Politica del limite
In dialogo con Toni Negri
Pubblichiamo qui, in versione ridotta, uno scambio tra Roberto Esposito e Toni Negri. Il dibattito si è tenuto in occasione del primo Festival di DeriveApprodi (25-27 novembre 2016) e si trova oggi raccolto, in versione integrale, nel volume Effetto Italian Thought (a cura di Enrica Lisciani-Petrini e Giusi Strummiello, Quodlibet, 2017). Il libro inaugura, insieme ad altri, la collana Materiali IT diretta da Dario Gentili ed Elettra Stimilli. Qui l’intervento di Toni Negri.
In questo intervento – pronunciato al festival di DeriveApprodi1 – provo a interloquire con la relazione di Toni Negri sulla fine della sovranità. Ne riassumo rapidamente la tesi di fondo.
Oggi siamo situati oltre il paradigma sovrano per una serie di motivi che ci riconducono all’orizzonte biopolitico. Essi sono: a) la trasformazione del diritto in macchina amministrativa di governance in cui il sistema delle norme subentra all’ordine della legge nella regolazione dei conflitti sociali; b) il trasferimento delle strutture giuridiche, articolate in sistemi autopoietici, dal terreno statale a una serie di dinamiche sociali provviste di un crescente grado di autonomia; c) l’interdipendenza globale tra Stati e mercati che destruttura il regime sovrano superando definitivamente il modello interstatuale a favore di nuove forme di coordinamento infrastatuali e ultrastatuali. Rispetto a tale scenario, descritto da Negri con indubbia capacità sintetica, cerco di concentrare le mie considerazioni intorno a due domande: 1) è in grado, la sua prospettiva, di rappresentare adeguatamente le attuali dinamiche politiche e socio-culturali? 2) ed è in grado, soprattutto, di fronteggiare i loro effetti in maniera efficace e realistica?
Prima di tentare una risposta problematica a tali questioni, vorrei partire da una osservazione che può apparire scontata, ma che ritengo giusto rendere esplicita. Negri è l’unico intellettuale italiano, e uno dei pochi in Europa, ad avere un ruolo direttamente politico nell’ambito della sinistra radicale, e dunque capace di incidere nella realtà attraverso le sue idee. Ciò non nasce solo dalla sua biografia, ma nasce da qualcosa di più, che è parte integrante del suo pensiero e del suo linguaggio concettuale. Si tratta di un’attitudine, o di una tonalità, che lo ha sempre tenuto lontano dal riflusso cui è andata incontro la cultura di sinistra, italiana e non solo, compresa larga parte della tradizione operaista. Negri ha tenuto duro su un principio affermativo e in questo senso è l’intellettuale italiano che più di ogni altro ha dato un segno positivo a ciò che si definisce Italian Thought. Se c’è qualcosa che ha sempre caratterizzato la sua prospettiva, è proprio questa opzione affermativa, costitutiva, vitale, alternativa alla piega negativa in cui l’intera teologia politica, non solo italiana, è tuttora presa in forma katechontica, escatologica o messianica. Pensare in modo affermativo e costituente vuol dire non desumere il significato delle proprie categorie dalla negazione del loro contrario, non cercare la libertà nel rovescio della necessità, la storia nel rovescio della natura, il comune nel rovescio del proprio. Non situare la vita nell’estremo della morte, come fa l’intera filiera heideggeriana.
Quanto Negri ci ha detto anche in questo ultimo testo sulla fine della sovranità va inquadrato in tale orizzonte affermativo. Da questo punto di vista, in ordine a questa opzione di fondo anti-teologico-politica, sono d’accordo con lui e da tempo mi muovo anch’io nella stessa direzione. Ciò che mi convince meno è la sua interpretazione della situazione attuale. Se già al momento della pubblicazione di Impero si profilava uno scarto tra l’analisi di Hardt e Negri e la realtà effettuale, a partire dal 2001 mi pare che tale scarto si sia sempre più allargato, a partire dalla questione della sovranità. Essa è davvero implosa, come Negri sostiene, ribadendo e approfondendo quanto scritto nella trilogia Impero, Moltitudine e Comune, o si va ristrutturando in quello che potremmo definire un Leviatano 2.0? Siamo di fronte al compimento della globalizzazione o a un suo drammatico ripiegamento? Ancora: la macchina della sovranità è davvero assorbita in una politica affermativa, così da incorporare ogni fuori nel dentro; o continua, sia pure differentemente, a produrre nuovi assetti di potere? E il processo di deterritorializzazione ha davvero travolto tutti i confini territoriali in un mondo senza più né centro né limiti? La mia impressione è che i processi innescati nei primi anni del nuovo secolo in America, Europa e Asia vadano in una direzione contraria, come tutti gli ultimi eventi confermano nella maniera più vistosa.
