Lo schermo bianco e nero di Debord
Hurlements en faveur de Sade e la distruzione del cinema
Il 30 giugno del 1952, all’interno della sala del cineclub d’Avanguardia nei locali del Musée de l’Homme, nel Palais de Chaillot in Place du Trocadéro, un primo timido brusio di confusione si trasformava, nel giro di pochi minuti, innalzandosi poi in feroci grida polemiche. I responsabili di sala e un pubblico irato, tra lamentele e il lancio di oggetti, interrompevano così bruscamente la prima proiezione di un film, intitolato Hurlements en faveur de Sade, e realizzato da un allora diciannovenne teppista parigino, membro attivo nella corrente e nel movimento lettrista: Guy Debord. A occhi distratti potrebbe sembrare il racconto di un fallimento, una netta stroncatura di una carriera appena affacciatasi sul mondo del cinema e, alla sua inaugurazione, accolta con estremo disappunto. Per quanto l’ultima affermazione sia quella che più delle altre potrebbe non essere poi tanto lontana dalla verità, anche se, per Debord, la ricerca consapevole di una svolta radicale e scandalosa aveva dato i suoi frutti, quelli giustappunto ricercati, accogliendo dunque con approvazione i tumulti scatenati nella sala cinematografica alla vista del suo film, per le altre si parlerebbe con bocca inscritta nelle normali logiche di un mondo culturale, artistico e del suo mercato, e ciò non permetterebbe di cogliere né le forme, né i contenuti e neanche le intenzioni di quel che simboleggiò non solo quella prima proiezione e rappresentazione, ma proprio l’opera proiettata e rappresentata in sé e, nei giorni precedenti, anche la sua realizzazione.
Per meglio comprendere quella giornata bisognerebbe conoscere il terreno – e dunque la sua storicizzazione – sul quale Debord compie ogni suo singolo passo fino a condurlo all’idea di voler creare una pellicola come Hurlements en faveur de Sade, della durata di 64 minuti circa e composta dal continuo e altalenante alternarsi tra una schermata completamente bianca e una completamente nera. Sì, un film privo di immagini, sorretto in parte dal solo sonoro, ovvero delle voci recitanti frasi sconnesse tra loro, tratte da ritagli di giornale, citazioni di testi giuridici, dal Codice Civile e brani vari. Eppure l’ambiente in cui trovò accoglienza la prima della sua opera era quello del club d’avanguardia, nel momento in cui l’estetica dadaista e surrealista (ciò che di più estremo poteva esistere nel periodo tra le due Guerre, e dal cui gusto e dalla cui passione Debord è stato profondamente influenzato, dagli anni giovanili a Cannes e per tutta una vita, pur riconoscendone i limiti e i punti in disaccordo) era stata pienamente reintegrata, se non proprio digerita, e la loro carica totalmente sedata. Insomma, la pellicola di Debord aveva superato ogni limite, tanto da causare nausee di disappunto anche agli avanguardisti solitamente pronti ad accogliere ciò che più di insolito e strano poteva essere prodotto in ambito cinematografico, ma pur sempre sterile; lo dimostra la reazione agli intenti del parigino. Debord si era avventurato decisamente oltre. C’è da chiedersi se l’impatto della schermata prima bianca e poi nera abbia segnato un solco ben più profondo di quello che, spesso controvoglia, si attribuisce meritoriamente a Debord, o se semplicemente egli fu figlio dei suoi tempi e delle influenze di ciò che già esisteva, senza apportare alcuna novità.
