La tormenta onirica
Fanon e le radici di un’etnopsichiatria critica
Arriva in questi giorni in libreria per ombre corte «Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichiatria coloniale», di Frantz Fanon, con un saggio introduttivo e a cura di Roberto Beneduce. Pubblichiamo qui un breve estratto dall’introduzione del curatore.
In quanto uomo, m’impegno ad affrontare il rischio dell’annientamento perché due o tre verità gettino sul mondo la loro luce essenziale.
Frantz Fanon, Peau noire, masques blancLa mia memoria balbetta, ma la mia anima è un testimone.
James Baldwin, The Evidence of Things not Seen
1951-1961: poco più di dieci anni. Questo il periodo di tempo nel quale Frantz Fanon prepara la sua tesi di laurea, i suoi interventi ai convegni di psichiatria, gli articoli per “Esprit”, “Consciences maghribines” o “El Moudjahid” (l’organo del Fronte di Liberazione Nazionale), i suoi libri. Un tempo estremamente breve, che gli eventi ai quali Fanon corre incontro sembrano accelerare ancora di più, imponendo alla sua scrittura un ritmo unico, perentorio: quasi il riflesso di una consapevolezza oscura, quella di una morte che arriverà a soli trentasei anni.
Le parole devono dire l’essenziale, e colpire, anche quando sono poco più che frammenti dentro cui le idee sembrano esservi state impresse con uno scatto più che incastonate con lenti argomenti. Dei problemi non si può fare allusione. Devono essere formulati senza esitazioni, come esige un tempo d’inganni e di violenze, detti nella loro verità brutale, la stessa che la storia rivela ai vinti, agli offesi: “Perché scrivere quest’opera? Nessuno me ne ha pregato, soprattutto coloro ai quali si rivolge. Allora? Allora rispondo, con calma, che ci sono troppi imbecilli su questa terra. E poiché lo dico, si tratta di provarlo”1.
I suoi testi, spesso articoli brevissimi, hanno l’obiettivo di sferzare le coscienze. Il pensiero degli avversari deve essere svelato nelle sue ipocrisie, le teorie scomposte nelle loro antinomie e nelle loro menzogne, la maschera della scienza strappata via dal volto del razzismo: “Per il colonizzato, l’obiettività è sempre diretta contro di lui”2. Sta qui, in una sola frase, il compendio di un’archeologia sovversiva che scava nelle contraddizioni dei saperi e nell’arroganza con cui gli interessi imperiali hanno preteso ripartire e classificare l’umanità servendosi della scienza. La sua analisi, a partire dalla messa in discussione politica della vacca sacra dell’oggettività, mette in luce come il sapere non è mai in un rapporto di esteriorità con il politico: è il presagio di una nozione, quella di “epistemicidio”3, che ci ricorda come i saperi locali hanno spesso finito con il soccombere o l’alterarsi di fronte all’imperialismo cognitivo delle potenze coloniali. D’altronde, il rapporto che Fanon stringe con le parole lo esprime bene questa lettera, scritta al fratello Joby:
Le parole hanno i denti e devono far male. Le parole dolci e morbide devono sparire da questo inferno. L’uomo parla troppo. Occorre insegnargli a riflettere. E per questo occorre fargli paura. Molta paura. Per questo io ho parole-archi, parole-proiettili, parole-coltello, parole che trasportano ioni. Delle parole che siano parole. E prima di pronunciare una parola, voglio vedere una maschera di sofferenza, la maschera di un uomo che cerca, di una persona delusa. Perché le parole devono essere agili, cattive. Devono levarsi, dileguarsi, strizzare l’occhio, dissolversi4.
Con il linguaggio Fanon intrattiene un vero duello, combattuto sul campo di questioni urenti, e di un progetto ambizioso che lo spinge a discendere dove pochi hanno avuto il coraggio di immergersi, per chiedersi:
Cosa vuole l’uomo?
Cosa vuole l’uomo nero?
Dovessi incorrere nel risentimento dei miei fratelli di colore, dirò che il Nero non è un uomo… Il Nero è un uomo nero; ciò vuol dire che a causa di tutta una serie di aberrazioni affettive egli si si è collocato all’interno di un universo da cui bisognerà dunque tirarlo fuori. Il problema ha una certa importanza. La mia aspirazione è questa: liberare l’uomo di colore da se stesso. Andremo molto lentamente, poiché ci sono due campi: ilbianco e il nero. Interrogheremo tenacemente le due metafisiche e vedremo che sono in via di dissoluzione5.
