Una mostra alla Galleria Nazionale di Roma (13 dicembre 2018 / 23 gennaio 2019) racconta la fine e l’inizio delle forme di mondanità. Tra apocalissi culturali e metafisiche della mescolanza si fa >…
Infine: ovvero ricominciare dal mezzo
Foglio di navigazione nella contingenza di una mostra (ilmondoinfine: vivere tra le rovine)
Il testo qui riprodotto è il foglio di sala relativo alla mostra ilmondoinfine: vivere tra le rovine (Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea, Roma, 13 dicembre 2018 / 23 gennaio 2019).
Da dove si comincia in una mostra che, esattamente come il tema di cui parla, non ha un inizio e non ha una fine? Che a partire dall’ambivalenza del suo titolo getta il visitatore sulla soglia di un punto di crisi, di un terreno franante che è anche quello della sua posizione di umano, entità qui non privilegiata tra gli altri viventi nemmeno quando ha il compito di salvarli.
Qui, da un’estetica di superficie che dispone su uno stesso piano opere e oggetti, reperti e frammenti, segni e associazioni, in un ordine che non è quello di una storia naturale o culturale, si potrà forse osservare la formazione di una sintassi ecologica, a partire dalla quale l’eco, prima di essere un discorso morale o politico, è quel riverbero tra le cose che è forma di una relazione, quel tra che farà lo spazio di una prossimità inattesa e meravigliosa tra entità percepite inavvicinabili
Si comincia dal mezzo: come l’erba, senza fine e senza inizio, qualunque punto consente l’accesso immediato a un mondo, a uno dei tanti possibili, che è stato, è ancora e sarà. Anche in questo museo. Si comincia superando i dualismi, la natura e la cultura, il soggetto e l’oggetto, l’organico e l’inorganico, la vita e la morte, la staticità e il movimento, e scegliendo di porsi, da viventi umani con qualche prerogativa e anche qualche limite, al piano degli altri: minerali, vegetali, animali, nell’ormai confusione dei confini tra i regni… Qui, da un’estetica di superficie che dispone su uno stesso piano opere e oggetti, reperti e frammenti, segni e associazioni, in un ordine che non è quello di una storia naturale o culturale, si potrà forse osservare la formazione di una sintassi ecologica, a partire dalla quale l’eco, prima di essere un discorso morale o politico, è quel riverbero tra le cose che è forma di una relazione, quel tra che farà lo spazio di una prossimità inattesa e meravigliosa tra entità percepite inavvicinabili.
In questo senso, nell’intendere l’ecologia come quella prassi poetica di pertinenza umana che di continuo, a seconda dei mondi, riconfigura le rispettive posizioni tra gli enti e finanche le loro divisioni, questa mostra più che da un’ispirazione ecologica muove i suoi passi da premesse che interrogano proprio quel mezzo nel quale anche noi stiamo. La nostra lingua vuole che lo si chiami ambiente, quella franca lo dice direttamente: milieu, luogo di mezzo. Certo, la mostra non ignora il fondale apocalittico che cosparge di narrative della fine il nostro paesaggio, sul quale appunto ormai si staglia una discussa era geologica chiamata anthropos. Né ignora le affezioni che un vertebrato superiore doppiamente sapiens con la propria permanenza ha trasmesso al resto della vita planetaria, nel proprio affannarsi a cercare un modo tutto suo – appunto, suo – per starci. Ma ciò che qui si vuole fare – con una mostra, dentro un museo – è interrogare proprio il formarsi di un modo nuovo di relazione tra le cose, a partire dalla fine di quelli precedenti.
Per questo la prassi artistica è qui convocata, al pari di altri oggetti, al pari di altre prassi nemmeno prettamente umane, a dire la propria non sulla salvezza o il rischio di estinzione, non sui rimedi alla nocività e le risposte alle emergenze, ma ad aiutarci a riconfigurare il re-incanto di un mondo a partire dal fatto che la poetica è, fra le facoltà umane, quella che forse più di tutte un mondo consente di inventarselo. E l’incipit non sarà un punto vergine e incontaminato, ma quel luogo, che è il nostro mondo attuale, che è sempre già iniziato, sempre già corrotto – prima che dall’industria o dall’inquinamento, dall’agricoltura o dal capitalismo – già dall’idea che il vivente dotato di linguaggio si fa della natura.
