La casa degli altri non esiste

Una mostra di Dias&Riedweg a Roma

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Dias&Riedweg, La casa degli altri, Macro Testaccio, Roma (2017).

Con una doppia personale a cura di Anna Cestelli Guidi, tra dicembre e gennaio, il duo di artisti Dias&Riedweg ha presentato il proprio lavoro, per la prima volta in Italia. Una ricerca artistica, quella di Mauricio Dias (brasiliano) e Walter Riedweg (svizzero), da sempre incentrata sulle questioni e i temi dell’identità, della cultura, del colonialismo, della migrazione e dell’altro, che a Roma si è sviluppata attraverso due mostre dai titoli suggestivi: Other Time Than Here. Other Place Than Now (al Macro Testaccio), e Funk Staden (all’Auditorium Parco della Musica).

Se nella seconda mostra Mauricio e Walter hanno presentato un’installazione commissionata per Documenta_12 a Kassel, incentrata sulla storia coloniale del Brasile, a Testaccio, una serie di installazioni, video, oggetti e fotografie, dal 1999 a oggi, ha declinato e attraversato la questione migrante ponendola come vertice ottico attraverso il quale leggere le trasformazioni di un mondo contemporaneo sempre non-finito e in movimento. Se la migrazione produce un dislocamento spazio-temporale, efficacemente restituito dalla disgiunzione logica che fa da titolo alla mostra, le politiche globali continuano a disegnare e alzare muri e a promuovere principi identitari costitutivamente fascisti nella riproposta di frontiere temporali, spaziali e soggettive che si vorrebbero sostanziali e inattraversabili.

Fortezze che hanno già segnato, tragicamente, la nostra storia, e che tornano oggi, ancora più pericolose a raccontare i nostri giorni. A partire da quel vero e proprio cuore di tenebra della cultura occidentale che è stato il colonialismo, e ovviamente il suo rimosso. Ma un rimosso finisce sempre per riemergere e oggi preme, sempre più insistentemente, per far saltare in aria quei confini e quei muri che vorrebbero contenere dentro il principio del comando capitalista un diritto di fuga e di mobilità che fa del nostro tempo un altro spazio, e del nostro spazio tanti tempi diversi.

Il percorso della mostra è scandito, tra l’altro, dai video oggetti Suitcases for Marcel (2007), dalla video installazione Moving Truck (2009 – 2012), e dalla carta da parati Bloc (2014) che articolano il tema del dislocamento spazio-temporale e la critica ironica delle politiche globali. In questa chiave la mostra romana è stata preparata da una inchiesta urbana che ha portato i nostri artisti negli edifici occupati della ex Fabbrica di Penicillina a Ponte Mammolo, nella ex salumeria Fiorucci sulla via Prenestina, oggi città-migrante che ospita il MAAM, museo d’arte contemporanea, e al Baobab, centro di accoglienza per rifugiati.

Dias&Riedweg, La casa degli altri, Macro Testaccio, Roma (2017).

Da questa ricerca sul campo è nata l’opera su Roma progettata specificamente per questa mostra, dal titolo La casa degli altri: una grande e suggestiva installazione dove sopra la superficie di cocci e macerie di vite alla deriva, due grandi schermi trasmettono, con un montaggio alternativo, le immagini degli spazi e dei luoghi visitati e attraversati: la narrazione restituita dagli artisti non è quella che comprende un solo punto di vista, ma quella che libera più punti di vista simultaneamente, perché solo un caleidoscopio di prospettive più catturare la percezione del reale in tutta la sua inautenticità, come sempre inautentiche e opache sono, a dispetto di ogni mitologia dell’autenticità, le cose del mondo. Un solo punto di vista chiaro, invece è quello di chi identifica questa installazione con una vera e propria casa degli altri, perché solo un occhio imperniato sul principio d’identità può vedere un altro, lì dove ci sono solo e sempre tanti altri.

Io è un altro, diceva il grande poeta che ha rivoluzionato la poesia contemporanea (a cui si ispira, anche e non a caso, I is an Other / Be the Other, mostra curata da Simon Njami alla Galleria Nazionale), perché non esiste nessun io che non sia altro da sé, nessun io che non sia una prigione dalla quale fuggire, e quindi non esiste nessun un altro. Se non esiste un altro, non può esistere nemmeno la sua casa, neppure come atto linguistico. I molti altri di cui è fatta la moltitudine di singolarità che noi siamo, non hanno casa e non hanno una lingua specifica. Se non quella casa comune continuamente ricostruita dalle relazioni che senza sosta si tessono e rinegoziano e che, insieme all’uso e alla trasformazione delle molte lingue parlate, fanno la trama della nostra realtà. In questo senso, Mauricio Dias e Walter Riedweg sono profondamente antiheideggeriani, si potrebbe dire, e del tutto materialisti. E ancora, insistendo su questa linea, come non esiste un altro, non esistono neanche un tempo e uno spazio che non siano quelli di un ritaglio spazio-temporale continuamente modificato dai corpi che, transitando, lo attraversano.

Eccolo il segreto di questa opera di Dias&Riedweg che nella loro visionarietà riescono a cogliere la sfida politica più importante della nostra contemporaneità. Una sfida che necessita innanzitutto di una introduzione alla vita non fascista, come l’avrebbe chiamata Michel Foucault. Ed è così che potremmo definire questa loro mostra romana. Un primo archivio, anche, delle memorie dei molti altri. E una lezione, infine, su come e cosa significa fare politica con l’arte e la poesia. Senza ridurre il linguaggio a mera pedagogia, o rappresentazione ideologica della realtà.

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