Dopo la prima, interrotta in venti minuti1, il film trovò una seconda proiezione a Parigi il 13 ottobre dello stesso anno, al ciné-club du Quartier Latin, nella sala del Hotel des Sociétés Savantes in rue Danton. Il lettrista Serge Berna si presentava in sala prima della proiezione, durante la stessa e, infine, dopo la conclusione. In apertura, sotto le false vesti di docente universitario di Losanna ed esperto di cinema, introduceva così il film alla platea: «Signore e signori, questa sera vi offriamo un film profondamente erotico. Audace in un modo mai visto prima. Un’opera che segnerà una data nella storia del cinema: il tempo del vino e delle noci. Questo è tutto ciò che posso rivelarvi, poiché non voglio rovinarvi la sorpresa». Durante, cercando di convincere la gente a non andarsene (per tutta la proiezione, tra il pubblico e i lettristi divertiti in balconata, Debord compreso, volarono insulti, sputi e minacce) e che prima o poi avrebbero visto qualcosa: «Alla fine c’è qualcosa di veramente sporco!». Dopo la proiezione, cercando di animare un dibattito, da lui stesso iniziato sottolineando l’audace genialità di Debord e del suo film e, alla domanda di uno spettatore arrabbiato sul perché il film fosse intitolato a Sade, «Berna rispose» provocatoriamente «che c’era un malinteso e che il film era davvero dedicato a un amico di Debord, un certo Ernest Sade»2. La tensione in sala era comunque palpabile fin dai primi battiti quando, dopo l’introduzione di Berna e lo spegnimento delle luci, le stesse furono riaccese per avvisare i presenti e le presenti in sala che le bobine del film non erano ancora giunte e, dopo una quindicina di minuti, «Debord arrivò finalmente con i contenitori della pellicola sotto il braccio e salì vivacemente i pochi gradini che portavano alla sala di proiezione»3. Una medesima sorte, tra rabbia, nervosismo, grida e rumorose lamentele, la si avrà anche nella proiezione a Londra, nel 1957, all’Institute of Contemporary Arts. Presentato come il film che aveva «provocato dei tumulti quando fu rappresentato a Parigi», incuriosendo così una folta folla di spettatori paganti, poi pentiti e irati.
Cosa incontrarono dunque gli spettatori alla prima e nelle successiva proiezioni di Hurlements en faveur de Sade? Furono travolti e trapassati da «un lungometraggio del tutto privo di immagini, costituito soltanto dal supporto della colonna sonora», composta da semplici dialoghi, ed essi, «la cui durata totale non supera la ventina di minuti», sono «sparsi, in brevi frammenti», interscambiati da intere sequenze di silenzio di diversa lunghezza. Il recitare dei dialoghi, col susseguirsi di voci, parole e frasi frammentate, avviene in «uno schermo uniformemente bianco», mentre «durante la proiezione dei silenzi, lo schermo rimane assolutamente nero; e, di conseguenza, la sala»4, col blocco più importante composto, nella sequenza finale, da ventiquattro minuti di silenzio e schermo completamente nero. Insomma, per Debord «il film non terminava» e, privo di conclusione, la lunga sequenza nera «portava a compimento, di fronte alla rabbia dei golosi delle belle audacie, la sua deludente apoteosi»5. Per dirla con Jappe, «il senso della provocazione è quello di superare il principio della passività dello spettatore: a differenza dei precedenti due o tre film di altri lettristi, Debord non si preoccupa più di una nuova estetica», la stessa logica del creare e ricreare sulla quale caddero anche tutte le precedenti avanguardie artistiche, «ma vuole mettere un punto finale anche alla più giovane delle arti»6.
