La resistenza dei corpi
Una mostra di Carlos Martiel
La Galleria Rossmut di Roma ha ospitato la prima personale in Italia di Carlos Martiel (L’Avana, 1989), a cura di Diego Sileo, curatore del Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano e profondo conoscitore dell’arte cubana. La mostra ha raccolto la documentazione fotografica e i video che mostrano alcune sue performance realizzate dal 2009 al 2016 tra Cuba, gli Stati Uniti, l’America Latina e l’Europa, fornendo allo spettatore la possibilità di confrontarsi con l’eterogeneità del pensiero e delle azioni dell’artista.
Protagonista principale e elemento privilegiato dei lavori di Martiel è il corpo, un corpo utilizzato come strumento per indagare le relazioni politiche e sociali su cui si basano i rapporti umani, mettendone in luce le contraddizioni e la crudeltà, raccontando la forza del potere e le azioni che esso compie per mantenere il proprio status. Oltre a denunciare le strutture oppressive, il rapporto conflittuale con la memoria del colonialismo sia di chi lo ha subìto sia di chi lo ha perpetrato, l’artista si rivolge ai comuni cittadini, all’indifferenza che mostrano nei confronti delle dinamiche di violenza e prevaricazione che subiscono quotidianamente i ceti meno abbienti, i senzatetto e i migranti, soprattutto nel mondo occidentale. Martiel ne mostra il carattere più duro attraverso azioni in cui arriva a mettere a rischio la propria incolumità, lavorando sulla resistenza sia al dolore sia alla degradazione e all’umiliazione autoimposta.
Nelle opere in mostra nella galleria romana, Martiel affronta temi diversi, usando il proprio corpo in maniera sempre differente, a volte enfatizzando il suo essere vivo e in grado di resistere e lottare, a volte fingendosi morto, diventando dunque un ricordo, un trait d’union tra il presente e il passato, la cui memoria è indispensabile per il futuro. Così, un uomo con indumenti militari vanifica ogni tentativo compiuto dall’artista di sollevare la testa, spingendolo a terra con il piede (Espíritus acuartelados, 2010); Martiel, accovacciato in riva al mare, pone sulle proprie spalle un masso preso dalle acque, mantenendolo in equilibrio per un’ora (Asentamiento, 2012); divide lo spazio di una galleria statunitense in due parti con del filo spinato, ponendosi nudo all’interno della barriera e destinando una delle due zone ai visitatori bianchi e l’altra ai non bianchi, impedendo ai due gruppi di condividere lo stesso spazio e interagire (Segregación, 2015); una donna gli cuce sulla pelle del petto e delle braccia le dodici stelle gialle della bandiera dell’Unione Europea (Expulsión, 2015); cammina nudo per le strade di Guadalajara sporco di una cenere ottenuta bruciando i vestiti delle persone misteriosamente scomparse in Messico (Aparecido, 2016); giace a terra completamente ricoperto di sabbia che alcune donne cilene tolgono delicatamente con le mani, ispirandosi alle donne che cercano nel deserto di Atacama i resti dei propri cari uccisi dal regime di Pinochet.
Il 6 dicembre, giorno dell’inaugurazione della mostra, Carlos Martiel ha presentato Mar sin orillas, una performance inedita in cui affrontava il dramma vissuto dai migranti nel Mediterraneo per i quali esso è, appunto, un mare senza coste. L’artista giaceva sdraiato nudo all’interno di una teca di vetro sigillata che condivideva con larve e mosche. Centinaia di insetti volavano intorno a lui e si posavano sul suo corpo, determinando una condizione soffocante e insopportabile in cui Martiel è riuscito a resistere per più di mezz’ora. La teca che lo accoglieva immobile sembrava una bara trasparente e consentiva l’illusione della visione di un corpo in decomposizione in una forma così realistica da suscitare nello spettatore un sentimento allo stesso tempo di attrazione verso lo spettacolo che si vedeva/viveva e repulsione nei confronti di ciò che rappresentava. L’esperienza poneva il visitatore davanti alla realtà dei fenomeni migratori che terminano spesso prima di raggiungere le rive europee, concludendosi in una distesa infinita di corpi morti giunti sulla spiaggia o dispersi tra le acque. L’artista espone il proprio corpo nudo per testimoniare la sofferenze di chi scappa e porre l’accento sulle conseguenze di politiche di accoglienza inefficaci basate sull’indifferenza e mosse dalla volontà di contenere un fenomeno inarrestabile di cui ci si rifiuta di analizzare le cause più profonde.
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