Le sfide dei movimenti popolari

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Piero Gilardi, Aigues Tortes (2008) - Particolare. Foto Leo Gilardi.

Il nemico è lo stesso per tutti i popoli del mondo: il sistema finanziario e le imprese transnazionali, che piegano ai propri interessi organismi internazionali e governi. Un nemico che impiega le stesse strategie in ogni luogo, che impone ovunque gli stessi processi di precarizzazione del lavoro e di espropriazione dei beni comuni verso interessi privati. Un nemico che sembra poter agire indisturbato, dal momento che all’offensiva senza frontiere del grande capitale non è in grado di rispondere una lotta altrettanto globale dei popoli del pianeta. Questa, dunque, la sfida che sono chiamati a raccogliere i movimenti popolari di ogni parte del mondo: unire le forze a livello internazionale, costruendo una piattaforma di lotta e creando sinergie tra le tante battaglie esistenti.

Uno spazio di incontro delle forze popolari è stato offerto, per la prima volta, dal Forum Sociale Mondiale, anticipato da eventi come la campagna per i 500 anni di resistenza indigena, nera e popolare del 1992, l’insurrezione zapatista nel 1994, l’apparizione dell’Alleanza Sociale Continentale contro l’Alca (l’Area di libero commercio delle Americhe) nel 1997, le manifestazioni contro l’Organizzazione Mondiale del Commercio a Seattle nel 1999: un cammino che ha portato molti frutti, a partire dalla creazione di un’opposizione globale al pensiero unico neoliberista, consentendo ai movimenti di stabilire alleanze, condividere analisi, promuovere azioni coordinate a livello mondiale. Ma, pur avendo svolto, e continuando a svolgere, un ruolo prezioso nella lotta contro il capitalismo, il FSM sembra almeno in parte aver esaurito la sua funzione storica, rimanendo impigliato nell’irrisolta questione della sua limitata capacità di incidenza. E rivelandosi alla fine incapace di opporsi al disegno del capitale di dominare il mondo, come pure di intaccare realmente il sistema simbolico della cultura dominante.

Dalla prima edizione del FSM, inoltre, il quadro internazionale è profondamente mutato, ponendo al movimento altermondialista nuove e complesse sfide. Nuovi soggetti sono emersi con le loro specifiche modalità di lotta, meno istituzionali e più orizzontali, spontanee e decentrate. Movimenti dai tratti assai distinti, ma in genere accomunati dall’opzione per forme di democrazia diretta, oltre che dall’uso delle reti sociali come strumenti di amplificazione delle proteste, di coordinamento e di comunicazione. E allo stesso tempo è mancata la capacità di offrire specifiche forme organizzative per il mondo del precariato, dell’economia informale, di quei giovani sottoproletari che vivono nella periferia delle grandi città, che non sono sindacalizzati, che non si costituiscono come soggetto politico o giuridico.

Da qui l’esigenza di dar vita a un altro spazio, in cui le diverse esperienze possano stabilire mete comuni e aspetti su cui convergere, accumulando forza sufficiente a creare un’egemonia alternativa. Un processo a cui ha offerto una spinta importante l’Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari, quel percorso di dialogo permanente costruito da papa Francesco insieme ad alcuni importanti leader sociali attorno ai tre grandi temi della Terra, della Casa e del Lavoro – sullo sfondo dell’appello del papa «Nessuna famiglia senza casa! Nessun contadino senza terra! Nessun lavoratore senza diritti!» – allo scopo di creare uno spazio di incontro e di auto-organizzazione per quell’ampio ventaglio di movimenti, grandi e piccoli, attraverso cui tutti coloro che sono stati da sempre relegati ai margini, anziché rassegnarsi all’ingiustizia, scelgono di resistere e di lottare. Un processo avviato nell’ottobre del 2014, quando più di 100 delegati – appartenenti a quella ricca galassia di forme di auto-organizzazione riconducibili in vario modo alla categoria dell’economia informale – erano stati invitati a Roma con il compito di riflettere sulle cause strutturali dell’esclusione e sui modi per combatterle, e proseguito nel 2015 a Santa Cruz de la Sierra, durante il viaggio del papa in Bolivia, dove si è dato più spazio al tema della sovranità alimentare e del diritto dei popoli al territorio, per poi far nuovamente ritorno a Roma nel novembre del 2016, ampliando il dibattito al tema della crisi dello Stato e della democrazia rappresentativa e a quello, sempre più decisivo, della difesa dei beni comuni.