Così, le opere che qui si troveranno sono tutte accomunabili dal situarsi su una soglia – che tuttavia non è mai la stessa – tra ciò che finisce e ciò che comincia, tra la rovina di un disegno compiuto e il suo ri-assemblaggio. Per questo tutte assumono, a prescindere dalla loro poetica specifica, la posizione dell’interstizio, e già nell’accettare di convivere con altro dall’arte affermano una coesistenza possibile tra entità diverse, la cui natura – delle parti, del tutto – non precederà la relazione. E allora, forse, la mostra finirà per azzardare l’ecologia di un mondo perturbato nel quale il riverbero tra le cose non è necessariamente armonia, ma nemmeno più operazione di conquista
Così, le opere che qui si troveranno sono tutte accomunabili dal situarsi su una soglia – che tuttavia non è mai la stessa – tra ciò che finisce e ciò che comincia, tra la rovina di un disegno compiuto e il suo ri-assemblaggio. Per questo tutte assumono, a prescindere dalla loro poetica specifica, la posizione dell’interstizio, e già nell’accettare di convivere con altro dall’arte affermano una coesistenza possibile tra entità diverse, la cui natura – delle parti, del tutto – non precederà la relazione. E allora, forse, la mostra finirà per azzardare l’ecologia di un mondo perturbato nel quale il riverbero tra le cose non è necessariamente armonia, ma nemmeno più operazione di conquista.
A visitarla, questa mostra, si potrà dunque cominciare dal mezzo, e a ciascuno starà di decidere se esso è la permanenza in metamorfosi di un diluvio di Emanuele Becheri o la geologia in formazione di Massimiliano Turco, che ci ricorda che la Terra è un astro. La natura morta e insieme graziata dalla vita di Chiara Bettazzi o le schegge di paesaggio di Virginia Colwell. La tensione inesorabile e vitale di una selva capace di accogliere senza morale un abuso edilizio nella fotografia di Gigi Cifali o la rizosfera – intelligenza e relazione – delle micorrize catturate – non c’era altro modo – dagli schizzi di Rosetta S. Elkin.
Nuovamente, nel mezzo, questa volta architettonico di un ballatoio, spunta un tunnel di suoni – installazione a più voci curata da Eva Macali –, citazione di una camera delle meraviglie che sceglie di circondarsi di quanto ci circonda, di quella vibrazione che si propaga attraverso l’aria o altri agenti elastici (i nostri corpi inclusi) e che ci immerge in un ambiente del quale non solo siamo parte ma che è dentro di noi.
Di certo nel mezzo di questa mostra non figura la centralità dell’umano, che compare nei profili astratti di un’ascensione cosmica con il lavoro site-specific di MP5 e scompare nella metamorfosi minerale di una summa di polveri, riduzione della sua Storia, nel lavoro di Gian Maria Tosatti. Mentre Fiamma Montezemolo predispone un tappeto al quale l’umano visitatore può accedere senza scarpe e accomodarsi in un ambiente che è – sempre – insieme coesistenza di tecnica e natura. Ma quale natura? Quella naturante, principio generativo e indifferenziato che accompagna il divenire, come nell’immagine del Ceppo sradicato di Christoph Keller, o quella naturata dei suoi collage, ricomposizione di mondi tra una classicità archeologica che è stata forma del vivente e la relazione con la vita vegetale che tuttora conservano gli abitanti della foresta Amazzonica ricavata dalle sue foglie?
Anche le geografie e i paesaggi procederanno lungo le giunture, a ridosso del tempo e della geologia, ricordandoci come fa Pietro Ruffo che la planimetria è una proiezione del globo variante nell’intenzione di chi guarda, che la geografia serve a fare la guerra e che l’alto di una canopea la si vede meglio dal basso. O il progetto di paesaggio di Franco Zagari: per il futuro urbano di una grande metropoli immagina una rivoluzione verde che interpella in una nuova istituzione tutti i suoi abitanti. Tra i quali senz’altro figurano le mosche di Felice Cimatti: poggiata su una carta geografica, l’animalità frenetica che a loro ci accomuna, pur nella diversità delle interpretazione, riconduce per entrambe le specie lo spazio di casa al tragitto per raggiungerla.
Infine, più nel mezzo di tutto: gli oggetti provenienti dai musei, dalle collezioni, dalle cure di chi ha avuto l’orecchio per sentire l’eco di un ambiente artificioso che volevamo produrre, fatto di opere e cose. Da umani le abbiamo nominate, repertoriate, assegnate alle divisioni che di volta in volta ci è piaciuto inventare, decidendo cosa sono. Qui talvolta sfuggono al nostro statuto. Un’immagine vale per ciascuna di loro: nella «relazione di timidezza» dello scatto fotografico del giardiniere entomologo Gilles Clément, la vita delle piante sa disegnare a partire dai margini un rapporto tra singoli che preserva la vita di tutti. Vi si potrà vedere una Mimosacea o un altro modo per stare al mondo. Infine.
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