apprenderla da lei prima che dai giornali. Mi è venuta voglia di rivederla, di risentirla parlare – ci sono molte sue interviste, mille conversazioni in rete. Mi è venuta voglia di rileggere tutto quello che negli anni avevo accumulato, e ritornare al suo pensiero, lucido, libero, al suo femminismo esperienziale, critico e non decostruttivo, al suo concetto di lotta e di come il femminismo sia politica. Ho riaperto Insegnare a trasgredire per ragionare su cosa voglia dire quel luminoso sottotitolo, educazione come pratica della libertà, mi sono ritrovata a godere di quel suo modo diretto non semplice, complesso e mai scontato, che non semplifica, semplicemente sa dove sta andando.
Non voglio qui dare conto delle innumerevoli curve della strada che la sua scrittura ha comportato nella mia e nella mia idea di femminismo. Solo ritagliare qualche frammento, accendere qualche fiammella, riaprire qualche pagina. Magari fare un po’ di luce, come sembra farla la copertina giallo-nera dell’ultima traduzione uscita, su qualche ambiguità.
Ci sono due grandi fraintendimenti intorno al femminismo. Uno, enorme, storico, ancora largamente diffuso, aver creduto e credere che il femminismo sia anti-uomini. Il femminismo non è anti-uomini, dice bell hooks, gli uomini non sono il nemico, il sessismo lo è, quello sistemico istituzionalizzato. Il femminismo mira a mettere fine al sessismo, allo sfruttamento sessuale e all’oppressione. Come si può non essere femministi?
L’altro, che il femminismo sia una questione femminile legata a certi diritti di uguaglianza, di parità di salario, di ruoli domestici da parificare, di libertà delle donne di essere chi vogliono, di abortire, essere lesbiche, combattere violenze e stupri. Meglio, che le femministe vogliano quello che hanno gli uomini, la stessa libertà, lo stesso potere, anzi, lo stesso sistema di potere. Un’idea di liberazione che, è vero, ha segnato il primo femminismo ma di cui si sono appropriati i mass media patriarcali perché facile da gestire, facile da approvare e quindi da fare proprio, dandogli il permesso di esistere, paternalisticamente. Come a dire, ma sì, un po’ di voce anche a loro che così non devono urlare per farsi sentire veramente, così la loro lotta rivoluzionaria resta un forte sentimento anti-uomini contro ingiustizia e dominio.
Così qualcosa si muove, un po’ di donne nei posti di potere, due baffi e due soldi, e via, se anche poi il sessismo resta nello sguardo, nelle parole, nel sistema, che sarà mai, siamo pur sempre figli di una narrazione in cui pare che le donne stessero dentro la caverna-cucina (magari a inventarsi la ruota!), gli uomini fuori col loro talento innato per la caccia. Il sessismo non muore, ma la libertà di muoversi all’interno del sistema esistente è garantita. Un modo per zittire il pensiero femminista rivoluzionario, quello che a un certo punto, molto grazie a bell hooks, si accorge che anche le donne legittimano un pensiero sessista, che si comportano allo stesso modo di uomini sessisti, che la classe conta, chi erano quelle donne rivoluzionarie, ricche o povere? che la razza conta, erano bianche o nere? che c’erano e ci sono donne che attraverso il sesso, la classe e la razza dominano e sfruttano altre donne. Sarebbe stato e sarebbe l’inizio di una rivoluzione politica che affronta le differenze, vale per tutti, vale per chiunque subisca un sistema patriarcale capitalista suprematista bianco, come lo definisce hooks concentrando tutto il problema in quattro parole. Non poche donne bianche privilegiate una volta assunto il potere hanno dimenticato le visioni femministe rivoluzionarie, uomini bianchi sono stati e sono disposti a considerare i diritti delle donne perché concedendoli a loro possono permettersi di mantenere la loro supremazia bianca.
Insomma un femminismo che diventa subito accettabile, che si accomoda in qualsiasi poltrona, si infila due tacchi o due ciabatte, che mentre si appropria del potere accetta il potere così com’è, basato sullo sfruttamento e l’oppressione. Un bel femminismo capitalista che di politico non ha più niente, una posa: l’obbligatorietà di un atteggiamento femminista e non la necessità della sua visione del mondo. Cito: «Adesso le donne credono di essere femministe solo perché si oppongono a un uomo o perché lottano per avere pari diritti sul posto di lavoro, o in favore dell’aborto o contro le molestie sessuali. Mi capita spesso di vedere donne che in un certo senso non amano affatto le donne, che non hanno compiuto nessun processo di conversione, e che pure assumono l’identità di femministe. Non sono assolutamente interessata a un femminismo ridotto a stile di vita […]. Per scegliere la politica femminista bisogna aver fatto un’esperienza di conversione mentale, perché tutti noi siamo stati condizionati a essere sessisti. […]. Chi ha una visione ampia e articolata del capitalismo sa bene che il problema è il sessismo, non gli uomini».