Un tempo di crisi globali
E quanto sia necessario che la riflessione iniziata a Roma nel 2014 non solo venga portata avanti, ma si traduca concretamente in proposte alternative, lo ha evidenziato chiaramente, durante il terzo incontro, João Pedro Stédile del Movimento dei Lavoratori Senza Terra (MST) e di Via Campesina, sottolineando come l’umanità si trovi oggi a vivere «un tempo di crisi profonde»: la crisi del modo di produzione capitalista, ormai del tutto incapace di offrire un futuro all’umanità, esprimendo oggi nient’altro che «arretratezza, discriminazione ed esclusione»; la crisi ecologica, che vede il pianeta violentemente aggredito dal capitale, il quale si è appropriato dei beni della natura minacciando la vita di tutte le specie; la crisi sociale, vissuta in ogni parte del mondo da tutti coloro che si vedono negare il diritto al lavoro, alla terra, alla casa; la crisi politica, che, ben al di là degli innumerevoli casi di corruzione, investe la sostanza stessa della politica, che è «corrotta in quanto sequestrata dal capitale», il quale «finanzia ed elegge chi vuole», svuotando radicalmente di senso quella «democrazia borghese nata dalla Rivoluzione francese» e oggi ormai priva di legittimità; e infine la crisi etica, che mette a repentaglio, in tutto il pianeta, i tre principi fondamentali della solidarietà, dell’uguaglianza e della giustizia, contro cui il capitale «predica esattamente il contrario: il consumismo, l’individualismo e l’egoismo», centrati sull’esaltazione del consumo come ideale di cittadinanza e su una salvezza individuale legata ai propri meriti. Una riflessione, quella condotta durante il III Incontro, che avrà sicuramente bisogno di nuovi approfondimenti, sia riguardo allo svuotamento della democrazia rappresentativa e alla necessità di una nuova democrazia partecipativa e popolare, sia riguardo alla crisi etica e al recupero di quei valori che devono orientare le istituzioni pubbliche, sia in relazione alla questione dei migranti, dei rifugiati e degli sfollati, sia, infine, rispetto al tema della giustizia ambientale e climatica, dell’adeguamento del modello produttivo ai limiti del pianeta come condizione per la continuità stessa della nostra vita sulla Terra: non una questione tra tante, ma «la» questione, quella da cui tutto dipende.

Ecologia integrale
Tali e tante sono infatti le minacce alla sopravvivenza della specie umana sul pianeta e talmente esiguo è il tempo che ci rimane per cambiare rotta che non resta altra scelta ai movimenti popolari – tra i quali invece la consapevolezza della centralità di tale questione è ancora oggi limitata – che opporsi in maniera unitaria, forte e decisa, a qualsiasi politica destinata ad avere ricadute negative sugli ecosistemi e sui popoli che li abitano, anche qualora tale politica – declinata in tutte le molteplici modalità dell’estrattivismo – venga portata avanti da governi «amici», per mano di imprese statali anziché di transnazionali e in nome della creazione di posti di lavoro o del finanziamento di programmi di lotta alla povertà. E se un cambiamento dall’oggi al domani è impraticabile, il criterio non può che essere quello di sostenere tutto ciò che favorisca una transizione verso una società post-estrattivista e post-capitalista e di combattere tutto ciò che la ostacoli, generando passo dopo passo un cambiamento reale.

Del resto, difesa dell’ambiente e superamento della disuguaglianza vanno necessariamente di pari passo: solo attraverso una radicale ridistribuzione della ricchezza e un pieno recupero della sovranità dei popoli sulle risorse naturali è infatti possibile, al tempo stesso, allentare la pressione umana sugli ecosistemi e garantire condizioni di vita degne per tutta la popolazione. Che è poi il tema dell’ecologia integrale, un concetto che ha preso piede in particolare grazie alla Laudato si’ di papa Francesco, centrata sul riconoscimento che «non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale», a cui pertanto siamo chiamati a dare risposta tenendo insieme tutte le dimensioni della realtà, «per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri».

