Individui isolati, crucciati e depressi: ecco il panorama che ci consegna la sociologia dei nostri giorni. È il mondo del capitalismo nel quale viviamo, fatto di proprietà individuali, di proprietà di beni, >…
L’individuo dell’aldiqua
Credere nel proprio fallimento
Molti sarebbero gli spunti che La vita comune di Paolo Godani offre e che meriterebbero di essere raccolti e discussi. Mi limiterò ad alcuni di essi, che scaturiscono dall’interpretazione che Godani fornisce di alcuni scritti del giovane Walter Benjamin, in particolare Capitalismo come religione e Destino e carattere. Per quanto questa mia riflessione non possa restituire la ricchezza di un libro pur breve come La vita comune, tuttavia il riferimento benjaminiano, essendo un fil rouge che attraversa l’intero testo, consente di andare al cuore della questione di fondo: la «vita comune». Ovvero una vita – una filosofia e una politica della vita – che sia, come recita il sottotitolo del volume, «oltre l’individuo», oltre cioè la sua cattura all’interno del dispositivo di individualizzazione. Una vita comune che è, come vedremo, non al di là dell’individuo – un’altra vita o una vita a venire – quanto piuttosto al di qua dell’individuo.
L’espressione «guadagnarsi la vita» è emblematica della condizione dell’individuo. La vita comune ne rappresenta invece l’esatto rovescio: essa non interviene a pagare il debito dell’individuo e a estinguerne la colpa, quanto piuttosto essa è di per sé priva di colpa: è al di qua dell’individuo
È proprio a partire da un passo di Capitalismo come religione che prende le mosse la riflessione di Godani: «Le preoccupazioni: una malattia dello spirito propria dell’epoca capitalistica»1. Le preoccupazioni non rientrano nello spettro emotivo del dolore e della sofferenza, non hanno niente di sublime, sono invece piuttosto «materiali»; sono forse annoverabili tra le cosiddette «passioni tristi» che appesantiscono l’aria che si respira nella società capitalistica in cui viviamo. Ma sono soprattutto il sintomo della condizione strutturale di inadeguatezza nei confronti delle aspettative che tale società capitalistica investe su di noi, su ognuno e ognuna di noi. Come Godani suggerisce, le pre-occupazioni sono quanto ci occupa «prima» anche soltanto di capire ciò di cui davvero desidereremmo occuparci. Le preoccupazioni sono il cruccio dell’individuo, perché è l’individuo nel suo isolamento che esse eleggono a loro unico destinatario. Tale «elezione» dai tratti peculiarmente religiosi, Benjamin la denomina in tedesco con un unico termine, Schuld/Schulden, che in italiano si traduce sia con colpa che con debito: «Una condizione che è talmente senza via d’uscita da essere colpevolizzante e indebitante. Le “preoccupazioni” sono l’indice di tale coscienza della colpa per l’assenza di via d’uscita. Le “preoccupazioni” sorgono dall’angoscia per l’assenza di una via d’uscita che sia comunitaria e non individuale-materiale»2. È dunque l’individuo isolato il portatore della colpa: è l’individuo a essere in debito – non solo psicologicamente, ma anche economicamente – per le prestazioni che è chiamato a produrre per guadagnarsi quello status che corrisponde alla vita nella società capitalistica. L’espressione «guadagnarsi la vita» – una vita, appunto, qualificata dalle preoccupazioni «materiali» (arrivare a fine mese, il posto fisso, ecc.) che il capitalismo genera – è emblematica della condizione dell’individuo. La vita comune ne rappresenta invece l’esatto rovescio: essa non interviene a pagare il debito dell’individuo e a estinguerne la colpa, quanto piuttosto essa è di per sé priva di colpa. È al di qua dell’individuo. Godani coglie perfettamente la radicalità del discorso benjaminiano: «non c’è nessuna rete nella quale io sia impigliato, nessuna complicazione, nessuna colpa e nessun debito che io debba saldare ai miei creditori, perché non ci sono debitori e creditori, e soprattutto perché non ci sono io»3. La preoccupazione per la via d’uscita è insomma solo individuale, semplicemente perché non c’è alcuna via da percorrere per guadagnarsi la vita comune.