Passano appena due minuti di battute, fuoriuscite dal pallore della schermata bianca, che la voce di Isou, fondatore del lettrismo, irrompe e recita: «Poco prima dell’inizio della proiezione, Guy Ernest Debord doveva salire sul palco per pronunciare alcune parole di presentazione. Avrebbe detto semplicemente: Non c’è nessun film. Il cinema è morto. Non ci possono più essere film. Passiamo, se volete, al dibattito»7. Non è dato sapere se Debord avrebbe dovuto realmente recitare questa introduzione per smorzare sul momento ciò che stava per succedere, anche se a me piace pensare sia così. La frase è però direttamente presa e citata dalla Esthétique du cinéma dello stesso Isou, così come conferma Guy Debord nella Scheda tecnica del film, pubblicata, assieme a quella di altri suoi due film, nel volume Contre le cinéma8. Eppure, la semplice frase, annunciando soltanto la morte del cinema, avrebbe delimitato il proprio senso nel solo rifiuto della proiezione e quindi nella proposta di passare direttamente a un dibattito, scelta estetica sì estrema ma forse accettabile a occhi avanguardistici e, dinanzi a essi, neanche poi così scandalosa. La stessa cosa non poteva però succedere con la proiezione stessa. Attraverso lo scorrere della propria opera Debord, senza bisogno di dirlo, non ha dunque soltanto dichiarato la morte del cinema, ma si è addossato dell’arduo compito di esserne il carnefice. Colui che dà il colpo di grazia a ciò che, arrancando con sofferenza, si era ormai dimostrato – nella sua stessa banalizzazione – come morente, presentando un’opera attraverso un mezzo radicalmente decapitato e spogliato della sua forma costitutiva: l’immagine. Insomma, un’anti-film, l’essenza del non-cinema. Debord ha avuto il merito e il coraggio di avventurarsi tra i meandri di questa terra angusta e desolata; certamente non l’unico, ma uno dei primi. Forse il più radicale.
Delle cinque voci che si alternano nei frammenti delle tredici schermate bianche lungo lo scorrere della pellicola (e si consiglia vivamente, se non di guardarne il film per intero, almeno di leggerne tutta la sceneggiatura, sul cui studio andrebbe composto un intero articolo in altra sede), ovvero quelle di Guy Debord, Jean-Isidore Isou, Serge Berna, Barbara Rosenthal e Gil. J. Wolman, è proprio quella di quest’ultimo, dopo un’entusiasta «che primavera!», a dilettarsi nel recitare ciò che lui stesso anticipa come un «memorandum per una storia del cinema», citando Le voyage dans la Lune del 1902, Il gabinetto del dottor Caligari del 1920, Entr’acte del 1924, La corazzata Potëmkin del 1926, Un chien andalou del 1929, Luci della città del 1931, Traité de bave et d’éternité del 19519, L’Anticoncept del 1952, dello stesso anno Hurlments en faveur de Sade e, tra tutti gli avvenimenti delineanti la storia del cinema, se il nominare lo stesso Hurlements poteva sembrare un azzardo che peccava di megalomania, tra il succedersi dei titoli viene citata anche la stessa nascita di Guy Debord, nel 193110.
Sempre Wolman apre il film con quella che Debord definisce «un’improvvisazione lettrista»11, ovvero la riduzione del linguaggio, in tutte le sue forme scritte e orali, alla semplice lettera. La sostituzione delle parole con versi improvvisati. Una sperimentazione che deve molto ai dadaisti e soprattutto alla Ursonate di Kurt Schwitters12. Wolman si dedica così nella composizione e declamazione onomatopeica, tra il gracchiare gutturale, il bisbiglio e l’ansimare, in pochi secondi di ritmica e gruppi fonici13 i quali possono essere considerati come l’unica musicalità, così come classicamente intesa, presente in tutto il corso dell’opera, fatta eccezione di quella dettata dalla monotonia delle voci che, sempre a partire da Wolman e subito dopo la sua improvvisazione, penetrano, quasi visivamente, recitando i titoli di testa, che non appaiono se non, appunto, dalle stesse parole: «Il film di Guy-Ernest Debord, Hurlements en faveur de Sade», per poi proseguire con la seconda voce, quella di Debord che, dopo aver nuovamente ben scandito il titolo, dice: «è dedicato a Gil J. Wolman»14. Non è un caso. Nulla lo è.
