Resistenza contro resilienza

Una nota a partire dall’ultimo libro di Igor Pelgreffi

Claire Fontaine, Balls sculpture - Untitled (tennis ball sculpture) 2008 palle da tennis riempite con vari oggetti non visibili, dimensioni variaibli (2)
Claire Fontaine, Balls sculpture - Untitled (tennis ball sculpture), 2008.

Se perseverare nell’essere vuol dire ripetersi, così alimentando una ciclicità sempre uguale a se stessa, come si spiega il cambiamento? Su un piano sia naturale che etico e politico, come è possibile che un programma fallisca lasciando spazio a qualcosa di non previsto? E dunque, in che modo si passa dall’automatismo all’autenticità, dall’essere esecutori di una partitura impersonale alla costituzione della propria unica e irriducibile singolarità? La risposta che propone Igor Pelgreffi nel suo recente Figure dell’automatismo. Apprendimento, tecnica, corpo (Mimesis, 2022) passa fondamentalmente per due concetti: corpo e relazione.

Naturalmente questa è una sintesi necessariamente carente, considerato che quello in discussione è un testo ponderoso che attraversa semantiche diverse – dall’antropologia alla teoria politica, dalla fenomenologia al decostruzionismo – e che colloca la sua analisi su piani molteplici: ontologia, estetica, sociologia critica del digitale. Tuttavia quelli appena indicati sono davvero i due pivot concettuali che consentono all’autore di ribaltare un’impostazione – teoretica e etico-politica – che è stata egemone nel Ventesimo secolo e che, per certi versi, informa ancora larga parte del dibattito filosofico, ma anche del senso comune. Infatti la decostruzione dell’immagine moderna del soggetto come ente autocentrato, e la conseguente riabilitazione del corpo cui si è dedicata un’ampia parte della riflessione tardo-moderna e contemporanea ha perlopiù aperto all’idea di alterità radicali non assimilabili; il corpo è, in questa prospettiva, l’inappropiabilità stessa, è l’altro come inafferrabile e persino intangibile: il toccare, infatti, per essere tale ha bisogno di una distanza anche minuscola, ma in ogni caso insuperabile. È il rapporto, non la relazione ad aver strutturato la metafisica contemporanea: più evidente nella lingua francese, la differenza tra i due lemmi rimanda al fatto che il rapport si definisce per il ritrarsi dei suoi termini, che invece nella relation sono intrecciati e indiscernibili. È per questo che Lacan può dire che non la relazione, bensì il rapporto (sessuale) non c’è.

Ebbene nello spazio infinitesimo ma infinito che si apre nel rapporto, proprio lì si intrufola, per restarci, la resilienza. Ormai istituzionalizzato dalle pratiche governative, quello di resilienza è il pendant etico di una metafisica della divisione originaria, dello scarto come divario incolmabile. La voragine che scava il profilo delle cose, infatti, oltre a conferire un alone mistico a tutto quanto sta al di là dell’abisso, fa sì che l’alterità si possa manifestare solo ed esclusivamente come colpo, shock evenemenziale: la resilienza è precisamente la capacità, per un corpo, di assorbire passivamente un urto, di vibrare senza spezzarsi, così restando in equilibrio aspettando il prossimo impatto.