Una volta assunto con il capitalismo quel debito di coscienza, che elegge a individuo perché si possa eccellere e distinguersi dalla massa, perché si possa compiere la propria impresa personale, nemmeno il fallimento libera dalle preoccupazioni. Ogni fallimento, infatti, resta pur sempre individuale, con il carico di «malattie spirituali» che ciò comporta
Godani amplia e arricchisce lo spunto di Benjamin in Capitalismo come religione: «La condizione perché vi siano preoccupazioni è infatti questa: che sia preclusa la possibilità stessa di trovare in un’attività collettiva la soluzione a un problema, che l’unica via d’uscita pensabile sia di natura individuale»4. Una volta assunto con il capitalismo quel debito di coscienza, che elegge a individuo perché si possa eccellere e distinguersi dalla massa, perché si possa compiere la propria impresa personale, nemmeno il fallimento libera dalle preoccupazioni. Ogni fallimento, infatti, resta pur sempre individuale, con il carico di «malattie spirituali» – prima fra tutte la depressione – che ciò comporta. Anzi, più che il successo, è proprio il fallimento, per il dispositivo di debito e colpa che innesca, a configurare lo «spirito del capitalismo». Non possono essere quindi gli individui che si mettono insieme, che condividono il loro personale fallimento, a determinare la vita in comune. Pur sembrando a prima vista la soluzione più facilmente percorribile, non è questa una politica della vita comune. Perché quel capitalismo che instilla nella coscienza degli individui il debito e la colpa al contempo produce quel comune che ne espropria la vita e la pone come il guadagno da perseguire. Godani si riferisce ancora a Benjamin – Destino e carattere – e chiama destino ciò che è comune agli individui nella società capitalistica. Questo passaggio è decisivo per comprendere perché la vita comune non è nell’ordine dell’impresa, fosse pure quella che gli individui intraprendono insieme. Per guadagnarsi la vita, qui e ora, le preoccupazioni degli individui sono sempre nell’ordine della sopravvivenza, ovvero di prevalere a discapito dell’altro: mors tua vita mea. Adesso, in questo presente, per ogni individuo il successo o il fallimento dell’impresa – guadagnarsi la vita – è affidato, come credito di fiducia, come vero e proprio atto di «fede», al futuro. Qui e ora si è quindi in debito verso un destino che è inconoscibile: qui e ora non resta che «tirare avanti», sopravvivendo agli altri che sono nella medesima condizione, per approssimare un futuro di successo che è costantemente dilazionato. È questa la «mentalità» che governa gli individui, che il capitalismo instilla nella loro più profonda coscienza interiore. È la mentalità dell’eroe che deve superare avversità, vincere battaglie, sconfiggere nemici e concorrenti per realizzare la sua impresa.
Destino, eroe, impresa: la scena è quella di una tragedia greca – ed è infatti questa che Benjamin ha presente in Destino e carattere. Che cosa c’entra allora il capitalismo? C’entra eccome, in quanto questa è la medesima scena del mercato. Ce lo suggerisce uno dei pensatori di riferimento del neoliberalismo – tra l’altro di quella Thatcher che ha coniato il mantra there is no alternative –, Friedrich von Hayek, quando definisce «cosmo» l’«ordine spontaneo del mercato» e così descrive la posizione dell’individuo al suo interno: «L’uomo non è e non sarà mai il padrone del proprio destino: la sua stessa ragione progredisce sempre portandolo verso l’ignoto e l’imprevisto, dove egli impara nuove cose»5. La promessa dell’impresa che il mercato fa all’eroe/imprenditore si accompagna come suo elemento inscindibile all’imperscrutabilità del suo esito, che è tale per tutti: comune. Imperscrutabile come il destino, imperscrutabile come la «grazia» – e su questo Weber ha ancora molto da dirci. E imperscrutabile come l’ordine cosmico. Certo, è vero che il ricorso all’idea di cosmo è proprio di Hayek e non si riscontra nelle successive elaborazioni del modello neoliberale. Eppure, si può ben ricondurre all’idea di cosmo la matrice di tale indifferenza e impassibilità: gli algoritmi che organizzano e ordinano il capitalismo neoliberale non corrispondono certo alla matematica del modello pitagorico che caratterizzava la concezione antica di cosmo, ma si tratta comunque di un dispositivo matematico che nessun singolo individuo è in grado di padroneggiare. E inoltre è proprio il suo configurarsi secondo un modello matematico – quale che sia – a produrre nei soggetti quel sentimento di affidabilità se non proprio di fiducia nell’ordine, che conduce poi gli individui a scaricare su se stessi la colpa per il fallimento della loro impresa.