Se ci si volesse incentrare sulla musicalità è interessante come, lo stesso anno di Hurlements, il compositore statunitense John Cage introduceva il silenzio nella musica con l’opera 4’33’’, il cui spartito dà istruzione al musicista di non suonare il proprio strumento in nessuno dei tre momenti in cui è frammentata l’opera, in tre movimenti di 30 secondi, 2 minuti e 23 secondi e, infine, 1 minuto e 40 secondi, tutti silenziosi. L’operazione potrebbe sembrare la stessa di Debord e così come egli ha eliminato l’immagine dal cinema, Cage ha eliminato il suono dalla musica; eppure questa lettura soffre di molti punti deboli. Prima di tutto, per evitare fraintendimenti su una possibile fusione delle due azioni, è bene precisare che non credo che uno dei due influenzò l’altro, non fu una ispirazione reciproca ed entrambi arrivavano da percorsi differenti, seppur a conclusioni simili, ma dettate da esigenze dissimili, e questo nonostante l’opera di Cage fu presentata la prima volta il 29 agosto del 1952, portando molti a immaginare una possibile influenza debordiana15, ignorando che Cage aveva iniziato a pensare all’idea di una composizione come quella presentata con 4’33’’ già tra il 1947 e il 1948.
Il punto convergente potrebbe essere dettato da un semplice particolare: Cage, nella sua composizione silenziosa, voleva far capire l’importanza dei rumori emessi nel e dall’ambiente circostante, lo stesso in cui la sua opera veniva eseguita senza esser, appunto, eseguita. La stessa cosa potrebbe essere detta per le schermate nere di Debord e i suoi taciturni silenzi. Dopo la musicalità dell’improvvisazione lettrista in apertura di Hurlements e quella delle cinque voci che si alternano lungo tutto il tempo degli schermi bianchi, il buio silenzioso degli schermi neri ha comportato una terza musicalità, quella della sala in cui la pellicola veniva proiettata, quella degli spettatori, dal loro primo brusio fino alle proteste animate e, da qui in poi, alle grida. Lo spettatore diventava partecipe, il corpo, nel film assente, è finalmente vissuto, non come piatta immagine ma in tutta la propria organicità. Nessun interprete in cui immedesimarsi se non in se stessi. Il mescolarsi delle sensazioni di rabbia o disagio di fronte alle interminabili schermate nere portava a quelle urla declamate nel titolo stesso, in uno scoppio spontaneo di ira, drammatico ed energico, quasi sulla linea della condotta del Marchese de Sade nonostante, come recitava improvvisamente la voce di Barbara Rosenthal dopo il quarto silenzio, «non si parla di Sade in questo film»16. È chi sedeva in poltrona che lo doveva inconsapevolmente evocare. Uno scoppio di vita che partiva da chi, solitamente, è chiamato a interpretare un ruolo passivo facendo scorrere apaticamente la propria vita così come scorre un film, appunto da spettatori. «Sì, mi vanto di fare un film con qualsiasi cosa; e trovo divertente che se ne lamentino coloro che hanno lasciato fare qualsiasi cosa di tutta la loro vita» diceva Debord in un passaggio di un altro suo anti-film del 1978, autobiografico e con molti passaggi di prosa, dal titolo palindromo In girum imus nocte et consumimur igni17.
Ora, qualcuno potrebbe pensare che dietro lo schermo insolitamente bianco e nero di Debord si celi una lunga tradizione di un’estetica già esistente. Dai rilievi bianchi del pittore britannico Ben Nicholson, a partire dalla loro prima composizione dal 1934 in poi, alle tele monocromatiche del pittore statunitense Robert Rauschenberg (che comunque ispirarono, in un modo o nell’altro, il silenzio di Cage), le white paintings e le black paintings composte dal 1951 in poi. Tutti loro, magari pur indirettamente, si muovevano però al di sotto di quella esigenza sperimentatrice e al di sopra di una pratica compositiva che per prima tra tutti animò il pittore sovietico Kazimir Malevic con le sue tele cerchio nero e quadrato nero, dipinte tra il 1913 e il 1915, e in cui le forme geometriche scure si presentano impresse su sfondo bianco, sino a condurlo poi al lavoro bianco su bianco, realizzato all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre e composto da un quadrato bianco, leggermente ruotato, su sfondo bianco, proprio come suggerisce il titolo dell’opera.
