Isolarsi, incarnarsi, farsi scrittura
«Les Dissidentes» di Fatima Bianchi

Una premessa. Mi sono avvicinata all’opera di Fatima Bianchi Les Dissidentes, prodotta da Careof e realizzata grazie al sostegno dell’Italian Council, seguendo l’invito delle curatrici Marta Bianchi e Marta Cereda a scriverne e ad attivare un dialogo con il lavoro. Le righe che seguono emergono da una serie di conversazioni avvenute con l’artista mentre affrontava il processo di promozione del film in Italia e all’estero. Le riflessioni sono state scritte da una posizione geografica precisa, l’isola della Giudecca a Venezia, dove mi sono trovata a trascorrere alcuni mesi. Sono il frutto di attese, di ritorni in una collocazione spaziale che ho scelto di assumere per il desiderio di approfondire la relazione tra geografie, territori e scrittura critica, partendo dal corpo come metro disciplinare. Dal luogo dove si trova, dai paesaggi che riflette, osservando come questi riverberano nel pensiero, negli immaginari, nell’analisi, nelle poetiche.
Les Dissidentes (visibile fino all’8 giugno al Museo del Novecento di Firenze nella mostra «Messaggere») è un mediometraggio ambientato su un’isola che non viene mai nominata, e che per questo resta uno spazio simbolico, esemplare, astorico, luogo di separazione, di confino, di isolamento appunto. Isola come luogo che nutre una specifica relazione con il dolore, il sogno, la separazione, con la necessità di negoziare costantemente un dentro e fuori, un’esclusione, un’espulsione, un’attrazione. Isola che si rivela come costrutto teorico e spaziale, e insieme condizione sentimentale, affine alla malinconia, qui una malinconia mediterranea (Chambers, 2018), che intesse una relazione con il non essere, con l’essere ai bordi del tempo e dello spazio, in modalità lontane dalle forme egemoniche in cui queste categorie vengono assunte. Isola come misura di un dolore, ma anche come contatto con l’orizzonte, l’abissale, il fantasmatico, con il margine, con il fluttuare costante dell’esistente, con la continua smaterializzazione dei suoi confini, con la dimensione infinitamente grande dello spazio intorno, e infinitamente intima del suo corpo interno. Isolarsi, incarnarsi, situarsi, farsi scrittura. Il testo è una schiuma, un gorgoglio a più voci, quella di Fatima e mia, e altre attraverso noi, che prendono corpo e parola in queste righe e nelle diverse dimensioni del lavoro.
Cara Fatima,
ti scrivo dalla Giudecca, in una mattina avvolta dalla nebbia. Da una luce bianca, da un’aria densa, ovattata, translucente, che declina la visibilità in una forma di abbaiamento sordo, che tocca i corpi come un velluto, e richiede di assottigliare nuove categorie percettive per disporle all’ascolto, all’orientamento. Una luce che isola.
Penso alla nebbia dell’isola di Les Dissidentes, al suo disciogliersi, per lasciare apparire un altro reale, a questo spazio delle tue madri, calate in un Mediterraneo abissale. Le coordinate di questo luogo rimangono operosamente evanescenti a narrarci uno spazio del possibile, fantasmatico, eppure tangibilmente concreto, risuonante. Uno spazio che si moltiplica, dove i Nord e i Sud del mondo sembrano convergere.
Sono infinite le latitudini in cui questa isola e queste madri, queste isole-madri, potrebbero riapparire: dalle coste del Marocco, al Sud della Francia, alla Sardegna, fino a qui. Isole che imprigionano, che raccolgono, che portano i segni di una distanza e di una costrizione, di un dolore dell’isolamento. Il mare come pelle le incorpora, le avvolge e le ristagna. Dove sono queste donne? Perché sono lì? Quali memorie vivono ancora in loro, e nei loro corpi, delle loro lotte? In che tempo sono? Sono riti di prossimità che le tengono vicine, e noi a loro. È un mare che si fa corpo e le rivela: un Mediterraneo che esonda attorno e arriva a noi come spazio simbolico, materico, onirico e insieme politico.
