Una mostra alla Galleria Nazionale di Roma (13 dicembre 2018 / 23 gennaio 2019) racconta la fine e l’inizio delle forme di mondanità. Tra apocalissi culturali e metafisiche della mescolanza si fa >…
Reincantare o rianimare?
La modernità, la natura e la politica dello spirito
Il testo che segue è stato discusso e presentato dall’autore nell’ambito della tavola rotonda Reincantare il mondo: verso un’ecologia dei fantasmi (ilmondoinfine: vivere tra le rovine, Galleria Nazionale d’arte moderna e contemporanea, Roma 13 dicembre 2018 / 23 gennaio 2019).
Per uno strano ribaltamento delle cose, ciò di cui i moderni erano a lungo andati fieri, dal XVIII secolo alla fine del XX, sembra oggi diventato un motivo di rimpianto, per non dire di pentimento. Se si prende sul serio l’idea, oggigiorno presente in molti discorsi ecologisti, secondo cui bisognerebbe reincantare la natura, ciò che è in causa è la logica d’insieme del progetto moderno. Cos’è successo al partenariato che avevamo stabilito con la natura, perché il progetto di gestione, trasformazione, messa in sicurezza e valorizzazione ci appaia, all’improvviso, come un difetto da correggere, come impoverimento di una relazione carica, in altri tempi, di spiritualità di rispetto?
Riportiamo alla mente i grandi assi di questo progetto moderno: per civilizzare l’umanità – e cioè per mettere a tacere le passioni violente che sottomettono l’uomo ai tiranni e lo mantengono nella povertà – bisogna innanzitutto civilizzare la natura; bisogna innanzitutto svuotare le foreste dai predatori, bonificare le paludi, costruire una rete di strade, far emergere un mondo sicuro nel quale uomini e merci possano circolare senza ostacoli sotto l’autorità della scienza.
Questo processo di civilizzazione, per riprendere i termini del sociologo Norbert Elias, è stato a lungo l’onore delle comunità politiche moderne. La trasformazione cosciente dell’ambiente secondo i principi scoperti dalla scienza permette la conquista dell’autonomia: per essere padroni del nostro destino, della nostra storia, per scegliersi governanti responsabili e giusti, bisogna innanzitutto eliminare, o attenuare, il ruolo della Provvidenza naturale. Bisogna far guerra alle autorità esteriori e illegittime, religiose o naturali che siano. Questa autonomia, valore supremo delle comunità politiche moderne, va dunque di pari passo con un certo modo di rapportarsi all’ambiente naturale – e al cuore di questa relazione, si dice, si trova il disincanto.
Il problema sta, oggi, nel sapere esattamente contro cosa ci si solleva quando si indentifica nel progetto moderno, e nella conquista dell’autonomia che ne costituisce il cuore, un problema ecologico
Il problema sta, oggi, nel sapere esattamente contro cosa ci si solleva quando si indentifica nel progetto moderno, e nella conquista dell’autonomia che ne costituisce il cuore, un problema ecologico. Si tratta di fatto, come sembra indicare il titolo di questa tavola rotonda, di un esacerbarsi della razionalità strumentale e funzionale, che riduce la natura alle sue proprietà fisiche? Si tratta di restituire alla natura le sue componenti spirituali, quelle stesse che la conquista dell’autonomia avrebbe sacrificato, per comprenderla nuovamente come una totalità irriducibile alle leggi della materia e alle sue funzioni economiche?
Questa formulazione del problema è molto seducente, e lo è perché fornisce una soluzione semplice ed elegante a un dilemma che ci tocca tutti: quello dei limiti dell’appropriazione e della trasformazione del mondo naturale. Restituire alla natura le proprietà spirituali che la modernizzazione tecno-scientifica le ha fatto perdere lungo la via significa reinventare un dispositivo di protezione che oggi ci manca. Si suppone, in effetti, che caratterizzando gli esseri non umani come persone, dando prova di una maggiore generosità ontologica e morale nei loro confronti, saremo in grado di garantire loro uno statuto d’eccezione, come quello che, fino a questo momento, avevamo riservato a noi stessi. Saremmo così in grado di farli entrare nel cerchio, fin qui troppo chiuso, delle cose pensanti/fragili/da proteggere.