Però, pensare semplicisticamente che Debord si muovesse soltanto entro i limiti di un contesto già ampiamente sperimentato, lo inscriverebbe all’interno di un pensiero artistico certo caratterizzato da una coerente linearità, e che dunque parte da ben più lontano di quello che si pensa solitamente, ma allo stesso tempo si rischia di farlo decadere senza riconoscergli, a torto, i suoi giusti meriti e la sua innegabile originalità, e questo avviene tipicamente in chi tralascia una parte importante dell’analisi: la sua storicizzazione. Per farlo, come già anticipato in apertura dell’articolo, bisogna comprendere e conoscere il terreno sulla quale Debord compie i suoi passi, oltre alle finalità che lo animarono e che lo allontanerebbero radicalmente sia dalle esigenze artistiche, così come tipicamente pensate, sia dal loro stesso etichettamento. Tutto quello che compone Hurlements, nella sua forma e in parte nella sua sostanza, lo deve, in tutto e per tutto, a due opere già citate nel presente articolo: la prima il Traité de bave et d’éternité di Isou in quanto, senza mezzi termini, dichiara col suo proprio film di volerne andare ben oltre, e la sua pellicola «si presenta» infine «come una negazione e un superamento della concezione isouiana del cinema discrepante»18; la seconda è L’Anticoncept di Wolman, senza cui il lavoro concluso di Debord e i suoi intenti non sarebbero stati di certo così estremi.
Ma se le finalità di Debord non sono mai state quelle della composizione plastica ma, anzi, quelle della distruzione e dissoluzione dell’arte in una sua estensione alla vita stessa, vissuta appieno19, è nell’arte stessa che spesso ritornò ciò che trasmise; ma c’è da precisare che non sempre fu così. Se è vero che, alla prima tumultuosa del film, il pittore francese Yves Klein trovava ispirazione per le sue opere monocromatiche racchiudenti il solo colore blu20 e, dopo la seconda, qualcuno cercò ironicamente di emularlo limitandosi a spegnere le luci della sala del ciné-club du Quartier Latin per quindici minuti21, d’altra parte l’estremità rivoluzionaria della pellicola e la violenta reazione alla sua visione, portò anche i lettristi della prima ora ad allontanarsene irreversibilmente: «Il tuo film era malfatto. Cose simili ci fanno perdere ciò che si è guadagnato» gli scriveva Isou22. Questo per comprendere la sua portata. La rottura fu irrimediabile23, ma certamente già inscritta nell’aria a partire dalla deriva politicizzata di Debord, virata al marxismo (letto attraverso una lente hegeliana), ma anche e soprattutto dalla sua scelta di distaccarsi dal modello cinematografico lettrista inaugurato da Isou stesso, superandolo con un estremismo difficilmente raggiungibile. Una dichiarazione semplice: Debord non voleva diventare artista né tantomeno dilettarsi in costruzioni artistiche. Semplicemente voleva superare l’arte. Liberato il cinema delle immagini che altro si può fare? Niente, e nei suoi altri lavori cinematografici, comunque sempre di rara radicalità, Debord si approccerà certamente alle immagini, seppur saranno ben poche quelle da lui stesso realmente filmate. Come recita un cartello del suo film La société du spectacle, in un détournement facilmente intuibile e riconducibile all’ultima delle Tesi su Feuerbach di Karl Marx, Debord indicava il mondo come già filmato, si trattava ora di trasformarlo. Credo che ci sia pienamente riuscito.
