Ancora sul Settantasette, l’autonomia e la creatività diffusa, il Pci di Berlinguer, la Settimana della Performance a Bologna, una mostra sul ’77 a Roma e il Festival dei poeti di Castelporziano.
La durata della Settimana
Il Settantasette come performance
Supponiamo che la posizione, o, per dir meglio, il desiderio dell’artista contemporaneo, si trovi in un campo in cui, ad un estremo, c’è la realizzazione materiale di oggetti artigianali di lusso; credo che al lato opposto dovremmo collocare la comunità. Da una parte un fare che trasferisce integralmente l’intenzione progettuale sull’oggetto, dall’altra un vivere che si concentra sul soggetto nella sua relazione con altri. Da una parte quella che abitualmente si chiama produzione, con i suoi ovvi correlati di distribuzione, promozione, presentazione, vendita; dall’altra quella che alcuni artisti e teorici 1 chiamano «riproduzione», non nel senso della moltiplicazione della cosa, ma, piuttosto, in quello del riprodursi come intenzione di preservare (né consumare né accumulare) un essere fatto di potenzialità vitali, di capacità sensoriali, di competenze linguistiche.
Un essere che, grazie al rapporto paritario e dialogico con altri, e grazie a scelte pragmatiche che tentano di sfuggire alla cattura da parte delle leggi del capitale e della società dello spettacolo, è in grado di accedere al godimento. Gli artisti che si riconoscono in questa forma di essere-al-mondo non fanno mostre, e certamente non di oggetti realizzati da loro. Casomai, si offrono all’incontro invitando a condividere, almeno temporaneamente, una situazione speciale in cui il visitatore non è più tale, ma entra a far parte della cosa che credeva di poter osservare dall’esterno. La cosa è la comunità, la situazione in cui è possibile costruire un modello di esistenza che, seppure nella consapevolezza dei limiti pratici e dei fallimenti storici di tentativi di questo tipo, si ispiri a principi di circolarità del sapere e dei ruoli, nonché a prassi sperimentali di uso non-funzionale, ludico, imprevisto, di idee e di sensorialità.
Gli artisti della comunità sanno, come tutti, che la durata della vita è limitata, e che ciò che essi possono «riprodurre» non può esserlo indefinitamente. Ecco perché il tempo, anche nella sua dimensione banalmente quantitativa, riveste importanza fondante. Il tempo dell’oggetto-opera si consuma nel lavoro necessario alla produzione e si arresta, si congela, dal momento dell’esposizione in poi, in una immagine utopica di perennità: su tale utopia sembrano convergere sia gli interessi del mercato – poiché chi compra un’opera lo fa, salvo eccezioni, supponendo una sua indefinita durata – che quelli del museo – perché l’opera musealizzata, il capolavoro, va ad ogni costo preservata nella sua integrità. L’arresto del processo di trasformazione è evidente nel dispositivo «mostra», in cui è previsto che, dal momento dell’inaugurazione in poi, tutto resti uguale, così che ogni visitatore veda la stessa cosa.
Le eccezioni a tale dispositivo sono, com’è noto, numerose; in tali casi gli artisti, come dicevo poco sopra, offrono ai visitatori la possibilità di accesso a un processo-situazione in cui i primi e i secondi restino coinvolti direttamente. Una situazione comunitaria, appunto, la cui temporalità non è congelata ma scorre, e in cui l’«opera» viene ad essere arricchita, o forse meglio, fatta, dai corpi e dalle relazioni, ovviamente; e soprattutto da una durata temporale dell’incontro, che ecceda quella della convenzionale visita ad una mostra o dell’osservazione, seppure approfondita, di un quadro, e che progressivamente porta l’altro (il visitatore, il pubblico o comunque lo si voglia definire) ad essere implicato con l’opera. Scelgo, fra i molti esempi possibili, tre che, per diversi motivi, conosco abbastanza bene.