Questa soluzione è seducente anche perché permette di dare una grande coerenza alla storia della modernità letta come storia del disincanto.
Le mie riserve rispetto a questa idea sono motivate da questo: come mai, nonostante siano nemici, gli ecologisti «reincantatori» e i modernisti «disincantatori» raccontano la stessa storia? Più precisamente: come mai – a parte il fatto che gli uni leggono questa storia come una mutilazione del vero senso della natura mentre gli altri vi vedono il trionfo dell’autonomia – lo schema storico soggiacente è del tutto identico? Volenti o nolenti, avremmo svuotato la natura dagli spiriti che secondo le comunità premoderne la abitavano e che garantivano che non le venisse fatto danno.
Sostenere che sia oggi necessario reincantare la natura, ascoltare nuovamente ciò che – fra gli animali, le piante, l’ambiente e perfino la terra nel suo insieme – somiglia alla manifestazione di una sensibilità o di una soggettività si presenta come una critica della modernità. Tuttavia ciò mi sembra, semmai, un’ambizione tipicamente moderna, in continuità con ciò che il sociologo Emile Durkheim chiamava il culto della persona: nelle società secolarizzare, dove la politica prevale sulla religione, il nostro senso del sacro si sposta dall’aldilà alla persona umana al soggetto morale. Ora, l’attribuire ai non-umani le qualità della persona, il portarli fuori dal regno triste e muto dell’oggettività, è una nuova versione del culto moderno della persona.
Le comunità pre-moderne, a cui spesso il discorso del reincantamento fa riferimento, non si domandano mai se la natura sia, o meno, un’entità spirituale: i non-umani sono parte integrante di relazioni domestiche, economiche, religiose, politiche che ignorano la partizione fra natura e società
A ciò bisogna aggiungere che le comunità pre-moderne, a cui spesso il discorso del reincantamento fa riferimento, non si domandano mai se la natura sia, o meno, un’entità spirituale: i non-umani sono parte integrante di relazioni domestiche, economiche, religiose, politiche che ignorano la partizione fra natura e società. Non hanno al loro fondo un culto dell’autonomia e della persona che bisognerebbe correggere o adattare.
Vorrei provare, molto brevemente, a raccontarvi un altro modo di porre il problema ecologico della modernità. Un modo che non ci costringe ad attribuire alla natura lo statuto ontologico e morale che abbiamo elaborato innanzitutto per noi umani. Credo che un racconto differente ci serva per diverse ragioni, che hanno a che fare con i difetti della tesi basata su «disincanto/reincanto». Tre sono quelle principali:
1. Cosa ce ne facciamo del progetto di autonomia?
Se ipotizziamo che l’accesso all’autonomia abbia come controparte la mutilazione della natura autentica, allora per ristabilire la relazione spirituale al mondo dobbiamo abbandonare l’esigenza di controllo collettivo dei nostri destini? In altri termini, dobbiamo abbandonare l’ideale di giustizia e di uguaglianza insieme a quella della subordinazione della natura? Per limitare le pretese dei moderni di governarsi come comunità separata dal mondo bisogna ridare potere alle autorità spirituali del mondo antico (religione, magia ecc.)? Mi sembra che questa alternativa (da un lato una modernità disincantata che dà potere alla scienza, dall’altro un’ecologia spirituale che non sa bene verso quale autorità girarsi) non sia sufficiente, e non lo è per la semplice ragione che le cose non sono andate così.
2. Come garantire che il reincanto della natura freni le tendenze patologiche della modernità capitalista?
L’altro difetto di questo racconto è che omette di dire che i moderni, a loro modo, danno alla natura delle proprietà spirituali, o diciamo pure sovrannaturali. Ce ne sono almeno due: proprietà estetiche (natura selvaggia, paesaggi sublimi) che vengono attribuite a una natura creduta vergine prima di qualsiasi intervento umano; e proprietà economiche: riteniamo, in modo del tutto magico, che la natura possa fornire indefinitamente risorse abbondanti, inesauribili. La stessa economia moderna riposa su un rapporto fantasmatico con la natura – il presunto disincanto è una mitologia come un’altra. Quindi il problema non è di sapere se la natura sia o meno spiritualizzata, quanto semmai di sapere in che modo lo è.