La globalizzazione, ancora forte sul piano economico e tecnologico, arretra e si spezza su quello politico. Quella che stiamo sperimentando è anzi la prima grande crisi politica della globalizzazione. Tutt’altro che semplici province imperiali, gli Stati sovrani rialzano la testa, elevando nuovi muri ai propri confini. Se gli Stati Uniti di Trump minacciano una chiusura sempre più ermetica delle proprie frontiere, gli Stati europei, a partire dal Regno Unito, rivendicano, accanto al debito, le altre prerogative sovrane. Tutt’altro che cancellarsi in una deterritorializzazione generalizzata, la linea di opposizione dentro/fuori si approfondisce, incidendosi profondamente nel cuore dell’Occidente. La vittoria, minacciata in tutta Europa, delle forze nazionaliste richiede di ristabilire il controllo sovrano perfino sull’economia. Ciò è ben difficile, ma non del tutto impossibile. E del resto chi ha salvato il sistema finanziario delle banche, se non gli Stati? Per non parlare della progressiva militarizzazione della questione migratoria. A globalizzarsi, oggi, è una forma di nazionalismo molto lontana dal paradigma aperto e inclusivo di Impero.
Il problema può essere guardato anche da un altro angolo di visuale. Certo gli Stati europei hanno perso diverse delle loro prerogative – a partire da quella, decisiva, di battere moneta indipendentemente dalle decisioni dell’Unione. Ciò fa sì che nessuno dei singoli Stati sia in grado da solo di produrre un vero cambiamento di sistema. Quando la Grecia ha provato ad alzare la testa, è stata costretta rapidamente a una resa umiliante. Ma è anche vero che è solo all’interno di alcuni Stati che sono nate le uniche forme di resistenza – subito squalificate come populiste – al modello neoliberale dominante. Cosa debba, o possa, intendersi oggi per populismo rimane largamente impregiudicato. Ma è difficile continuare a parlare di democrazia fuori dal riferimento a un popolo sovrano. Una volta che il modello liberal-democratico, da diversi decenni egemone in Europa, si è spaccato, se il neo-liberalismo si è generalizzato a livello globale, un residuo di democrazia appare possibile solo all’interno dei singoli Stati nazionali. È solo lì che al momento possono generarsi conflitti politici. Ma lo sgretolamento del paradigma imperiale elaborato da Hardt e Negri determina uno sfaldamento anche delle due categorie, che dialetticamente ne derivavano, di moltitudine e di comune. Esse erano pensate dentro e contro l’orizzonte dell’impero in concomitanza con il tramonto della sovranità politica e la mutazione biopolitica del lavoro. Tra queste due fenomenologie vi è uno stretto rapporto, nel senso che l’espansione del lavoro immateriale è strutturalmente connessa con le dinamiche di deterritorializzazione. L’ipotesi su cui Negri ha lavorato in questi anni è che il capitalismo cognitivo, basato sulla diffusione del general Intellect, generi da sé le condizioni del suo superamento, come il mondo feudale ha creato le condizioni per la genesi della società borghese. Il presupposto ottimistico di tale ipotesi è che il dispiegarsi della produzione immateriale, una volta liberata dalle catene del capitale e dai vincoli imperiali, produca le condizioni di una nuova socializzazione, incarnata dalla moltitudine.