1. la mostra dAPERtutto, curata da Harald Szeemann per la Biennale di Venezia del 1999. In questa occasione Szeemann – notoriamente appassionato di comunità di corpi e di spiriti, invitò a partecipare il cosiddetto «Progetto Oreste», un insieme variabile di artisti, curatori, attivisti, prevalentemente italiani, che non avevano mai rappresentato un gruppo con appartenenze definite, e alle cui riunioni, residenze aperte ed eventi (iniziate grazie a Zerynthia e al supporto di Mario Pieroni e Dora Stiefelmeier, nel 1997) poteva partecipare chiunque. Ovviamente una situazione in cui «chiunque» viene invitato a partecipare a una mostra come la Biennale ha di per sé qualcosa di paradossale. Il «progetto Oreste» rispose con un contro-paradosso, girando l’invito ad altri – collettivi, associazioni, spazi no-profit – anche e soprattutto non-italiani, perché presentassero, a turno, il loro lavoro. Di conseguenza lo spazio-Oreste all’interno del padiglione centrale cambiò configurazione e proposte almeno un centinaio di volte. In mostra però le regole prestabilite – in particolare il biglietto a pagamento, l’orario di chiusura, le caratteristiche dello spazio espositivo e la contiguità con le «vere» opere – creò una sorta di effetto-zoo per cui il pubblico si limitò, nella quasi totalità dei casi, a osservare ciò che accadeva per pochi secondi (giusto il tempo necessario a pensare «si tratta di qualcosa che non mi riguarda») e allontanarsi. L’ipotesi di creare una condizione di «comunità temporanea» sostanzialmente fallì, ma quella, all’epoca in buona misura inconsapevole, di dimostrare che una mostra non è un apparato immutabile, cominciò a diventare pensabile.
2. dOCUMENTA 13, nell’estate del 2012. In questa occasione molti artisti invitati, fra cui Theaster Gates, Critical Art Ensemble, AND…AND…AND, Tino Sehgal, Pierre Huygue, Chiara Fumai e molti altri, allestirono situazioni in cui la presenza, e la permanenza temporale del visitatore contribuiva in modo sostanziale alla realizzazione e alla costruzione del senso dell’opera. Le condizioni logistiche e il progetto curatoriale favorirono, in diversi modi, questa opzione, al punto di determinare una generalizzata sensazione, almeno tra quelli che hanno avuto la possibilità di fare una visita approfondita della mostra, di essere non osservatori esterni, ma agenti/attori di un grande gioco relazionale ovvero di una complessa narrazione 2. In opera. E questo, indipendentemente da un giudizio qualitativo sul contenuto della proposta artistica. L’edizione della mostra attualmente in corso a Kassel e ad Atene, ad esempio, è piena di proposte, contemporanee e non, molto interessanti che però, invariabilmente, lasciano il visitatore in una condizione di estraneità, di osservatore distaccato, capace di giudizio critico, di comparazioni storiche, di raccolta di dati, ma mai coinvolto; quasi uno scienziato di fronte a una serie di case studies.
3. Sul terzo esempio, Sensibile Comune. Le opere vive (Roma, gennaio 2017) non mi dilungo, poiché è stato ampiamente discusso e vivisezionato in questa stessa rivista. Vorrei soltanto ribadire la difficoltà di definizione della «non-mostra, non-convegno, non-festival» che tutti ci siamo trovati ad affrontare in quella recente occasione; la specificità della durata, nove giorni, troppo breve per una mostra, troppo lunga per un evento; infine il fatto che le persone che sono venute in quei giorni alla Galleria Nazionale, anche se motivate dall’intenzione di seguire un certo dibattito o presenziare a una certa performance, si son trovate in una situazione di accoglienza e molteplicità di proposte che induceva a «passare del tempo» in galleria (che non sia proprio «passatempo» la definizione giusta per Sensibile Comune?). Tutto quel tempo messo insieme, fattore tangibile di condivisione, ha costruito, come i mattoni un edificio, una condizione (di nuovo, temporanea) di comunità.
E vengo finalmente, operando un collegamento un po’ tendenzioso, alla Settimana Internazionale della Performance di quarant’anni fa – Bologna, giugno 1977 – affidata dalla Galleria Comunale di Arte Moderna, diretta all’epoca da Franco Solmi, all’organizzazione e alla curatela di Renato Barilli, con Francesca Alinovi, Roberto Daolio e Marilena Pasquali. Un evento notissimo, irreversibilmente segnato, a livello mediatico, dalle immagini di Marina Abramovic e Ulay, in immobile attesa che i visitatori, per entrare, passino, letteralmente, dentro il loro doppio-corpo nudo. La Settimana della performance si colloca, da un punto di vista cronologico, fra gli scontri tra manifestanti e carabinieri in cui viene ucciso Francesco Lorusso (11 marzo) e il convegno sulla repressione (22-24 settembre), gli uni e l’altro sempre a Bologna, avendo come sfondo i programmi di Radio Alice, che inaugura una modalità di utilizzo del mezzo radiofonico intervenendo «in diretta» nelle dinamiche e nelle strategie delle manifestazioni di piazza, e della trasmissione «in tempo reale» della propria stessa chiusura da parte della polizia.