Verso Caracas
E se di questo si continuerà certamente a discutere in un futuro nuovo incontro con papa Francesco, è certo, però, che non di una sola discussione può trattarsi: se, come ha evidenziato João Pedro Stédile, il senso di questo spazio di dialogo messo a disposizione dal papa è quello di raggiungere «un’unità di principi, di programmi, di idee, affinché tutto ciò entri a far parte della riflessione delle nostre realtà», i movimenti popolari devono tuttavia andare oltre l’obiettivo, pur necessario, di delineare programmi unitari, per iniziare insieme, su scala mondiale, «a sviluppare azioni e mobilitazioni che affrontino realmente i problemi provocati dal capitalismo». Ed è questo l’obiettivo della prima Assemblea internazionale dei movimenti e delle organizzazioni dei popoli che il prossim autunno riunirà a Caracas – questa volta senza il papa – 1.500 militanti di tutti i Paesi, chiamati a costruire un’unità di azione contro il nemico comune, il capitalismo in tutte le sue espressioni imperialiste, colonialiste e militariste. E, in particolare, ad affrontare la crisi delle forme classiche di organizzazione della classe lavoratrice, come partiti e sindacati, a superare l’atomizzazione della lotta sociale, a raffozare le lotte di massa, sul piano nazionale e internazionale.

Preceduta da incontri preparatori in tutti i continenti – l’ultimo dei quali, quello europeo, si è svolto a Barcellona il 19 e 20 gennaio -, l’Assemblea affronterà, tra gli altri, i temi della crisi strutturale del sistema capitalista, della crescita della destra globale e dei nazionalismi, della militarizzazione, delle guerre e delle armi nucleari, delle lotte popolari per i diritti sociali, della sovranità alimentare, della difesa del territorio e dei beni comuni e includerà una “giornata di scambi” con la rivoluzione bolivariana, attraverso la conoscenza di esperienze di organizzazione popolare e l’omaggio alla lotta quotidiana del popolo venezuelano.

Il fatto poi che sia anche previsto un incontro finale del presidente Maduro con i partecipanti all’Assemblea chiama necessariamente in causa la problematica questione della relazione con i governi, cioè della possibilità di collegare le molteplici espressioni della lotta popolare alla politica istituzionale: uno dei principali nodi rimasti insoluti nell’ambito del FSM, tra l’auspicio degli uni di una maggiore articolazione tra movimenti sociali, forze politiche e governi progressisti e il timore di altri di indebite confusioni tra realtà di base e realtà istituzionali. Un nodo difficile sciogliere, per esempio, in presenza di governi progressisti che continuano a tradire le aspettative di cambiamento delle fasce popolari ma che al tempo stesso sono esposti alla pesante offensiva di una destra antidemocratica quando non apertamente golpista. Cosa fare, allora? Scegliere il male minore per impedirne uno assai più grave? Oppure voltare le spalle alla politica istituzionale, per concentrare le proprie energie in un ambito comunitario autogestito, uno spazio «in basso e fuori» dal sistema dominante, mirando a modificare l’equilibro del mondo attraverso la moltiplicazione delle crepe, piccole e grandi, nel tessuto del dominio capitalista?

I veri soggetti del cambiamento
Ma, se una risposta univoca è impossibile, si può forse almeno tentare la via di un dialogo senza sconti con i governi più aperti alle istanze dei movimenti, senza mai perdere la propria autonomia e il proprio orizzonte utopico e, soprattutto, continuando a porre l’accento sulla necessità di rafforzare in primo luogo la lotta del popolo organizzato. Perché, pur senza sottovalutare l’importanza del quadro istituzionale per avviare processi di trasformazione, non possono esserci dubbi su quali siano i veri soggetti del cambiamento: non è dai governi, ma dalla forza – a cominciare da quella numerica – che il popolo è in grado di accumulare che dipende la costruzione dell’alternativa. E, in questo senso, se l’unica possibilità di sconfiggere l’attuale modello è nella capacità di mobilitazione della società, a livello nazionale e mondiale, questo non può che avvenire attraverso quel vecchio lavoro di base colpevolmente trascurato da troppi movimenti sedotti da una lotta meramente istituzionale: attraverso, cioè, un processo permanente di controinformazione, di formazione e di organizzazione politica, di riflessione sui necessari passi da compiere per una transizione verso un nuovo modello di civiltà, che lo si chiami buen vivir, ecosocialismo o decrescita: un altro paradigma della vita umana sulla Terra Madre, centrato sul diritto all’esistenza di tutte le forme di vita, sull’equità inter e intragenerazionale tra gli esseri umani per l’uso sostenibile delle risorse naturali, sul mantenimento e sulla rigenerazione dei cicli vitali della natura, sul recupero della visione degli antichi abitanti di Abya Yala, secondo cui non è la terra che appartiene a noi, ma siamo noi ad appartenere ad essa.

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