Pelgreffi prende una strada diversa, attivando una filiera di autori che va da Spinoza, a Sloterdijk, passando per Simondon e Deleuze, ma che senz’altro trova in Merleau-Ponty il suo vertice teoretico. È, infatti, la figura del chiasma che in queste pagine si recupera, quella di un intreccio nell’immanenza, di un nodo nel quale la passività stessa si risemantizza come una forma di attività: di resistenza. Il saggio che, forse non a caso, occupa la parte centrale del volume, intitolato È possibile una tecnica ecologica?, elabora nella maniera più radicale questa idea dell’intrico. Il concetto apparentemente paradossale di una tecnica ecologica vuole smontare esattamente l’idea di due piani ontologici separati cui corrisponderebbero strategie teoretiche e politiche altrettanto distinte: da una parte «una sorta di integralismo ecologico, tutto spostato sul momento della natura, del vivente in quanto tale, nell’ottica di una deep ecology e del retropensiero di un ritorno alla natura incontaminata come unica via di uscita. Dall’altra, troviamo l’atteggiamento, nonostante tutto, ancora artificialista per il quale nell’elaborazione di una critica dell’esistente tutto è costruzione, segno, linguaggio» (p. 139). L’idea di tecnica ecologica, dunque, non contempla un’attività assoluta che, saldandosi in un dispositivo planetario (ciò che Heidegger pensava in termini di Gestell), si scarica sulla passività di un fondo assolutamente passivo (il Bestand, ancora nel lessico del filosofo di Meßkirch). Si tratta piuttosto di pensare un legame osmotico tra due dimensioni distinguibili solo in termini analitici, e che, da un punto di vista ontologico, fa della tecnica «l’emanazione e il completamento» della physis, e viceversa. Per illustrare il modo in cui la tecnica si intrama in un corpo, Pelgreffi richiama un celebre passo merleau-pontyano nel quale l’autore della Fenomenologia della percezione immagina un organista che, eseguendo una partitura col suo strumento, si lascia riconfigurare passivamente da quest’ultimo, sottoponendosi alle norme che la materialità di esso impone; d’altra parte, però, l’organo entra in funzione solo grazie all’investimento – «emozionale o musicale» dice Merleau-Ponty – del musicista che, così, entra in un possesso attivo dello strumento: in definitiva, il corpo del musicista e il congegno al quale egli si siede costituiscono nient’altro che il luogo di passaggio di una relazione nella quale non è possibile individuare un polo inerte (in un altro capitolo, lo stesso discorso è da Pelgreffi riferito alla situazione paradossale dell’attore teatrale che deve ripetere a memoria un testo e, in questa ripetizione, vivificarlo; più in generale, si tratta della condizione della vita quotidiana, pure esaminata in queste pagine, nella quale l’autenticità è sempre nient’altro che un equilibrio precario sull’automatismo).

La mera ripetizione di uno spartito, infatti, non è mai un fatto meramente automatico, perché esso avviene solo attraverso la resistenza del corpo. Quest’ultima va intesa anzitutto come quella riottosità manifestata da un corpo ogni volta che deve apprendere una nuova tecnica; nella relazione chiasmatica, infatti, il corpo esprime una sua verità specifica che impedisce alla tecnica appresa di ripetersi sempre uguale: le impone, piuttosto, di differenziarsi nella ripetizione. Questo vuol dire che la relazione rende sempre «possibile disapprendere e dis-automatizzare il processo, e in qualche modo anche apprendere a resistere» (p. 159). In ogni automatismo, cioè, vi è un elemento opaco, non prevedibile né dialettizzabile, costituito proprio dal corpo, dalla relazione vivente che esso produce: la resistenza, quindi, va intesa anche nel senso del contributo affermativo che il corpo offre e grazie al quale soltanto un evento ha luogo. Sempre e ovunque, anche là dove un cieco meccanismo sembra dominare, c’è un margine di intervento che è reso possibile dal fatto che qualsiasi dispositivo può entrare in funzione solo nella relazione con corpi che oppongono una resistenza produttiva: abbiamo sempre a che fare con una «una relazione che è al contempo anarchica e formante, ovvero senza forma ma sempre produttrice di forma» (pp. 142-143). In questa prospettiva il mondo appare come una trama estremamente fitta, costituita da infiniti nodi che sfuggono costitutivamente alla totalizzazione poiché in essi si attivano «relazioni agonistiche e sempre parzializzanti, dettate da equilibri solo metastabili e mai decise (come isomorficamente mai deciso è l’individuo, se lo si coglie come processo di individuazione)» (p. 147).

Si può contestare a Pelgreffi di aver adottato una prospettiva che privilegia il vivente, escludendo dalla sua analisi ciò che si separa dall’organizzazione immanente della vita: il corpo sempre inserito in relazioni produttive di cui qui si parla è il Leib, mai il Körper, ombra del primo, pura immediatezza refrattaria alla relazione, mera distanza del rapporto. Tuttavia l’importanza di una ricerca come quella da lui proposta sta nella capacità di dare conto del divenire senza rimetterlo all’oscurità di un’agency radicalmente altra, rispetto alla quale non ci si può che disporre in maniera passiva, come in attesa, secondo le semantiche dell’abbandono o del désœuvrement variamente interpretate. Da queste ricerche emerge che qui, nella spessa e opaca immanenza dove siamo, sta una potenza che non può esserci alienata perché coincide col nostro posizionamento stesso: nelle stesse relazioni in cui siamo catturati c’è la risorsa per creare nuove e alternative tessiture, non determinabili a priori, ma che coincidono con il farsi dell’esperienza in quanto sperimentazione, in quanto resistenza.

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