Mi sembra necessario soffermarsi proprio sul nome, sul titolo – Settimana internazionale della performance. Ciò che mette insieme gli interventi degli artisti non è una mostra, né un festival, ma una «durata» temporale: un tempo che è addirittura in grado di appropriarsi della qualifica di «internazionale», togliendo tale qualità agli artisti e alle loro azioni. Già solo per questo, mi sembra che la «cosa» bolognese rappresenti un precedente fondamentale delle varie esperienze citate sopra. Una sottolineatura dello spazio-tempo (una settimana da passare, o passata, a Bologna), crea, almeno nell’immaginario, l’idea di una condizione comunitaria.
È certo che gli spazi della Galleria Comunale sono forzati ad adattarsi, radicalmente, ad un uso non previsto per un museo di arte visiva, un po’ come i corpi dei visitatori sono forzati a passare tra Ulay e Marina. Solmi, nel suo breve testo introduttivo in catalogo, individua con lucidità un paio di punti su cui, in tempi di megalomanie architettoniche e di musei che si propongono come iper-opere, sarebbe molto utile riflettere ancora. Parlando di esperienza «traumatica» per la Galleria, che costringe a continue «invenzioni» organizzative (oggi si direbbe «curatoriali»), afferma che il museo non si trova più tanto in una posizione di «accogliere» quanto di «fare» performance; che, inoltre, questa condizione determina la scoperta di nuove possibilità, finora inesplorate, per lo spazio espositivo, e conclude dicendo «è il museo che deve adeguare le proprie strutture e le proprie norme allo sviluppo della ricerca artistica, e non viceversa»3.
Quasi nessuna delle performance della «settimana» affronta, come suo contenuto esplicito, tematiche politiche. Non c’è traccia, ad esempio, degli eventi di marzo, delle settimane di pesantissimi scontri fra polizia e manifestanti, della censura verso i mezzi di comunicazione indipendenti, e il concetto di «repressione» è interpretato molto più in termini psicoanalitici che come chiusura di spazi di espressione del dissenso politico. Se c’è una liberazione da perseguire, è quella dei corpi, del loro movimento fisico, dei sensi, al limite del pensiero creativo individuale. Non si parla mai di classe. L’istanza predominante, che del resto caratterizza tutta la seconda parte del decennio, è l’inseguimento, che sembra a tratti affannoso, ossessivo, dell’autenticità. Un vero e proprio gioco al rialzo con se stessi, e con i propri gruppi di riferimento – dalla coppia all’organizzazione di «movimento» – a mettere a nudo (i riferimenti alla nudità sono, all’epoca, assai frequenti) contraddizioni, auto-censure, forme del desiderio. Il testo di Barilli parla di questo inseguimento in termini storico-artistici, come esigenza di ri-valorizzazione dei sensi (in particolare gusto, olfatto, eros) che, per la cultura occidentale, sono considerati «minori» rispetto alla vista e che si portano appresso anche una valutazione morale negativa, la quale è sostenuta proprio dalla illusorietà garantita dalla secolare tradizione pittorica della prospettiva, dalla riproducibilità dei mezzi di comunicazione di massa, dalle tecniche della rappresentazione e della recitazione teatrale. Se il «compito delle avanguardie artistiche» era già stato quello di «liberare il sistema delle belle arti dai vasti margini di illusorietà penetrati in esso», ora si tratta specificamente di smascherare l’intreccio che lega la grande macchina illusionistica alla repressione, ampiamente interiorizzata, dei «valori bassi del corpo», e quindi di un riscatto contemporaneo del corporeo in tutte le sue componenti, e di un ritorno a un «ethos pre-individualista» e comunitario, anche grazie al recupero di ritualità arcaiche o di tradizioni non-occidentali.