L’ultima frase che si sente prima della lunga sequenza di 24 minuti di buio è, con la solita voce monocorda di Debord, quella che segue: «Nous vivons en enfants perdus nos aventures incomplètes»24. Il buio e il silenzio permettono poi di potersi concentrare sul battito del proprio cuore, sentire il sangue scorrere nella carne e, infine, comprendere che l’avventura è solo all’inizio. «Guy, ancora un minuto ed è già domani»25, recita a un certo punto l’unica voce femminile. Eliminando le immagini Debord fa parlare direttamente noi, dandoci la possibilità di perderci nelle schermate nere e di ritrovarci in quelle bianche, o viceversa. Non si coglierà mai l’essenza e la totalità dell’avventura se la si affronterà sempre da spettatori passivi e perennemente annoiati. Il domani non deve essere mai uguale all’oggi e la ricerca di momenti e situazioni irripetibili deve cancellare la ripetitività di una vita alienata. «Eravamo pronti a far saltare tutti i ponti, ma i ponti ci sono mancati»26, dice Debord prima di un silenzio di quattro minuti, uno degli ultimi del film. È qui che il gioco prende avvio nella sua parte più divertente, ma anche più pericolosa. I ponti vanno costruiti da sé e da sé distrutti al momento opportuno. Questo Debord lo ha dimostrato, diventando il più grande avventuriero della seconda metà del Novecento e, concludendo la propria vita alle cinque di sera del 30 novembre 1994, ha seguito fino alla fine le linee guida che aveva già anticipato in Hurlements en faveur de Sade, in quell’unico passaggio in cui la sua voce irrompe con un timbro più deciso e con una tonalità decisamente più alta, prima di un silenzio di cinque minuti: «La perfection du suicide est dans l’équivoque»27. Debord è tornato nell’inesauribile e interminabile sequenza nera con il fucile in mano e un proiettile sparato dritto al cuore. L’equivoco sta nell’interpretare eccessivamente questo gesto. Qui anche la sua perfezione.
Note
↩1 | G. Amico, Guy Debord e la società spettacolare di massa, Massari, Bolsena, 2017, p.47. |
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↩2 | M. Rajsfus, Une Enfance Laîque Et Républicaine, Manya, 1992; citato in: J.M. Mension, The Tribe, City Lights Books, 2001, p.87. (Traduzione mia). |
↩3 | Ivi, p.91. Traduzione mia |
↩4 | G. Debord, «Schede tecniche», in: Id, Opere cinematografiche, Bompiani, Milano, 2004, p.227. |
↩5 | G. Debord, «Grande fête de nuit», prefazione alla prima pubblicazione della sceneggiatura completa di Hurlements nella rivista surrealista belga Les Lèvres nues, n.7, Bruxelles, dicembre 1955. Sulla stessa rivista Guy Debord ha pubblicato anche «Introduction à une critique de la géographie urbaine» (n.6, settembre 1955), «Mode d’emploi du détournement» (con Gil J. Wolman, n.8, maggio 1956) e «Théorie de la dérive» (n.9, novembre 1956). |
↩6 | A. Jappe, Guy Debord, manifestolibri, 1999, p.65. |
↩7 | G. Debord, «Hurlements en faveur de Sade», in: Id, op.cit., p.10. |
↩8 | G. Debord, «Schede tecniche», in: Ivi, p.228. |
↩9 | Alla prima del film a Cannes, al cinema Le Vox in rue d’Antibes, il 20 aprile del 1951, conoscerà il suo autore Isou e tutti I lettristi, aderendo al movimento appena diciottenne, e seguendoli poi a Parigi. Il film di Isou, vistosi imposto a forza al Festival di Cannes su forti pressioni degli stessi lettristi, sarà proiettato e premiato con un riconoscimento speciale, creato sul momento, provocando non poca perplessità tra il pubblico e la critica. Tra insulti e lamentele Debord scatenerà una rissa sferrando per primo un pugno a «una nota personalità», in: G. Debord, Œuvres , Gallimard, 2006, p.42. Il film di Isou è composto di suoni e immagini che non coincidono mai e la pellicola è manipolata, tra graffi e disegni. L’influenza che ha esercitato su Debord la si vedrà meglio in tutti i film successivi a Hurlements. |