Non è il cosmo del mercato a produrre gli individui, condannati a non poter mai estinguere il debito contratto per l’investimento di cui godono, bensì è la vita comune a «caratterizzare» gli individui
Per tracciare i tratti della vita comune, Godani ricorre ancora al Benjamin di Destino e carattere e in particolare a quella figura che è contrapposta all’individuo eroico e che sfugge alla cattura del destino e non è soggetta ai rovesci dell’accadere cosmico del mercato: il carattere. Il carattere in quanto elemento comune, opposto all’individualizzazione della colpa e del destino, è il protagonista della commedia: «Benjamin oppone rigorosamente la semplicità di questo esplicarsi o dispiegarsi dell’individuo in un unico tratto di carattere alle infinite complicazioni della persona colpevole elaborate dal mito e messe in scena dalla tragedia. E vede la possibilità di una liberazione proprio nella radicale semplificazione dell’interiorità tragica. In che cosa consiste questa semplificazione? Nell’esteriorizzazione che identifica l’individuo con un’unica caratteristica, cioè con una sola maschera, un solo tratto»6. Il carattere – il tratto che lo caratterizza – non è dunque proprietà dell’individuo che se ne fa portatore e tantomeno lo stigma che l’imprenditore confida di ricevere dal successo della sua impresa e dalla vita che si è finalmente guadagnato. Al contrario, il carattere è espressione della vita comune, del mondo «fatto di qualità comuni che si esemplificano di volta in volta in quelli che siamo soliti chiamare individui (che altro non sono, dunque, se non istanze di quelle qualità comuni)»7. Ecco il punto: non è il cosmo del mercato a produrre gli individui, condannati a non poter mai estinguere il debito contratto per l’investimento di cui godono, bensì è la vita comune a «caratterizzare» gli individui.
Nel corso dell’argomentazione di La vita comune, Godani articola e sviluppa, in modo originale, la figura benjaminiana del carattere attraverso altre concezioni che risultano affini, quali quelle del trans-individuale, della forma-di-vita, della potenza spinoziana o dell’impersonale. Molto, quindi, ci sarebbe ancora da dire e approfondire. Ma forse questa breve riflessione già potrebbe indicare la direzione che intraprende Godani per concludere il libro convertendo il «che fare» della politica – il cui investimento di fiducia, in una società capitalistica come questa neoliberale, insisterebbe ulteriormente sul carico di colpa e debito dei suoi individui – nel «come fare», già qui e ora, una politica della vita comune.
Note
↩1 | W. Benjamin, Capitalismo come religione, in D. Gentili, M. Ponzi, E. Stimilli (a cura di), Il culto del capitale. Walter Benjamin: capitalismo e religione, Quodlibet, Macerata 2014, p. 11. |
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↩2 | Ibid. |
↩3 | P. Godani, La vita comune. Per una filosofia e una politica oltre l’individuo, DeriveApprodi, Roma 2016, p. 14. |
↩4 | Ivi, p. 7. |
↩5 | F.A. Hayek, Legge, legislazione e libertà. Critica dell’economia pianificata, a cura di A. Petroni e S. Monti Bragadin, il Saggiatore, Milano 2010, p. 559. |
↩6 | P. Godani, La vita comune, cit., p. 31. |
↩7 | Ivi, p. 33. |
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