Allora, in parole povere, si fa per dire: visione rivoluzionaria, conversione mentale, politica anti oppressione e sfruttamento di donne, uomini, ma aggiungerei animali, terre, corpi umani e non umani. Per stare reali, concreti, direbbe hooks, da dove si comincia? Da una delle rivoluzioni del pensiero che più fatica a imporsi, quella totale e irreversibile del linguaggio. È il linguaggio, le parole che usiamo per dire le cose, per nominarle, per raccontare di noi e del mondo che se mutano di senso, se diventano inclusive anziché essere binarie, se vengono risignificate, se sostituiscono quelle del dominio con quelle dell’amore, per usare un suo bellissimo libro, Tutto sull’amore, modificano i modi di pensare e di fare, di articolare le relazioni, gli affetti, le dinamiche di potere. Il linguaggio è il luogo della lotta, dice hooks, si gioca tutto lì, con le parole per dirlo. Con l’essere impegnati nei confronti dell’immaginazione.
Per esempio, immaginando il margine, altra parola cara a hooks, quando dice che non è un destino, quando afferma che il centro non è la meta: il potere va contestato non reclamato. Chi ha detto che bisogna reclamare il centro, quel centro che è luogo di un potere che per stare lì ha assunto tutte le categorie violente, esclusiviste e oppressive, del potere gerarchico? Perché invece non fare della marginalità un luogo radicale di possibilità, uno spazio di resistenza, di vissuti che cambiano prospettiva, così dice hooks, e immaginano nuovi mondi? Godere del fare comunità, del generare assemblee, piccole, sparse, ovunque, godere del mancare il centro, e marcare la periferia, leggere e rileggere tutto, sapere e ripensare quel sapere, fare di ogni discorso un’occasione di ribaltamento politico tra chi racconta e chi è raccontato, tra chi sta parlando e chi non ha ancora parlato, eliminando categorie come basso e alto, attraversando accademie e centri sociali, se ne restano, pendolando tra piazze e talk show, arrivando al centro senza fare di questo una aspirazione, senza dimenticare mai la periferia, come faceva lei, con il suo pensiero insieme al suo corpo, con parole che non siano capite narcisisticamente tra simili ma da tutti perché provate e vissute non solo studiate.
Fare del femminismo un movimento femminista di massa, sì, di massa, in un’epoca in cui certe categorie di classe sembrano saltate, in cui pure il pensiero quello critico e riflessivo sembra non avere tanta seduttività, in cui pare che solo certa stupidità sia rimasta sul tavolo dei nostri piaceri, dei nostri modi di stare al mondo senza sentire un certo male di vivere, come se il sapere portasse malessere insieme alla consapevolezza, infelicità insieme alla scoperta. Come se sopravvivere fosse meglio che vivere, programmare la vita fosse meglio che vivere senza progettualità.
Quando l’ho sentita parlare la prima volta era il 1998, a Bologna, l’associazione Orlando l’aveva invitata insieme a Maria Nadotti. Una folgorazione, e una certa presa di parola quando Nadotti strappò letteralmente il microfono alla traduttrice e scusandosi più con chi era lì per ascoltare hooks che con la traduttrice stessa, disse «Mi dispiace, non è possibile ascoltare le parole di bell senza il tono, l’impeto, la forza, la potenza con cui le pronuncia». Non poter fare a meno della passione del pensiero, la passione per cosa dice hooks dopo averla pensata cento volte, il tono e il ritmo con cui si muove la sua voce insieme all’intero corpo, la sua capacità di mortificare ogni retorica con l’umorismo, l’ironia con cui le cose della vita soprattutto quelle dolorose finiscono per non fare più male, per originare potere.
bell hooks ha scritto tantissimo e ha iniziato con la poesia. Ho voglia di piangerla così, oggi, con certe parole che risuonano comuni in qualche verso tratto da D’amore e di lotta di una grande poeta, nera, lesbica, femminista, guerriera, come si definiva lei stessa: Audre Lorde, che bell hooks amava moltissimo:
For those of us who live at the shoreline
standing upon the constant edges of decision
crucial and alone
for those of us who cannot indulge
the passing dreams of choice
who love in doorways coming and going
in the hours between dawns
looking inward and outward
at once before and after
seeking a now that can breed
futures
like bread in our children’s mouth
so their dreams will not reflect
the death of ours.
For those of us
who were imprinted with fear
like a faint line in the center of our foreheads
learning to be afraid with our mothers’ milk
for by this weapon
the illusion of some safety to be found
the heavy-footed hoped to silente us
For all of us
this instant and this triumph
[…]
So it is better to speak
remembering
we were never meant to survive.
Per quelle di noi che vivono sul margine
ritte sull’orlo costante della decisione
cruciali e sole
per quelle di noi che non possono lasciarsi andare
ai sogni passeggeri della scelta
che amano sulle soglie mentre vanno e vengono
nelle ore fra un’alba e l’altra
guardando dentro e fuori
e prima e poi allo stesso tempo
cercando un adesso che dia vita
a futuri
come pane nelle bocche dei nostri figli
perché i loro sogni non riflettano
la fine dei nostri
Per quelle di noi
che sono state marchiate dalla paura
come una ruga leggera al centro delle nostri fronti
imparando ad aver paura con il latte di nostra madre
perché con questa arma
questa illusione di poter essere al sicuro
quelli dai piedi pesanti pensavano di zittirci
Per tutte noi
questo istante e questo trionfo
[…]
Perché è meglio parlare
ricordando
che non era previsto che noi sopravvivessimo. *
* Audre Lorde, D’amore e di lotta. Poesie scelte, a cura di WiT Women in translation, introduzione di Loredana Magazzeni, postfazione di Rita Monticelli, Le Lettere (2018).
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