↩10 | G. Debord, «Hurlements en faveur de Sade», in: Id, op.cit., pp.9-10 |
↩11 | G. Debord, «Schede tecniche», in: Ivi, p.227. |
↩12 | A. Jappe, op.cit., pp.63-64. |
↩13 | Un rimando allo stesso film L’Anticoncept di Wolman il quale inizia similmente e si sviluppa tra schermate nere e un cerchio bianco e dalla cui prima – finita in proteste e tafferugli, l’11 febbraio del 1952 al solito Musée de l’Homme e proiettato su un pallone riempito di elio – Debord è rimasto profondamente colpito, tanto da ispirarlo nella realizzazione ed estremizzazione del suo Hurlements, la cui prima sceneggiatura, ben più articolata, era già stata proposta tra le pagine della rivista di cinema lettrista Ion, nel primo e unico numero dell’aprile 1952, ma che sarebbe stata ripetutamente rivista e modificata dal momento in cui Debord decise di eliminare le immagini dal suo film, realizzandolo infine in una sola giornata, a Cannes, il 17 giugno del 1952. |
↩14 | G. Debord, «Hurlements en faveur de Sade», in: Id, op.cit., p.9. |
↩15 | Asger Jorn sbaglia quando scrive che John Cage introdusse il silenzio nella musica moderna «alcuni anni dopo Hurlements en faveur de Sade»; A. Jorn, «Guy Debord e il problema del maledetto», in: Guy Debord, op.cit., p.291. |
↩16 | G. Debord, «Hurlements en faveur de Sade», in: Id, op.cit., p.12. |
↩17 | G. Debord, «In girum imus nocte et consumimur igni», in: Ivi, p.147. |
↩18 | G. Debord, «Fiche tecnique»,Œuvres, op.cit., p.73. |
↩19 | Parole d’ordine che poi verranno meglio prese a carico dall’Internazionale situazionista fondata nel luglio del 1957 e di cui Debord, nel suo Hurlements, già ne anticipava gli intenti e le teorie nel passaggio in cui la sua stessa voce recita: «Le arti future saranno sconvolgimenti di situazioni, o nulla», op.cit., p.10. |
↩20 | G. Amico, op.cit., p.44. |
↩21 | In una lettera all’amico d’infanzia Hervé Falcou del febbraio 1953, Debord gli racconta di essersi recato al ciné-club con un gruppo di «lettristi di sinistra», prendendo in ostaggio il direttore, convincendolo, «sotto minaccia», ad allontanare la polizia e a rinunciare alla serata organizzata attorno a un film intitolato Squelette sadique, di un certo René-Guy Babord, uno scherzo atto a schernire Debord e il suo film e, senza proiettare niente, si sarebbe limitato a spegnere le luci. |
↩22 | G. Amico, op.cit., p.47. |
↩23 | Diventerà irreversibile dopo il convegno di presentazione, al lussuoso Hotel Ritz, del film Luci della ribalta, alla presenza dello stesso Charlie Chaplin (per Isou un artista inattaccabile) nell’ottobre del 1952, e contestato pesantemente da Guy Debord, Serge Berna (respinti dalla polizia in un loro tentativo di irruzione dalle cucine del Ritz), Jean-Louis Brau e Gil Wolman, col lancio e la distribuzione del volantino Finis les pieds plats. «Ramazza denaro e muori in fretta, ti promettiamo un funerale di prima classe. E intanto speriamo che il tuo ultimo film sia davvero l’ultimo». Nel 1979 Isou pubblicherà un piccolo testo contro Debord, intitolato Contre le cinema situationniste, neo-nazi. |
↩24 | Viviamo come soldati mandati allo sbaraglio le nostre avventure incomplete; G. Debord, «Hurlements en faveur de Sade», in: Id, op.cit., p.17. |
↩25 | Ivi, p.14. |
↩26 | Ivi, p.16 |
↩27 | La perfezione del suicidio sta nell’equivoco; Ivi, p.12. |
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