3. Il nuovo discorso della natura come «soggetto» ci arriva dalle scienze.
Senza l’ecologia scientifica, senza le scienze della terra, senza l’etologia, e cioè senza lo sviluppo degli strumenti scientifici che ci rendono sensibili all’agency dei non-umani, non avremmo i mezzi per rimettere in questione i presunti abusi della scienza. Cosa che risulta un paradosso solo se si presuppone che il problema sia «la scienza».
4. E, dunque, in che termini bisogna porre la questione del rapporto fra modernità, natura e spirito?
Piuttosto che in termini di disincanto/reincanto, propongo di parlarne in termini di disanimazione/rianimazione. La differenza è che si può parlare di un difetto inerente al modo di relazione con la natura nelle società moderne senza doversi pronunciare sul suo carattere spirituale (o meno). E dunque senza far rinascere il conflitto fra i porta-parola temporanei della natura (scienze, tecniche) e i suoi porta-parola religiosi.
La natura disanimata è ciò che si ottiene non già togliendole l’anima, ma diminuendo, in maniera più o meno cosciente, la gamma di relazioni che intratteniamo con essa. Prendiamo ad esempio i processi produttivi basilari della modernità capitalista e tecno-scientifica. La terra è ridotta alle sue proprietà chimiche e morfologiche, si mettono scientemente da parte le interdipendenze organiche tra la fauna dei suoli, il clima, l’acqua, per focalizzarsi su pochi cicli assai semplici (ciclo dell’azoto o dei fosfati…) che consentono di regolare e di preservare in via temporanea la sua fertilità. Le forze motrici impiegate nel processo industriale sono sostanzialmente fossili: il che significa che l’energia non è più incorporata nei corpi animali o umani, a partire da dispositivi che catturano un’energia libera nell’ambiente (vento, sole), ma che vengono consumate riserve combustibili non rinnovabili che si presentano immediatamente sotto forma di merce. Che si tratti della Terra o di fattori risultanti da una produzione industriale, si tratta di riserve considerate come risorse grezze meramente appropriabili e valorizzabili dal capitale. Ciò che attraverso questa trasformazione del rapporto alla natura si perde, più che una relazione spirituale, è un insieme di saperi pratici, tecnici, agrari, un modo per abitare i territori e di cooperare con gli altri viventi.
Questo spiega in parte il nostro smarrimento di fronte al cambiamento climatico. Siamo testimoni di una reazione organica della Terra alle trasformazioni che le imponiamo: i rapporti geofisici ed evolutivi che garantivano l’habitat umano si degradano, vengono alterati e nessuno dei procedimenti tecnici tipici dell’azione tecnica moderna è all’altezza per rispondervi. La Terra colpita dal riscaldamento climatico non chiede che la si rispetti come una persona, che le vengano dati dei diritti, che la si collochi sotto la tutela di autorità spirituali, né che alle energie fossili si sostituiscano altre fonti energetiche cui attingere in abbondanza, ma chiede che la si intenda come una totalità vivente che esige una nuova intelligenza tecnica e politica.
Si tratta di mettere a punto dei dispositivi di interazione tecnica, scientifica, istituzionale che arricchiscono l’alleanza che con la natura possiamo stringere
Questo complesso di problemi non può essere ridotto a un conflitto tra disincanto e reincanto. Identificare le forze e i rapporti sociali che hanno portato alla disanima della natura è una questione molto diversa dal problema della spiritualità del mondo naturale: si tratta di restituirgli una potenza di agire, una dinamica che attiene alle sue caratteristiche materiali ed evolutive e non a un principio immateriale. Non si tratta allora di accoglierlo come un essere o un insieme di esseri dotati di una soggettività, magari giuridica o morale, quanto di mettere a punto dei dispositivi di interazione tecnica, scientifica, istituzionale che arricchiscono l’alleanza che con la natura possiamo stringere.
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