Ma ciò presuppone, a sua volta, un’altra condizione, tutt’altro che pacifica. E cioè la neutralità degli strumenti di produzione, disponibili a passare dal regime capitalistico a un diverso regime ad alto tasso di socializzazione. Tale neutralità è lontana dall’esser tale. La tecnologia, anche quella informatica, incorpora codici e dispositivi di comando che ne predeterminano modalità ed effetti. Lo sviluppo tecnologico non è separabile dal comando capitalistico che lo dirige, orientandolo ai propri fini. Né le nuove forme di lavoro cognitivo liberano potenzialità capaci di immetterle in un diverso regime. Al contrario, il lavoro intellettuale, come quello materiale, è sempre più condizionato dai vincoli del mercato capitalistico e dall’economia finanziaria. È vero che anche attraverso quel canale si generano nuove forme di soggettivazione. Ma esse, tutt’altro che libere, sono forgiate dai dispositivi neo-liberali in termini di capitale umano. Dunque, c’è da chiedersi: il lavoro, la produzione immateriale libera veramente dai vincoli imperiali, dai vincoli del comando capitalistico e produce nuove forme di società e socializzazione, che dovrebbero essere incarnate dalla moltitudine? Ciò determina conseguenze assai problematiche sulla stessa categoria di moltitudine, aprendo una rilevante domanda politica. Innanzitutto quanto alla sua composizione da parte di segmenti troppo diversi per costituire una soggettività in qualche modo omogenea o almeno articolabile in un insieme unitario.
Come montare tra loro pezzi di lavoro cognitivo ad alta qualificazione specialistica con mano d’opera emarginata o lavoro immigrato clandestinamente? Fanno parte di una stessa soggettività plurale e singolare definibile come moltitudine? E si possono sommare, nella stessa categoria romantica di esodo, la migrazione dei laureati, che cambiano Paese alla ricerca di lavori più remunerativi, con quella di coloro che scappano dalla guerra e dalla fame? Ma, prima ancora, come può, simile moltitudine, acquisire una connotazione politica, passare appunto dall’ambito sociale e ontologico a quello politico? Cosa può spingere le singolarità da cui è fatta ad unirsi in un unico fronte? E contro chi? Dove passa, esattamente, la linea del conflitto, necessaria a ogni dinamica politica? Anche da questo lato torna il discorso del negativo, in qualche modo esclusa dal discorso di Negri talmente affermativo, talmente affidato alla potenza immanente delle cose, che a volte sembra restare senza confini, senza limite. Ma senza limite come si costruisce l’alleanza politica e contro chi? Chi sono gli amici – o almeno gli alleati – e qual è il nemico? Come Negri dice: occorre riprendere il lavoro politico. Ma riprendere il lavoro politico significa individuare alleanze possibili e il nemico comune.
La mia impressione è che, una volta assunta come centrale la categoria economica di produzione – come fa Negri – essa stenti ad acquisire un’effettiva caratterizzazione politica e dunque a trasformarsi in una categoria politica. Come hanno sostenuto Dardot e Laval, la categoria su cui bisognerebbe sforzarsi di lavorare è quella di istituzione, più interna al lessico giuridico-politico. È come se, nella prospettiva di Negri, si alternassero, o sovrapponessero, un paradigma iperpolitico ed uno impolitico, senza mai cogliere in pieno il piano del politico. La sua linea di discorso, che si vuole mobilitante, non rischia di produrre un esito quietistico? Se la trasformazione è oggettivamente già in atto nei processi di modificazione del lavoro – verrebbe da chiedersi – perché intervenire politicamente? In Negri la via per questa traslazione concettuale dall’economico al politico passa per l’ontologia. Qui si sente la presenza del modello spinoziano rielaborato attraverso un forte riferimento al piano di immanenza di Deleuze. Ma il passaggio dall’ontologia alla politica resta problematico, perché, mentre un’ontologia radicalmente affermativa è pensabile, per la politica il discorso è meno semplice. Non bisogna confondere il proprio punto di vista affermativo con una cancellazione della realtà del negativo. Il negativo esiste. E anzi, in molteplici modi, appare dominare lo scenario contemporaneo. Certo, esso va affrontato, gestito, ribaltato. Ma non rimosso. Su questo punto c’è una difficoltà – pratica e teorica – non solo di Negri, ma di tutti noi. Di tutta la biopolitica affermativa, di tutte le filosofie dell’immanenza. Il lavoro di Negri ha costituito per qualche decennio, e ancora costituisce, uno dei più potenti dispositivi filosofico-politici e teoretici con cui ciascuno di noi ha la necessità di confrontarsi. Misurando il suo, ma soprattutto il nostro, limite.
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