L’intento di liberare l’uomo nero da se stesso, dalla propria alienazione, richiede tenacia, e dovrà essere condotto “con calma”, “molto lentamente”, come per una azione che non ammette errore. Lavorare perché siano dissolte entrambe le metafisiche (quella del Bianco e quella del Nero) non è impresa semplice: significa riscrivere le forme di una relazione, di uno sguardo, di una percezione insidiata dal disprezzo e dal desiderio, dall’odio e dalla paura. Alla “situazione coloniale”, ai suoi sussulti, alla brace che cova in essa, in quegli anni, avevano guardato in pochi: Mannoni e Balandier sono eccezioni. Ma il ticchettio del tempo sembra aggiungere un paradosso: che ciò che accadrà sarà sempre in anticipo o in ritardo, non arriverà mai quando dovrebbe o lo si aspetta: “L’esplosione non avrà luogo oggi, è troppo presto … o troppo tardi”. Ed è la scrittura di questo tempo che deve come aderire come a un paradosso: “Questo libro avrebbe dovuto essere scritto tre anni fa […] Ma allora le verità mi facevano bruciare. Oggi possono essere dette senza una tale febbre”6. Questo lo stile di una scrittura che si fa già segno di rivolta e lascia interdetti i burocrati del sapere, incapaci di situare i suoi testi: scritti politici? poesia? profezia? Critica della psichiatria coloniale? filosofia?
Fanon si accinge a un compito immenso. Sa che il Nero abita una “zona di non-essere” da quando la schiavitù, la piantagione, la conversione lo hanno strappato al suo mondo. La schiavitù è stata la più violenta espressione di globalizzazione mai sperimentata, in grado di fabbricare corpi-senza-mondo, ancorati soltanto ad una memoria segreta: quella che si riproduce nell’ostinata presenza del silenzio, del mito, delle cicatrici, o del delirio. La lunga terapia che intende costruire comincerà con l’analisi della parola, del linguaggio e dell’esperienza tra i colonizzati.
Scrive in Peau noire, masques blancs che parlare “è esistere per l’Altro”, evocando quella dimensione dialogica costitutiva della parola che ritroviamo in Bachtin7. Ma per Fanon questa dimensione dialogica è, per il Nero, preclusa. La parola nella colonia è oppressa, irrisa, violata, non circola liberamente: è sbarrata. Le Antille sono a questo riguardo un caso esemplare. Il nero parla diversamente quando sta col Bianco e quando sta col suo simile; il creolo, quando non espressamente vietato (soprattutto nelle famiglie borghesi), è consentito solo nelle relazioni familiari; quanto agli ufficiali indigeni che operano fra i Tirailleurs senegalesi, essi svolgono soprattutto il ruolo di interpreti e trasmettono ai sottoposti gli ordini del padrone, del colonizzatore. L’antillano che ha viaggiato nella Metropoli ne ritorna “radicalmente trasformato”, come per effetto di una “mutazione” che si esprime già nel tono della voce, quando ai suoni di sempre si sostituiscono ora strani fruscii regolari e monotoni: “In Francia si dice parlare come un libro; in Martinica si dice parlare come un Bianco”8. È questa condizione a fare del linguaggio, per il nero e per il colonizzato, una questione la cui posta in gioco è decisiva.
Note
↩1 | Frantz Fanon, Peau noire, masques blancs, Seuil, Paris 1952, p. 25 (trad. it. Pelle nera, maschere bianche, Ets, Pisa 1996). Le citazioni sono qui dall’edizione francese, la traduzione è mia. |
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↩2 | Frantz Fanon, I dannati della terra, trad. it. di C. Cignetti, Einaudi, Torino 1962, p. 39. |
↩3 | Boaventura De Sousa Santos, Epistemologies of the South. Justice Against Epistemicide, Routledge, 2014. De Sousa Santos ricorda inoltre come non sia mai stato realizzato colonialismo o genocidio senza la distruzione dei saperi locali. |
↩4 | Joby Fanon, Frantz Fanon. De la Martinique à l’Algérie et à l’Afrique, L’Harmattan, 2004, p. 141. |
↩5 | Fanon, Peau noire, cit., p. 6 |
↩6 | Ivi, p. 5-6. |
↩7 | “Realtà effettiva del linguaggio non è il sistema astratto delle forme linguistiche, né l’enunciazione monologica isolata, ma l’evento sociale dell’interazione verbale, realizzato tramite una o più enunciazioni […]. L’enunciato in quanto tale avviene tra parlanti” (Michail M. Bachtin, Linguaggio e scrittura, trad. it. di L. Ponzio, Meltemi, 2003, pp. 91-92; il corsivo è mio). |
↩8 | Fanon, Peau noire, cit. p. 16. |
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