Fatima Bianchi scrive e immagina Les Dissidentes a partire dall’esperienza autobiografica della maternità, in un assetto critico rispetto alla sua rappresentazione, violando il tabù della società occidentale e patriarcale di rappresentarne il lato oscuro, il dolore, l’isolamento. Il lavoro nasce dal desiderio di decostruire la monumentalizzazione del culto della figura materna, la sua rappresentazione monodimensionale, schiacciata su un amore universale senza pieghe e sfumature, inabissata in un ruolo che non la legittima al mondo se non in funzione della riproduzione, della procreazione e del lavoro di cura.
In un momento storico di crisi delle nascite, la maternità assume e incarna socialmente una portata eroica, solitaria e accecante, uno stato di eccezione, che nel suo ergersi paradossalmente si crepa nella distanza dal mondo. Al dolore dell’isolamento, l’artista risponde politicamente, attivando le pratiche del femminismo, gli spazi di parola, in luoghi materiali e immateriali, connettendosi ad altre donne e madri attraverso la rete, seguendo gruppi Instagram sul tema, in Francia molto attivi – tra questi il noto Mama Blues ‒, generando connessioni, alleanze, parentele non sanguinee. Il processo è parte sostanziale del lavoro, sia perché sottolinea il posizionamento politico dell’artista, sia perché diventa prassi incarnata nella propria esperienza biografica, un atto di salvataggio, di cura del sé, di trasformazione, di scultura sociale. Creando e attraversando questi gruppi, l’artista raccoglie testimonianze, condivide l’opportunità di avere una voce, apre il silenzio e trova nuove parole, singolari e collettive. Le cuce in un racconto orale, e poi visivo, con l’ausilio di alcune attrici, anch’esse madri che sono protagoniste del lavoro.
Cara Maria Paola,
Ti scrivo dall’aeroporto di Rabat, dove ieri ho presentato il film in un centro d’arte, sono stati giorni bellissimi dove ho potuto incontrare i due curatori che hanno seguito il progetto e una storica dell’arte, sociologa con la quale ho discusso in un dibattito aperto al pubblico dopo la visione del film. Nel mio lavoro di ricerca sono partita da testimonianze di madri che si ribellano a un sistema patriarcale. Ho raccolto le loro testimonianze, tessendo delle trame di voci che emergono piano piano come se arrivassero alla superficie del mare e poi a riva. Insieme alle lenzuola, i loro pensieri diventano udibili allo spettatore mentre guardiamo i loro gesti, le loro mani ci conducono nei meandri di esperienze difficili.
Il film è ripartito in tre segmenti principali. La prima parte in bianco e nero è un cut-up di immagini di repertorio filmate dalla regista e poi assemblate nel 2023, sonorizzate dal musicista Alessandro Bosetti, in un montaggio secco, incalzante, che recupera la temperatura vibrante dei movimenti femministi contemporanei. La seconda parte arriva invece con uno stacco potente, visivamente vicino alle atmosfere di Nostalgia di Andréj Tarkovskij, immerse nell’enigmaticità della nebbia. Non sappiamo se la regista ci conduca tra le maglie di uno sci-fi femminista, in un racconto distopico o in un luogo concreto, documentato, ai margini di un Mediterraneo attuale. Un’isola avvolta nella foschia, in un paesaggio abissale, che poi scopriamo essere un luogo di detenzione carceraria. Un’isola come urna. Qui troviamo alcune donne in abito da lavoro, sorvegliate a distanza, che eseguono gestualità e nuclei di azioni simbolici: lavano le lenzuola nel mare, le strizzano, le lasciano scorrere tra i flutti come entità lattiginose, nel sale, le asciugano. Puliscono macchie concrete e simboliche, memorie, ricordi, sangue.
Le loro parole, in voice over, sono le testimonianze dei processi raccolti nei mesi da Fatima, dove l’esperienza della maternità si manifesta dal lato del dolore, dell’indicibile, di una solitudine sociale e politica cui viene consegnata nella società contemporanea. I racconti prendono corpo nella temporalità del silenzio, della sottrazione, attraversano un’attesa potente, una solitudine che erompe e che spinge, come in un parto, con determinazione. È un enunciare che arriva in modo visivo, percettivo, tattile, diventa corpo che diventa spazio, e poi voce e visione: l’isola, la nebbia, i corpi, i paesaggi, l’acqua nel loro affiorare e rifrangere. L’opacità in cui calano le immagini giunge a noi come protezione, resistenza, ma anche come possibilità, apertura, epistemologia. Come ci indica Édouard Glissant in Poetica della relazione, le immagini rivendicano il diritto a un linguaggio minoritario, che si pone volutamente lontano dal consumo parossistico della rappresentazione e della trasparenza, per fondare forme e lingue oscure, aliene, scegliendo di situarsi politicamente e poeticamente tra le soglie, le nebulose, le zone di indistinzione, i varchi, rigettando categorie identitarie definite. Un linguaggio insulare, che ha origine proprio nella realtà disseminata e decentrata degli arcipelaghi e rappresenta un invito a osservarci come costellazioni di mondi e di dissidenze. Moltiplica, rifrange, getta connessioni: invita a collegare i punti, trovarsi, a collocarci nella storia trasformandola, a osservarci non come singolarità ma come intreccio, manifestazione del nostro farci mondo.