E così Ricci-Lucchi e Gianikian allestiscono una sala-proiezione in cui, invece che da una colonna sonora, un film è accompagnato da profumi emessi da bracieri; Hermann Nitsch mette in scena i suoi pseudo-riti, bagni di sangue collettivi, che esasperano, evidentemente a scopo catartico, la violenza; Lamberto Pignotti organizza una degustazione di poesie-da-masticare e Arrigo Lora-Totino letteralmente «sputa» la sua poesia liquida in faccia al pubblico con l’idromegafono. Intanto Giordano Falzoni mette a disposizione dei visitatori – a due a due – una specie di tenda che, grazie a vari dispositivi fra cui un accumulatore orgonico reichiano, ma anche grazie alla preparazione e all’offerta, fatta dall’artista in prima persona, di gustose colazioni vegetariane, distribuisce gratuitamente esperienze sensoriali di piacere. Charlemagne Palestine fa Body Music facendo suonare più il suo corpo che lo strumento musicale, e Ben D’Armagnac prova a trasformarsi in un animale senza zampe e fa esperienza dello spazio strisciandovi ripetutamente dentro4. Agnetti lascia cadere delle buste (che il pubblico può recuperare) in cui si parla di un quadro, una tela che l’artista, ormai privo di braccia, lascia intatta chissà dove: il Corpo del reato. In qualche caso il tema della fisicità come realtà autentica, viene declinato servendosi della distruzione materiale dell’oggetto. Giuseppe Chiari, per esempio, si impegna in un corpo a corpo con un pianoforte, per dimostrare che: «Le dita non sono fatte per quei tasti, ma per toccare, accarezzare» e, mentre smembra lo strumento, realizza in qualche modo un concerto-per-piano. Simbolicamente significativo in questo senso, è l’ultimo atto della settimana bolognese: una grande scultura di Mainolfi viene fatta precipitare dall’alto e, in frammenti, offerta a tutti per una specie di gioco della raccolta del reperto, che è anche un modo per riprendere il potere, o addirittura infierire, sul corpo (finto) dell’opera d’arte come feticcio, come oggetto senza vita e senza mutazioni, come prodotto di artigianato di lusso, pronto ad entrare nella logica del valore di scambio e del mercato. Doveva essere il trionfo dei corpi (veri) di una comunità che, secondo Barilli, voleva ritrovare «quella stessa concentrazione psichica e fisica, quella presenza costante, gomito a gomito, che già caratterizzava i grandi raduni rituali-religiosi in cui si esprimeva il teatro greco, con la continuità e la smisurata estensione delle trilogie».
Se si trattava di una previsione, gli anni di poco successivi si incaricarono di dimostrarla sbagliata; se era una speranza, essa fu disattesa o largamente tradita, dagli stessi che avevano contribuito a suscitarla; se era una conquista, fu solo temporanea. Nel giro di poco più di un paio d’anni, insieme al generalizzato (e quindi molto «semplificato») desiderio di archiviare gli «anni di piombo» per sostituirli con l’edonismo dell’aperitivo e della chiacchiera, insieme al nuovo trionfo dell’economia de-regolata e della teoria della imparzialità della mano invisibile del mercato, insieme a tutto ciò, in arte – forse in Italia addirittura più che altrove – si verificava un massiccio e pervasivo «ritorno» dell’oggetto-opera, della inevitabilità della pittura e della scultura, del prestigio culturale della galleria commerciale, della specificità dello spazio espositivo museale, del rapporto con lo sviluppo storico in termini di «citazione», di azzeramento non soltanto di ogni contenuto, ma anche dello stesso metodo, critico Questa svolta – o, per definirla meglio, questa involuzione – fu repentina, e sembrò non lasciare alcuno spazio a forme di ricerca e sperimentazioni eterodosse. Si creò una cesura drastica e una vera e propria censura pervasiva rispetto a tutto quello che si era fatto, pensato e detto nel decennio precedente.
Forse «l’ethos pre-individualista o comunitario», di cui parlava Barilli, era rimasto, in generale, più un’intenzione e un’eccezione che una pratica diffusa. Forse molti «operatori estetici» degli anni Settanta, compresi alcuni fra i protagonisti della settimana di Bologna, non erano davvero usciti dalla logica della rappresentazione o della recitazione teatrale. Sta di fatto che quell’involuzione e quella censura furono pervasive al punto da essere interiorizzate e assunte come valore da molti degli stessi artisti e intellettuali le cui idee e ricerche ne erano l’oggetto. E, per liberarsi dall’autocensura è necessario un lavoro che non si può fare da soli. Inoltre ci vuole molto tempo.
Note
↩1 | Penso in particolare alle prese di posizione in tal senso da parte del collettivo AND…AND…AND di Ayreen Anastas e Rene Gabri |
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↩2 | Il libro di Enrique Villa-Matas, Kassel non invita alla logica, rappresenta probabilmente la testimonianza più perspicua di questa condizione |
↩3 | Tutte le citazioni di Franco Solmi e Renato Barilli sono prese dal catalogo della manifestazione, Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, I quaderni della Sperimentazione n. 1 – La performance oggi. Settimana internazionale della Performance, Bologna 1-6 giugno 1977, La Nuova Foglio Editrice, 1978 |
↩4 | Il 31 maggio 1975, in occasione dell’inaugurazione della nuova sede della Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, Fabio Mauri aveva allestito l’opera Intellettuale, che consisteva nella proiezione del film Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini sul petto del regista stesso. Questo lavoro, che rappresenta un esempio estremamente interessante di incrocio fra simbolico e reale, proiezione e materialità, opera e corpo del suo autore, è giustamente inserito nel catalogo della «settimana», anche se era stato presentato in galleria due anni prima |
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