Quest’isola è parte di un arcipelago? Se guardo all’orizzonte mi sembra di sì. Le donne stesse che appaiono sono un arcipelago. Accanto a queste donne, nell’isola, un’immagine fantasma si affaccia, prende corpo, si staglia nella memoria, apre a un altro tempo, quello della spettralità della storia: è una figura singolare che osserva, una guardia carceraria che sovrintende tutte le temporalità, stabilendo un dispositivo visivo di sorveglianza. L’isola si rivela come un panopticon dove il potere politico e patriarcale è incarnato nel corpo di una donna, lontanissima eppure vicina, nella sua nitidezza, emersa dallo sfondo di una sfocatura. Ci interroga. Il suo sguardo è in noi? Il suo guardarci è una ferita: ricorda come sia difficile estirpare il linguaggio dell’oppressore. Fatima Bianchi sembra qui recuperare le importanti lezioni del femminismo afroamericano, e fare riemergere le questioni poste da bell hooks quando con Alice Walker «descrive – rispetto alla condizione afroamericana – l’annientamento spirituale operato dalla cultura dominante come il dolore che mina ogni tentativo di liberarci dal dominio, quello che viene imposto e quello che viene interiorizzato… un dolore che annienta il nostro senso di libertà (..) È un dolore inesorabile, senza fine. Un dolore insidioso capace di trasformare persone generose e amanti della vita in un popolo che non prova più empatia verso il mondo. Siamo consumate dalla nostro stessa sofferenza».
In Belonging in italiano Sentirsi a casa bell hooks recupera, dopo aver vissuto lontano dalla sua terra d’origine, una relazione con i luoghi, tra i corpi e i luoghi, attraversando in forma letteraria la sua biografia, trasformata in traccia, mappa, sapere incarnato. Ritornando a visitare il Kentucky, gli spazi dell’infanzia, cerca un territorio dove il suo corpo possa riconoscere un senso di appartenenza e un linguaggio proprio e insieme comune. Un ritorno alla lingua, attraverso lo spazio e il corpo, a una lingua che hooks intende come un luogo di lotta. È un bisogno di resistere che ci rende liberi, che decolonizza le nostre menti e tutto il nostro essere (hooks). Quale lingua per queste madri?Come si può articolare una phoné in quest’isola, in questo isolamento? Quale lingua le connette in questo isolamento?
Alla Giudecca c’è un penitenziario femminile dove è presente un’associazione attiva di donne. Gramsci ha scritto alcune tra le sue opere significative nel carcere, su un’isola, Ustica. Tra queste le Lettere, una raccolta epistolare dove si intreccia il personale con il politico, dove si circoscrivono confini, si riassettano abitudini e forme di vita interspecie, e insieme pratiche di resistenza in un interregno tra i mondi, tra il fuori e il dentro, tra gli affetti e il potere, la solitudine e il desiderio di mondo. In questo contesto scriveva: Il tempo mi appare come una cosa corpulenta, da quando lo spazio non esiste più. In questo mare che è madre, come la stessa parola risuona nella lingua francese, lo spazio si inabissa, si fa isola fantasma.
Mare_Madre_Materia. Ma è un fonema che si trasmette dall’antico sanscrito a noi per indicarci possibili vie per ripensarci materia. E qui appare un invito a moltiplicare la lettura di Les Dissidentes con le prospettive e le epistemologie indicate dalla transcorporeità, concetto che, come indica Stacy Alaimo, si estende a tutte le specie che si trovano all’incrocio tra corpo e luogo. Tra i flutti e i margini.
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